60. mostra internazionale di arte cinematografica

 

Twentynine Palms 

di Bruno Dumont

con: Katia Golubeva, David Wissak 

In Concorso

di Domenico MONETTI


Jean Baudrillard ha scritto che gli Stati Uniti sarebbero da buttare via se non ci fosse un (non) luogo per eccellenza chiamato deserto. Si può facilmente ipotizzare che il filosofo cineasta Bruno Dumont abbia preso alla lettera tutto ciò se è vero che nel suo terzo lungometraggio Twentynine Palms il protagonista è il deserto. Deserto di corpi, di cieli, di sessualità desertificate fino all’estremo tanto da stimolare nello spettatore – come ogni film estremo che si rispetti! – il riso, la nausea o la fuga. Più Antonioni dell’Antonioni di Zabriskie Point, Dumont non ci racconta nulla se non un eterno e logorante tempo morto: lui è un fotografo alla ricerca di nuovi luoghi per una rivista, lei, francese, lo accompagna perché lo ama. Insieme si trovano nella città di Twentynine Palms, circondata dal deserto e da una musica country ossessiva, ripetitiva e allucinante nella sua indolenza. L’albergo altro non riflette se non un quadro iperrealista con la sua piscina azzurra da sembrare finta, alludendo forse inconsapevolmente alla bizzarra e ironica rilettura di Viale del tramonto secondo Paul Morrissey: Calore. Non c’è più niente da vedere, da sentire, da comunicare, da scopare. Anzi, il sesso per Dumont è l’origine mitica di ogni violenza, d’ogni animalesca sopraffazione. Il resto è silenzio, noia. Gli amplessi dei due protagonisti non eccitano, non emanano alcun piacere, ma solo disgusto. Lo fanno male, talmente male che le scene di sesso di Intimacy sembrano delle armoniche gare olimpioniche. Non c’è più niente da vedere, tanto che il cinema del cineasta francese diventa sempre più installazione di un teatro della crudeltà ripetuto all’infinito proprio come l’abominevole motivetto country. Lo stupro finale non è più un’eccezione visto che anche quando si scopa, si violenta. Prendere o lasciare. Il sesso fa schifo.
 

Voto: 30/30

27.08.2003

 

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