
La tempesta dei favorevoli e contrari scatenatasi dalla primissima
proiezione veneziana di Buongiorno, Notte, ne sottolinea, oltre la non
scontata querelle tra colpevolisti e innocentisti, il suo valore. Il poter
di far discutere del mezzo cinematografico, come strumento civile, sociale
e indubbiamente politico, ma, soprattutto, nel suo senso estetico, che ha
richiamato in vita (per qualche giorno o solo per qualche fresca sera di
fine estate) il dibattito critico che, nostalgicamente, Bertolucci metteva
in scena giusto qualche tempo prima, nella stessa sede veneziana.
Il bisogno di discutere, e di mettere in dubbio il significato ed i
significanti dell'opera d'arte.
Le polemiche fanno bene all'autore- commercialmente e, forse,
artisticamente. Di rado, negli ultimi tempi, si era letto tanto bene, a
ragione, e tanto male: seguendo il filo logico, anche in questo caso a
ragione. Buongiorno, Notte
è stato un film attesissimo, un racconto che incrocia il caso Moro e non
spiega (come Piazza delle Cinque
Lune di Martinelli), una tragedia di coscienza. Una possibile
realtà che potrebbe o meno corrispondere allo stato delle fatti, che
ricostruisce in totale libertà drammaturgica un aspetto così doloroso
della nostra storia da diventare tabù. Il coraggio di Bellocchio, il
regista che mostrava, sotto il cielo del paternalismo cattolico, la
fellatio politica de Il Diavolo in corpo, ed in più recenti tempi di
paternalismo pseudo-liberale la spudorata autocertificazione di essere
vivente: una bestemmia aperta al più grande dei nosocomi mondani e
festivalieri, Cannes.
Un film difficile, da leggere e da spiegare, intenso ed emozionante, che
colpisce una ferita aperta senza giustificazioni o chiavi di lettura.
Nel libero arbitrio assoluto dello spettatore, dentro le speranze e le
contraddizioni di un epoca, i risentimenti, la follia dell'animo umano,
come atto d'accusa chiaro pur senza essere dichiarato, la testimonianza di
una solitudine politica che non chiede parole, ma si affida soltanto, tra
le righe, ai documenti, quelli dell'epoca, delle televisioni e dei
giornali.
Voto:
27/30
05.09.2003
|
Come ogni buon romanziere o grande artista che arrivato a un certo punto
della sua carriera sente che è anche possibile accettare dei lavori su
commissione, così Bellocchio ha accettato la sfida di fare un film sul
buco nero della storia italiana degli ultimi cinquant'anni, sul punto
d'accumulazione di tutte le tensioni e i conflitti che scoppiati
nell'immediato dopoguerra sono arrivati esplodere-implodere il 10
maggio'78 (sempre i fatidici maggi) nel cofano di una Renault.
Al pari di un pittore rinascimentale, Bellocchio ha preso un tema e l'ha
depurato di tutto ciò che non poteva avere a che fare con la tela. Si
intuisce dalla prima inquadratura: un appartamento al buio che viene
descritto e nonostante vengano aperte finestre e persiane, nonostante si
cerchi di illuminarlo, i chiaro-scuri avvolgono i personaggi. Questo è un
preciso patto con lo spettatore, una dichiarazione d'intenti, si entra in
un film dove nulla è sicuro e tutto è lasciato alle empatie disancorate di
senso.
Il caso Moro è un argomento forte, da cinema civile. La Rai avrà pensato
al film autoriale sul dramma storico del paese, ma fin dall'inizio
Bellocchio mostra di non interessarsi tanto alle vicende già sentite, già
dette, già viste. Per inciso Bellocchio è un regista che in quegli anni
con il suo cinema era in prima linea nell'ondata di protesta che accendeva
il conflitto sociale. Al di là del magnifico esordio dei "Pugni
in tasca", film come Nel
nome del padre, Sbatti il mostro in prima pagina, Marcia trionfale, La
cina è vicina erano attacchi alle istituzioni chiave della società:
famiglia, religione, potere dell'informazione, partiti politici,
istituzioni militari... E un importanza storica riveste
Matti da slegare, girato
con Silvano Agosti, documentario che mostrò per la prima volta la cruda
realtà dei manicomi e guidò all'approvazione della legge Basaglia. (E il
regista non esiterà a scivolare con la macchina da presa dal dibattito
televisivo sulla legge alla condanna a morte di Moro).
