LUNGOMETRAGGI
BETWEEN STRANGERS
di Edoardo Ponti
Con Sophia Loren, Gerard Depardieu, Mira Sorvino, Malcolm McDowell
LA VIRGEN DE LA LUJURIA
di Arturo Ripstein
ROKUGATSU NO HEBI (A SNAKE OF JUNE)
di Shinya Tsukamoto - 77'
con Asuka Kurosawa, Yuji Koutari, Shinya Tsukamoto
DOLLS di Takeshi Kitano - 113'
con Miho Kanno, Hidetoshi Nishijima, Tatsuya Mihashi, Chieko Matsubara
ZENDAN-E ZANAN (Women's prison) di
Manijeh Hekmat Zendan-e Zanan
NACKT
di Doris Dörrie - 100'
con Heike Makatsch, Benno Fürmann, Alexandra Maria Lara, Jürgen
Vogel, Nina Hoss, Mehmet Kurtulus
FÜHRER EX
di Winfried Bonengel - 105'
con Christian Blümel, Aaron Hildebrand
KEN PARK di Larry Clark, Ed Lachman - 96'
con James Ransone, Tiffany Limos, Stephen Jasso, James Bullard, Mike Apaletegui,
Adam Chubbuck
DIRTY PRETTY THINGS di Stephen Frears - 98'
con Audrey Tautou, Chiwetel Ejiofor, Sergi Lopez, Sophie Okonedo
UN
VIAGGIO CHIAMATO AMORE di Michele
Placido
con Laura Morante e Stefano Accorsi
FAR FROM HEAVEN
di Todd Haynes - 107'
con Julianne Moore, Dennis Quaid, Dennis Haysbert, Viola Devis
FULL FRONTAL
di Steven Soderbergh - 111'
con Blair Underwood, Julia Roberts, David Hyde Pierce, Catherine Keener,
Mary McCormack, David Duchovny
THE TRACKER
di Rolf de Heer - 98'
con David Gulpilil, Gary Sweet, Damon Gameau
K-19: THE WIDOWMAKER
di Kathryn Bigelow - 137'
con Harrison Ford, Liam Neeson, Peter Sarsgaard, Christian Camargo
THE MAGDALENE SISTERS
di Peter Mullan - 119'
con Geraldine McEwan, Eileen Walsh, Nora Jane Noone, Anne Marie Duff,
Dorothy Duffy
ROAD TO PERDITION
di Sam Mendes - 119'
con Tom Hanks, Paul Newman, Tyler Hoechlin, Daniel Craig, Jude Law, Stanley
Tucci, Jennifer Jason Leigh
LILJA 4-EVER
di Lukas Moodysson - 109' con Oksana Akinshina,
Artiom Bogucharskij
NHA FALA di Flora Gomes - 90'
con Fatou N'Diaye, Jean-Cristophe Dollé, Angelo Torres, Bia Gomes,
Jorge Biague, Carlos Imbombo, Danielle Evenou
ROGER DODGER di Dylan Kidd - 104'
LA FORZA DEL PASSATO di Piergiorgio Gay - 98'
con Bruno Ganz, Sergio Rubini, Sandra Ceccarelli, Mariangela D'Abbraccio,
Valeria Moriconi, Giuseppe Battiston
BLOOD WORKS
di Clint Eastwood - 110'
con Clint Eastwood, Jeff Daniels, Wanda De Jesus, Anjelica Huston
DUE AMICI di
Spiro Scimone e Francesco Sframeli
FRIDA di Julie Taymor - 118'
con Salma Hayek, Alfred Molina, Geoffrey Rush, Ashley Judd, Edward Norton,
Antonio Banderas.
