
Jean Baudrillard ha scritto che gli Stati Uniti sarebbero da buttare via se
non ci fosse un (non) luogo per eccellenza chiamato deserto. Si può
facilmente ipotizzare che il filosofo cineasta Bruno Dumont abbia preso alla
lettera tutto ciò se è vero che nel suo terzo lungometraggio
Twentynine Palms il
protagonista è il deserto. Deserto di corpi, di cieli, di sessualità
desertificate fino all’estremo tanto da stimolare nello spettatore – come
ogni film estremo che si rispetti! – il riso, la nausea o la fuga. Più
Antonioni dell’Antonioni di
Zabriskie Point, Dumont non ci racconta nulla se non un eterno e
logorante tempo morto: lui è un fotografo alla ricerca di nuovi luoghi per
una rivista, lei, francese, lo accompagna perché lo ama. Insieme si trovano
nella città di Twentynine Palms, circondata dal deserto e da una musica
country ossessiva, ripetitiva e allucinante nella sua indolenza. L’albergo
altro non riflette se non un quadro iperrealista con la sua piscina azzurra
da sembrare finta, alludendo forse inconsapevolmente alla bizzarra e ironica
rilettura di Viale del tramonto secondo Paul Morrissey: Calore. Non c’è più
niente da vedere, da sentire, da comunicare, da scopare. Anzi, il sesso per
Dumont è l’origine mitica di ogni violenza, d’ogni animalesca sopraffazione.
Il resto è silenzio, noia. Gli amplessi dei due protagonisti non eccitano,
non emanano alcun piacere, ma solo disgusto. Lo fanno male, talmente male
che le scene di sesso di Intimacy
sembrano delle armoniche gare olimpioniche. Non c’è più niente da vedere,
tanto che il cinema del cineasta francese diventa sempre più installazione
di un teatro della crudeltà ripetuto all’infinito proprio come l’abominevole
motivetto country. Lo stupro finale non è più un’eccezione visto che anche
quando si scopa, si violenta. Prendere o lasciare. Il sesso fa schifo.
Voto: 30/30
27.08.2003
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