Bellocchio ha dichiarato fin dall'inizio di non perseguire una verità
storica, di non sentire il bisogno di esprimere la realtà dei fatti e
acquisavano un aura di insulso ridicolo i commentatori che in seconda
battuta s'affrettavano a sentenziare: "solo in questo modo si potrà
arrivare alla verità su ciò che è realmente accaduto ad Aldo Moro". La
furbizia con il quale il regista ha condotto l'operazione "Buongiorno,
notte", ricorda in un certo senso il Bertolucci che dopo l'Ultimo
tango si fece finanziare
Novecento dai produttori americani. Era una gioia per il regista
parmense pensare di girare col capitale americano un film sfegatatamente
marxista. E penso che alla fine della proiezione ufficiale Bellocchio
abbia sorriso (il sorriso di mia madre... l'Ora
di religione, altra ispirazione ripiegata su di sè) pensando al suo
film sui padri (e forse scrivere padri con la maiuscola renderebbe più
giustizia al termine per come lo esprime Bellocchio) finanziato per
restituire la verità storica sulla vicenda dello statista democristiano.
Aldo Moro, i brigatisti, il rapimento sono il puro pretesto per costruire
un atmosfera in un appartamento. Aldo Moro è un padre, un nonno, ne viene
quasi esautorata la carica politica, gli avvenimenti dei cinquantacinque
giorni entrano nella stanza per creare tensione, per creare situazioni, ma
i veri oggetti colmi di significante dell'appartamento sono i tre
passaggi: il buco nascosto dalla libreria che comunica con la cella, lo
spioncino e la porta dietro il quale è tenuto il prigioniero. Non a caso
l'inizio del film è dedicato alla certosina costruzione di questo
nascondiglio dentro il quale verrà riversato il contenuto di un vaso di
Pandora che di lì a poco inizierà a far gravitare tutto su di sè. I
movimenti che prendono vita non sono innescati dalla persona che sta
all'interno dell'intercapedine, ma sono procurati dalla parte che quella
cella occupa nell'inconscio dei quattro 'soldati' brigatisti. C'è un buco,
un vuoto attorno al quale gravita tutto l'inconscio e i brigatisti hanno
riempito quella casella vuota non sapendo ciò che questo procurerà, non
solo a loro, ma a un intero paese. Mariano, Chiara, Ernesto a tappe
entrano nel buco, spiano, Mariano parla col prigioniero e senza
accorgersene si confronta con una parte di sè che sta rinnegando. Mariano
dirà "Voi credete al paradiso, la morte non vi fa paura, figurati che da
piccolo avevo fretta di morire per vedere com'era il paradiso", in due
righe di dialogo il duro Mariano ammette di essere stato cattolico, di
provenire dalla radice culturale di Moro, ma la rifiuta, per lui quelle
cose suonano come uno scherzo. Salvo poi sentirsi dire da Moro in un
discorso sempre sulla morte e le idee, sulla forza che proviene
dall'essere disposti a immolarsi per le proprie idee, che "In fondo anche
la vostra è una religione..". A volte senza saperlo i brigatisti riversano
nel loro comunismo l'indole di un cattolicesimo, che anche se rifiutato,
non manca mai di produrre effetti. In un profondo scavo il comunismo
proprio dell'immaginario dei quattro ragazzi, quello delle parate
sovietiche, delle panchine di Lenin, dell'effigie di Stalin è venato di
sentimenti cristiani. Loro si eleggono guerriglieri dell'ideologia, dicono
di essere disposti a morire per il comunismo e Moro gli fa notare che
anche i cristiani hanno avuto dei martiri, hanno avuto le loro crociate,
loro accusano la democrazia cristina come partito e vogliono processarne
il simbolo, e Moro dice che "la democrazia cristiana è votata dagli
impiegati, dagli operai (...) dalle persone che vogliono vivere in pace,
modestamente". I brigatisti lottano per l'ideologia senza rendersi conto
che la loro è una disperata lotta intrapresa con la passione e i modi che
gli hanno insegnato da piccoli in chiesa, il comunismo che immaginano non
è altro che il paradiso, e invece di aspettare la morte per vederlo, loro
vogliono accorciare il lasso temporale e crearlo per quanto possibile
sulla terra.