PASOS DE BAILE (DANCER UPSTAIRS) di John Malkovich - 135'
con Javier Bardem, Laura Morante, Juan Diego Botto, Elvira Minguez
UN HOMME SANS L'OCCIDENT di
Raymond Depardon - 105'
con Ali Hamit
L'HOMME DU TRAIN
di Patrice Leconte - 90'
con Jean Rochefort, Johnny Hallyday, Jean-François Stevenin, Charlie
Nelson, Pascal Parmentier, Isabelle Petit-Jacques, Edith Scob
NUOMOS SUTARTIS (THE LEASE)
di Kristijonas Vildziunas
con Larisa Kalpokaite, Dalia Micheleviciute, Tomas Tamosaitis - 78
AU PLUS PRÈS DU PARADIS
di Tonie Marshall - 129'
con Catherine Deneuve, William Hurt, Bernard Lecoq, Hélène
Fillieres, Nathalie Richard, Gilbert Melki
UN HONNÊTE COMMERÇANT
di Philippe Blasband - 93'
VENDREDI SOIR
di Claire Denis - 90'
con Valérie Lemercier, Vincent Lindon
VELOCITÀ MASSIMA
di Daniele Vicari - 111'
con Valerio Mastandrea, Cristiano Morroni, Alessia Barela
RIPLEY'S GAME
di Liliana Cavani - 110'
con John Malkovich, Dougray Scott, Ray Winstone, Lena Headey, Chiara Caselli
MEILI SHIGUANG (THE BEST OF TIMES)
di Chang Tso-chi - 112'
con Wing Fan, Gao Meng-Jie, Yu Wan-Mei,
Tien Mao-Ying
L'ANIMA GEMELLA di Sergio Rubini - 104'
con Valentina Cervi, Violante Placido, Michele Venitucci, Sergio Rubini
ROSA FUNZECA
di Aurelio Grimaldi - 90'
MY NAME IS TANINO di
Paolo Virzì con Corrado Fortuna, Mimmo Mignemi, Frank Crudele, Rachel
McAdams, Jessica De Marco.
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FULL FRONTAL
di Steven Soderbergh
Un regista sopravvalutato, che vive di alterne fortune, come diretta conseguenza
di un talento ancora tutto da verificare, spesso espressosi attraverso
una serie di prese di posizioni tra l`estetico e l`ideologico, che hanno
la programmatica capacita' di produrre irritazione, come tutti coloro
che sentono la necessita' di farsi notare per il loro personale e transitorio
dogma del momento [ che cosa era, se non questo, SEX LIES AND VIDEOTAPES
?] ed evitano di confrontarsi con le regole interne alla scrittura e alla
direzione di attori, sedimentate lungo piu' di un secolo.
Cannes fu molto benevola con quel film, secondo una prassi tipicamente
francese, fatta d'innamoramenti e amour fou incontrollati, necessitanti
indispensabili fasi revisionistiche, e altrettanto lo sono stati pubblico
e stampa [ internazionali? solo americani? ] con la seconda
carriera di un enfant prodige mai nato. TRAFFIC, OCEAN'S ELEVEN e questo
FULL FRONTAL, infatti, non dimostrano un bel niente, se non una vaga capacita'
di confondere le idee con espedienti mai strutturali, con trovate irritanti
e un eclettismo sintomo di persistente mancanza d'ispirazione.
Come si possa gridare al miracolo per le 4 tonalita' cromatiche legate
a distinte situazioni e personaggi in un discreto film come TRAFFIC o
per il divertente cast di OCEAN'S ELEVEN, rimane un mistero assoluto,
nascosto all'interno delle perverse logiche produttive degli studios americani.
A nostro parere, un regista che completa il suddetto terzetto di pellicole
col precedente OUT OF SIGHT [.....], manca proprio di un'idea personale
del cinema. E cio' che nega o pretende di negare con FULL FRONTAL, andando
a zonzo con una stradigerita videocamera a mano, e' qualcosa che andrebbe
invece combattuto con le sue stesse armi: costruzione, fatica, e poi magari
contestazione dall'interno di questa gabbia concettuale e pratica con
la quale tutti lavorano.
L'ennesimo film nel film, la contrapposizione da asilo nido di pellicola
[ appunto il film "vero" ] e formato anomalo povero e ruffiano
[ l'aggancio intelligente al mondo reale delle star e di altre figure
], rappresentano il modo intollerabile con cui hollywood si mette a posto
la coscienza, lavandosi ogni tanto le mani con escursioni estemporaneee
nei territori della logica indipendente e del cinema "sperimentale".
Tiene banco, invece, un calibratissimo e disonesto controllo dei materiali
messi in campo, a partire da una iper-scrittura lungamente limata a tavolino,
che vuole spacciare improbabili anomalie sociali [ il tizio che vive la
vita con addosso il mantello del conte Dracula, l'attore che per fedelta'
ad un suo "metodo" recitativo diventa Hitler nell'irritante
accumulo di scene dedicate alla pie'ce teatrale, i test attitudinali inventati
dalla yuppie Keener, in crisi esistenziale alla soglia dei quaranta, la
tortilla alla marijuana mangiata dal cane... ] per la normalita' agghiacciante
che un illuminato intellettuale ha il coraggio di ritrarre con la benevola
ironia di chi non si erge a emettere giudizi, conscio come e' del fatto
che "siamo tutti tragicamente uguali in questo underworld dopo l'
11 settembre".
Come dire: attenzione, siamo in crisi, la morale americana e un senso
della vita radicato nei principi della conquista e della difesa di tale
conquista, lasciano il passo ad una deriva dei sentimenti e dei pricipi,
che azzererebbe il senso di minimale solidarieta' tra esseri umani, se
non sapessimo ridere di noi stessi e di questi comrades appena piu' sfortunati
di noi che li raccontiamo sullo schermo - NOI che siamo il regista acclamato
di Beverly Hills, cui un'operazione del genere costa la fatica di una
circumnavigazione del proprio isolato [ perche' non mi parli in digitale
di South Central Los Angeles? Perche' non ti sporchi le mani un pochettino?
].
Personalmente mi sono alzato e sono uscito dalla sala, mentre mi girava
in testa l'idea di quanto siano ingenui gli americani, convinti veramente
di fare Cultura quando si allontanano due minuti dall' hortus conclusus
degli studios e, insieme a cio', quanto ridicolo sia il complessivo scopiazzamento
di Altman e American Beauty messo in atto da questo strano personaggio
dal viso e dallo sguardo inquietanti, cui qualcuno ha deciso di assegnare
l' Oscar poco tempo fa.
GABRIELE FRANCIONI
Voto: 21/30
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LA VIRGEN DE LA LUJURIA
di Arturo Ripstein
Lui ama lei, che però ama un altro, il tutto condito in una salsa
barocca dal sapore surrealista.
Con "La virgen de la lujuria" Arturo Ripstein professa ancora
una volta, e fortemente, il proprio "debito formativo" con Buñuel
(non dimentichiamo, e non dimentica evidentemente neanche lui,di essere
stato suo aiuto regista ne "L'angelo sterminatore").
Nel Messico degli anni Quaranta il cameriere Ignacio Jurado (Luis Felipe
Tovar) vede la propria -tranquilla e monotona- vita sconvolta dall'arrivo
irruento della sensuale Lola (Adriana Gil), prostituta dal passato burrascoso
e dal presente incerto in cerca di Gardenia Wilson (Alberto Estrella),
muscoloso lottatore mascherato con in previsione -si dice- un radioso
futuro come star di Hollywood.
L'amour fou che Ignacio nutre per Lola si traduce sullo schermo in travolgenti
leccate d'alluce (buñueliane) e nell'impossibilità, per
il succube cameriere, di rifiutare a Lola qualunque richiesta, anche bruciare
la preziosa collezione di foto pornografiche e, magari, uccidere Franco…
Lola dal canto suo non può che trattare lo spasimante con disprezzo,
odio a volte, facendolo impazzire con una volubilità cattiva e
infantile, unica distrazione per il suo animo autodistruttivo e sofferente.
L'intera disperata vicenda si svolge per intero in un claustrofobico palazzo,
che comprende al piano terra il "Caffè Ofelia" in cui
lavora Ignacio e al primo piano il suo appartamento, mentre all'esterno
scende una pioggia quasi incessante. Il senso di chiuso e stantio è
sublimato dalla staticità della scena (che regala alle immagini
un'aria velatamente teatrale) cui si accompagnano movimenti di macchina
impercettibili e che bene si inseriscono nella sonnolenta atmosfera messicana.
Il tutto è sottolineato da una fotografia dorata-patinata, polverosa,
quasi a portare negli ambienti un sole e un caldo che in realtà
non si vede mai, metafora di un amore impotente che cerca di autosurrogarsi
con vari feticismi (i guanti, le calze, gli alluci).
In realtà questo film non ci dice nulla di più e nulla di
meno di quel che già sappiamo di Ripstein e del suo amore per il
surrealismo, e ne è infatti un omaggio dichiarato ed ampolloso,
eccessivo anche nella durata (140'): si potevano senz'altro dire le medesime
cose in una cinquantina di minuti, magari riducendo il numero delle ariette
che, di tanto in tanto, i personaggi cantano.
Anche la cornice del film (prologo ed epilogo), in bianco e nero e con
didascalie, richiama a un cinema d'altri tempi, ed è paradossalmente
la parte del film che gode della maggiore dinamicità, in aperto
contrasto con un film che si dilunga inutilmente, seguendo la strada di
un'"operazione nostalgia" che forse, se strutturata diversamente,
poteva avere anche qualcosa di nuovo da dire.