L'uomo incanutito, non è più Aldo Moro, è "la Cosa", ciò che Freud ha
definito come il Das Ding al centro dell'inconscio,
nell'appartamento è inscenato il trauma di una generazione che nel cercare
la rivoluzione ha tentato di uccidere i Padri. Il regista traccia le
coordinate dell'animo che portò a certe decisioni e, paradossalmente, il
film si divincola dalla
contestualizzazione esplicita del '78 per astrarsi a un livello simbolico
che ne fa un potente opera tragica.
Quando Chiara ha i suoi contatti col mondo esterno, quando la televisione
in costante sottofondo mostra le immagini del primo trash televisivo
s'innesca da parte dei sequestratori un meccanismo delirante attraverso il
quale il sintomo diventa prospettiva metonimica della realtà. Una stella
rossa a cinque punte disegnata nell'ascensore dell'ufficio dove lavora
Chiara ha più valore rispetto al comizio di Luciano Lama o una notizia
letta sui quotidiani e non ci si avvede dell'italia volgare e caciarona
delle Carrà che sta nascendo davanti ai loro occhi (anche se è difficile
fargliene una
colpa, pochi in quel periodo avevano realmente capito il potere che quella
televisione avrebbe esercitato). Il principio di realtà viene
completamente risucchiato dal perseguimento dell'ideologia, la tragedia
arriva dallo scontro tra la manifestazione della volontà di potenza e
l'oggetto verso cui è rivolta tale azione. Nella perdita di contatto con
la realtà o lottando proprio su un piano di realtà, di sopraffazione
reciproca per la conquista del potere Mariano pronuncia discorsi
dottrinali che sono speculari a quelli usati dall'avversario per
annientarli. Bellocchio mette negli scatti di Ernesto, che cerca di
discutere degli avvenimenti e vuole rivedere la sua ragazza, e del
brigatista che cura ossessivamente dei canarini in gabbia, quasi metafora
dell'inutile tentativo di non far aprire quel buco nero dell'inconscio,
l'apparente controllo della tempesta emotiva che si sta scatenando, mentre
con Chiara (un Antigone che intuisce l'impossibilità di seppellire un
cadavere) decide di far reagire lo stato di crisi attraverso il
personaggio dell'amico bibliotecario, che di lì a poco riesce grazie a una
certa distanza, a un Aleph dello sguardo ad articolare una lucida analisi.
Da una sua sceneggiatura "Buongiorno, notte", che all'inizio Mariano ha
anche ritrovato nelle borse di Moro e che ha fatto bruciare, che Chiara
leggerà e che diventerà proprio il film di Bellocchio, s'avvia una
discussione sull'inutilità della lotta condotta con gli stessi sistemi di
chi si vuole combattere e sul potere dell'immaginazione.
Nella sceneggiatura (nel film) Moro esce dalla prigione, dall'appartamento
e s'avvia solo, avvolto in un cappotto verso il palazzo de chirichiano
dell'Eur . Nell'immaginazione il padre viene riconosciuto e liberato, chi
ha la capacità di pensare s'accorge che il problema non è nelle autorità
al potere, ma nelle contraddizioni, nei soprusi che ogni sistema di potere
invariabilmente genera. Al grido di Chiara, "Ma quella è l'immaginazione
non è la realtà", viene risposto, "Ma cosa credi che l'immaginazione non
sia una forma di realtà". Il ragazzo piuttosto che il proletariato al
potere, vorrebbe l'immaginazione al potere, e nel film non si sa come, né
perché, sarà arrestato. Pagherà per aver osato immaginare?
Ma cos'è Aldo Moro in quel cubicolo? Aldo Moro è l'etica del linguaggio.
L'etica più profonda e radicata nella nostra società, l'etica legata anche
alla religione cattolica. Moro è il simbolo del nostro modo di pensare, di
manifestare i sentimenti, di creare gerarchie di valori che non possiamo
scollarci di dosso, perché è quello dei Padri. O meglio quel
Nel nome del padre (altro
titolo di un film di Bellocchio, già citato), che è pressocchè impossibile
dimenticare. Con Buongiorno, notte,
Bellocchio finge di fare un film sul caso Moro, e invece crea un opera
sull'impossibiltà di uccidere i padri.
 |