Manuela PINETTI
Voto: 25/30
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AU PLUS PRES DU PARADISE
di Tonie Marshall
Preceduto e pubblicizzato dalla sua condizione di primo film girato a
New York dopo i fatti dell'undici settembre, AU PLUS PRES DU PARADISE
è una storia d'amore fedele allo stile della tradizione francese:
elegante, raffinato e sapientemente costruito sulla scittura. Fanette,
scrittrice impegnata nella biografia di un artista, rivive una nuova stagione
amorosa nei confronti di Philippe, sua vecchia fiamma, un personaggio
fantasma che vivrà nel film soltanto nell'immaginario amoroso di
Fanette, senza mai comparire fisicamente se non di spalle in una sequenza-flash
onirica verso il finale. La presenza/assenza di questa figura conferisce
al film uno stato di sospensione poetica nella quale si condensa il simbolo
di un amore idealizzato, adolescenziale, intangibile ed illusorio. Altrettanto
suggestiva è la figura di Matt che Fanette incontra nel suo viaggio
di lavoro a New York e con il quale intraprende un originale rapporto
prima professionale poi sentimentale; Matt è un personaggio gradevolemente
bizzarro, fisicamente molto presente, sciatto e dimesso, dalla schiettezza
arguta e dalla sensibilità amabile. Tra i due si crea una gradevole
alchimia che senza il minimo accenno di slittamento nel patetico costruisce
un legame definitivo attraverso una progressione narrativa impercettibile.
La stessa introduzione nel plot della storia di alcune sequenza tratte
dal polpettone hollywoodiano UN AMORE SPLENDIDO, come rivelazione/ispirazione
dell'amore di Fanette per Philippe, non appesantisce di fatto il carattere
sentimentale della vicenda e il film rimane delicatamente coinvolgente
e solidamente ancorato alla corposità di una sceneggiatura preziosa
e di una prestazione attoriale saturante: la presenza scenica di una Deveuve
dal fascino intramontabile [di ben altro spessore artistico, oltre che
fisico, rispetto alla polpettona nostrana, sua collega e coetanea, tanto
celebrata dall'industria del gossip in questo festival] e di un William
Hurt teneramente invecchiato ma sempre elegante, riempiono il tessuto
filmico rendendo l'opera un prodotto di valore che non brilla di sperimentazione
ma si colloca pienamente nella categoria del buon cinema d'autore
Mirco GALIE'
Voto: 26/30
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BETWEEN STRANGERS
di Edoardo Ponti
Due amici si incontrano
"Hai visto il film di Ponti?"
"PONTI? Ma Ponti chi?"
"Mah...credo sia quello di Santa Maradona..."
"Noooo, credo che sia..."
"Ma non sara' mica lo pseudonimo italiano di Jeff Bridges?!"
"Ma...forse..."
"No, aspetta un attimo...non sara' mica quello della Loren...?"
"Chi, il marito?"
"Ma quello faceva il produttore, non il regista!"
"Ma allora questo chi e'?"
"E' uno nuovo!"
"Sara' forse un Dogma italiano...?"
"Un Dogma??? Ma allora perche' tutti questi attori? Brandauer, Depardieu,
la Sorvino, McDowell e c'e' anche l'attrice di Cronenberg!"
"Chi, Holly Hunter?"
"No,no...quella era in Videodrome!"
"Ma in Videodrome c'era la Unger, quella dei Blondie, che adesso,
in verita', sembra un po' invecchiata!"
"Ma, forse si'...comunque qualcosa non mi torna..."
"Ah, aspetta, forse sono i fratelli Ponti...il cinema sperimentale!"
"Ma come si chiama il regista di nome?"
"Mi sembra Leonardo..."
"Nooo, ma quello e' il figlio della Loren!"
"Ti sbagli...quello giocava a tennis...!"
"Allora questo film di chi e'?!"
"Boh! Ma tu l'hai visto?"
"No, io no! E tu?"
"Neanche io, pero' mi hanno detto che non e' un granche'!"
"Pensi di recuperarlo nei prossimi giorni?"
"No, non credo! Ormai lo abbiamo perso!"
"Ah...vabbe'! Andiamo a farci un panino?"
"Ottima idea! Con che cosa?"
"Prosciutto e formaggio!"
"Hai provato quello con le verdure? E' spaziale!"
"No, a me piace quello con la porchetta...!"
I due si avviano verso lo stand gastronomico.
Franco MARTINO
Voto: n.p.
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A SNAKE OF JUNE
di Shinya Tsukamoto
"Mi piace pensare alla carne come a qualcosa di crudo, qualcosa che
può mutare e anche marcire. Avrei desiderato girare il film durante
il mese di giugno, il periodo dei monsoni, ma a causa dei tempi di lavorazione
sarebbe stato impossibile. Comunque non ho rinunciato a inserire molta
acqua, molta pioggia in tutte le sequenze, perché quel tipo di
umidità, di caldo, entra in contatto direttamente con la pelle
mutando, in qualche modo, la carne e i suoi istinti."
Durante la conferenza stampa Tsukamoto appare rilassato e sorridente e
afferma, inoltre, di aver rinunciato a molta della violenza e all'erotismo
che inizialmente aveva pensato di inserire nella storia. Una vicenda,
quella di A Snake of June, che il regista ha in cantiere da più
di dieci anni, più o meno da quando stava realizzando la sua opera
prima, Tetsuo.
Il film ha per protagonista una coppia sposata (interpretata dalla Kurosawa
e da Koutari) soltanto apparentemente felice: in realtà lui è
ossessionato dalla pulizia e non osa sfiorare la moglie, mentre lei vive
uno stato di profonda repressione sessuale. Un giorno la donna riceve
delle fotografie che la ritraggono mentre si masturba, e inizia così
un gioco di ricatto e liberazione sessuale diretto da un misterioso fotografo.
Ma il film di Tsukamoto corre subito lontano da quella che potrebbe sembrare
una morbosa storia di voyeurismo e sesso. Lo stile del regista si fa sempre
più elegante, raffinato, rarefatto mantenendo, però, quella
immediatezza che da sempre lo contraddistingue. Non è un caso,
inoltre, che Tetsuo e la storia di quest'ultima opera abbiano viaggiato
parallelamente: Tetsuo è mutazione, carne e metallo, elettricità
e energia di cui molto si è parlato. Anche in A Snake of June,
per quanto appaia differente dall'altro, si affrontano gli stessi temi,
ma da una prospettiva più mentale (la donna, infatti, lavora in
un istituto d'igiene mentale). Le trasformazioni qui messe in scena coinvolgono
più gli stati d'animo dei protagonisti piuttosto che i loro corpi
(l'erotismo, la fisicità, sono comunque sempre molto presenti)
e ciò che cresce vorticosamente sono i sentimenti di volta in volta
repressi, rigettati, coinvolgenti o strazianti. Tsukamoto costruisce così
un caledoscopio di immagini e situazioni che riflette i propri colori
direttamente nelle anime dei personaggi sfiorando, a volte, una sorta
di romanticismo che sembra affiorare direttamente dall'inferno. Ritorna,
inoltre, il rapporto tra l'uomo e la tecnologia: nel film tutti i rapporti
fisici sono mediati da strumenti meccanici o elettronici che suppliscono
a distanze a volta cercate, a volta subite dai protagonisti. "Non
ho paura della tecnologia," ha affermato Tsukamoto "ma mi interessa
mostrare come certe strutture possano influenzare negativamente la vita
e le relazioni interpersonali delle persone. Mi riterrei molto soddisfatto
del mio lavoro se il pubblico sentisse il grido di dolore provenire direttamente
dalle anime dei personaggi". E non c'è da vergognarsi se si
avverte piacere non soltanto a udire quel grido, ma anche a guardarlo.
Paolo FAZZINI
Voto: 28/30
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ROAD TO PERDITION
di Sam Mendes
Michael Sullivan (Tom Hanks) e' un sicario della gang irlandese guidata
da John Rooney (Paul Newman) che lo ha cresciuto e gli ha insegnato il
mestiere. Quando il figlio di Michael, un ragazzino di 12 anni, assiste
a un omicidio compiuto dal padre e dal poco affidabile figlio di Rooney
(Daniel Craig), quest'ultimo trama per eliminare la famiglia Sullivan,
per paura che il ragazzo possa testimoniare.
"Road to Perdition e' un film sontuoso e austero" racconta Mendes
"un'allegoria biblica con proporzioni da tragedia greca, che affronta
i temi della criminalita' e del castigo, della gelosia e della rivalita',
della violenza e della vendetta."
Puo' trarre in inganno il fatto che temi cosi' duri, difficili, possano
essere affrontati con il giusto tatto da una produzione mainstream come
la Dreamworks, ma Mendes e' riuscito a realizzare un'opera asciutta e
secca esaltando, senza troppi pietismi, la tragica vicenda che avvolge
i personaggi. Ambientato nella Chicago degli anni '40 e nelle zone rurali
degli Stati Uniti, il film e' ispirato a un racconto a fumetti scritto
da Max Allan Collins e illustrato da Richard Rayner; colpito da quella
storia di padri e figli, Dean Zanuck (con la collaborazione del padre
Richard) e' riuscito a coinvolgere nel progetto lo sceneggiatore David
Self e Steven Spielberg. "Da ragazzo amavo molto il crime movie"
continua il regista "e in particolare le pellicole con James Cagney,
e prima di iniziare a girare ho ripassato tutti gli anni '30 e i '40 del
cinema americano." E i riferimenti iconografici cari al regista sono
effettivamente le qualita' che esaltano la pellicola: cappotti, vecchie
Ford, mitra, cappelli e una magistrale messa in scena coinvolgono il pubblico
(e anche Mendes) forse piu' della vicenda raccontata. Completano lo sguardo
l'intepretazione di Hanks, killer dal volto umano, e gli occhi di Paul
Newman, Jude Law e Daniel Craig (perfetto nella parte del figlio di Rooney)
di volta in volta coscienti dei destini che incarnano e accecati dalle
gelosie che nutrono per le relazioni padri-figli che si intrecciano nella
vicenda. Altra importante componente del film e' la violenza che e', come
ha affermato il regista durante la conferenza stampa, "piu' accennata
che mostrata, d'altra parte non sono presenti grandi e lunghe sparatorie".
La violenza di Road to Perdition non ha nulla di realistico: puo' essere
diretta, improvvisa, o lenta e poetica (come l'ultima, bellissima sequenza,
in cui muore Michael) ma sempre, assolutamente affascinate (da antologia
l'esecuzione della banda di Rooney). I personaggi si muovono di notte,
sinuosi, accompagnati dall'aura magnetica che circonda, di solito, i grandi
cattivi del cinema; Sullivan, gia' un fantasma al suo primo apparire,
ha inciso nello sguardo il proprio destino e, evanescente, si sposta tra
i palazzi di Chicago e gli spazi aperti della campagna americana cosi'
ad incarnare un'esistenza sospesa tra le difficili e strette relazioni
sociali in cui si trova (con Rooney padre, Rooney figlio, la propria famiglia)
e l'assoluta liberta' da certi malvagi vincoli che desidererebbe per il
futuro del suo Mike jr. E sopra a tutto questo Edward Hopper sta a guardare.
Paolo FAZZINI
Voto: 27/30
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GOLDFISH GAME
di Jan Lauwers
Ispirato ad una storia vera e legato come sequel al precedente lavoro
di Lawers [MORNING SONG, 1998], GOLDFISH GAME esibisce un registro audace
di scelte estetiche per raccontare una storia malata all'interno di un
aggregato familiare slabbrato e a tratti surreale, con squarci di delirio
acido disseminati in una narrazione tuttosommato coerente ma palpabilmente
votata alla tragedia. I 105 minuti di pellicola si consumano interamente
all'interno di un unico spazio filmico, nello scenario solare di una villa
circondata da prati e foglie, illuminata da riflessi di piscine trasparenti
e giardini imbanditi di delizie culinarie, dove la mano abile di un regista
prestato al cinema dal teatro e dall'arte visuale, compone un crescendo
drammatico in cui gli elementi chiave della narrazione vengono depositati
in modo sapiente a colmare giunture, a svelare legami tra personaggi sinistri,
a comporre le vicende in una sintesi organica che lascia aperte ampie
zone di tessuto filmico come in un dipinto espressionista dove poche sommarie
macchie di colore bastano a delineare figure e scenari senza banalizzare
il racconto in dettagliati e artificiosi ingranaggi descrittivi. Una crudeltà
intestina sembra percorrere l'anima del film esplodendo a tratti in gesta
deliranti che sembrano evocare, implicitamente, un senso di "naturalità"
violenta [l'ossessione per le armi, le urla, l'improvvisazione di danze
tribali con la pelle di coniglio sopra la testa, la registrazione del
"suono" emesso da una vasca di vermi, ecc…] che ben oltre le poche sequenze
di violenza fisica e di sangue, incombe cronicamente sui personaggi irrigidendone
i rapporti reciproci, alternadone la costituzione e rendendoli fascinosamente
ambigui, enigmatici, intriganti. L'armonia del contesto familiare sembra
celare un sottobosco di malattia, di logorìo dello spirito, di vizio perverso:
fa presentire storie di tradimenti, di incesti e di ossessioni torbide.
Purtroppo le aspettative suscitate dall'alea arcana della prima parte
vengono ridimensionate dallo sviluppo della storia che va a slittare nel
thriller etno-politico, ma il film mantiene elevata la sua cifra artistica
bypassando la tentazione di cedere ad un potenziale sviluppo drammaturgico
in senso "action" e/o a risoluzioni eroico-buoniste; rimane piuttosto
ancorato al fascino di una passionalità "cifrata", mai esplicitamente
caratterizzata, difficile da etichettare e sottilmente pervasa da un senso
di inquietudine diffusa. Ma soprattutto GOLDFISH GAME vanta il merito
di sperimentare soluzioni stilistiche assolutamente "virtuose": sovraesposizioni
di pellicola degne del miglior Soderbergh, elettriche vibrazioni di una
macchina da presa rigorosamente a spalla che farebbero invidia a Von Trier,
un sonoro ansiogeno di "riffs" compulsivi che ricordano il Neil Joung
di DEAD MAN, e soprattutto un uso efficace di inquadrature metonimiche
che amplificano la drammaticità delle atmosfere e degli aventi narrati
allegerendone al tempo stesso la fruibilità visiva. Un film apprezzabile
per il "come" più che per il "cosa", non irrinunciabile, ma sufficientemente
all'altezza delle pretese del festival e della sezione [Nuovi Territori]
che lo ospitano.
Mirco GALIE'
Voto: 26/30
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VENDREDI SOIR
di Claire Denis
Un film esasperatamente materico, plasmato sull'unica banda sonora di
una emozione che sedimenta aliena a qualunque controllo della ragione.
L'occhio viaggia invadente tra gli oggetti e ne amplifica le proporzioni
rendendone abnorme la presenza; si muove nella ristrettezza di claustrofobici
spazi urbani, si incastra tra i bagliori elettrici che costellano la notte
metropolitana, galleggiano sull'asfalto bagnato, si moltiplicano nelle
gocce di pioggia sopra le lamiere di decine di auto imprigionate in un
ingorgo, registra la urla di una rissa che si consuma in strada tra automi
indifferenti, poi si sposta all'interno dell'auto, nel microcosmo di una
casa ambulante, dove la voce metallica dell'autoradio è il magro rimedio
all'angosciosa solitudine di Laure, finchè l'incontro con lo scononsciuto
non apre un percorso verso la salvezza. Amplessi reiterati nelle ore trascorse
in una stanza d'albergo, come assalti irresistibili di una naturalità
carica di purezza sacra, cedimenti emozionali che identificano nell'abbandono
alle leggi oscene del bisogno d'amore l'unico precetto dell'ordine etico
dell'universo. La macchina da presa della Denis irrompe avida di sensualità
nei recessi più intimi dei due soli personaggi di questa storia fuori
di ogni tempo e di ogni luogo, scivola lungo le superfici dei loro corpi
seguendo le tracce di una geografia interiore che non rincorre la sovrastruttura
inutile della "parola parlata". Il solo linguaggio efficace è quello dell'immagine
che percorre ruvidi e grigi tessuti invernali, pelli bianche e poco levigate,
dita che si muovono dolcemente, mani che toccano, sentono, amano; nessun
rumore a parte i sospiri e gli attriti tra entità fisiche, nessun dialogo
a parte poche insignificanti frasi di convenienza; soltanto sguardi, carezze
e contatti pregni di una tenerezza disarmante. Basato su un romanzo di
Emmanuèle Bernheim, VENDREDI SOIR ricorda ULTIMO TANGO A PARIGI per la
bizzarria della situazione, INTIMANCY per la sensibilità pesantemente
fisica con cui viene gestita la materia del sentimento, ma a differenza
di ambedue gli illustri referenti rifiuta cervellotici rimpasti intelleulisitici
e soluzioni amare, e attraverso una scrittura deliziosamente ermetica,
una narrazione depurata di ogni artificio grammaticale e soprattutto un
tocco registico tanto elegante quanto appassionato traccia le coordinate
di una logica cinematografica alternativa. Sequenze di cinema alto si
succedono a raccontare un amore tra due individui sconosciuti al pubblico
e a se stessi, senza un passato e senza un futuro, ma totalmente introiettati
nella passione del loro presente, a dimostrare come le immagini dinamiche
del cinematografo possano liberarsi dalla zavorra ottusa di "fatti in
progressione" e dissolversi liberamente in universi emozionali che sono
il vero dominio dell'Arte.
Mirco GALIE'
Voto: 29/30
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FUHRER EX
di Winfried Bonengel
Fuhrer Ex, primo lungometraggio del regista tedesco Bonengel,descrive
la difficile condizione di vita nella Germania dell'est che porta i due
protagonisti, due ragazzi desiderosi di conoscere la vita e il mondo,
sulla cattiva strada. Film interessante che tenta di illustrare gli effetti
devastanti che hanno provocato le restrizioni del regime comunista e l'estrema
difficoltà di trovare un'identità stabile dopo la caduta del muro. Attraverso
uno scontato e ormai classico percorso carcerario, pieno delle solite
crudeltà, viene evidenziato il problema della sempre più frequente adesione
giovanile al neonazismo, vista come reazione alle limitazioni, materiali
ed intellettuali del comunismo. La semplice costruzione,i dialoghi sono
un po' didascalici e le immagini già viste, rendono il film schematico
e spesso ingenuo. Bonengel ha però il merito di dare allo spettatore un
ottimo spunto per la riflessione su temi di cui bisognerebbe parlare più
spesso soprattutto nella Germania odierna. Peccato che le ambientazioni
e la ricostruzione storica siano solamente accennate.
Caterina MAZZUCCATO
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OMAGGIO AI FRATELLI QUAI
Strano percorso quello intrapreso dai fratelli Quai. Dopo gli studi presso
il Philadelphia College of Art, si sono trasferiti in Inghilterra per
approfondire i propri interessi. "Siamo affascinati da tutto ciò che riguarda
la cultura europea!" hanno affermato in una recente intervista. Dopodichè
hanno fatto ritorno negli Stati Uniti. "Lì siamo rimasti disoccupati per
sei anni, quindi abbiamo deciso di tornare a Londra!" che è la città dove
tuttora vivono e lavorano. I Quai affrontano il cinema d'animazione da
un punto vista tecnico ed espressivo radicale: la stop-motion si fonde
con la live-action, mentre le marionette (alcune sono esposte al Museum
Of Moving Image di Londra) e una forte dose di surrealismo creano degli
universi immaginifici unici. Siamo distanti anche dalle creature di Svankmajer,
a loro modo più familiari e ironiche. Il Festival di Venezia ha deciso
di rendere omaggio, nella sezione Nuovi Territori, a due degli autori
più stimolanti e sorprendenti che il cinema trasversale contemporaneo
possa offrire, e i lavori proiettati fanno ben comprendere in che direzione
i registi spingano la propria emotività creativa.
In IN ABSENTIA, per esempio, sembra prendere corpo l'immaginazione di
una donna sola, chiusa in una stanza, che scrive continuamente lettere;
fuori dalla sua finestra i paesaggi e le creature cambiano in continuazione,
quasi a seguire lo stato d'animo dell'essere umano. Il cortometraggio
è dedicato ad una donna realmente esistita che per anni ha scritto lettere
al marito dall'interno di una clinica psichiatrica.
BRUNO SCHULZ'S STREET OF CROCODILE invece, è ispirato a un racconto dell'ebreo
polacco Schulz, ucciso dai nazisti, e nel quale un fragile pupazzo attraversa
strade e stanze enigmatiche, piene di specchi e vetrine, in uno stato
di perenne disorientamento, in un paesaggio che riflette i suoi movimenti
inconsci.
REHEARSALS FOR EXTINCT ANATOMIES prende il via dall'incisione Le Verrou
di Fragonard: evoluzioni emotive e corporee di una creatura grottesca,
uno scheletro di fil di ferro senza corpo ma con una escrescenza sulla
testa, un cuore pulsante e un occhio in continuo movimento. Vasti i riferimenti
letterari di cui si nutrono i loro lavori: Kafka ("Amiamo tutta la sua
opera!"), Bruno Schulz, E.T.A. Hoffmann e troppi per citarli tutti sarebbero
i nomi di pittori e incisori riflessi nel mondo creativo dei due registi.
Visioni ferali, ombrose, ossessive, ma di una lucidità e bellezza coinvolgenti,
così come quelle che potrebbe girare il fratello cattivo di Tim Burton.
Interessante, inoltre, è anche il rapporto che hanno con le ultime tecnologie
digitali: da sempre i Quai hanno lavorato in maniera artigianale, creando
e animando personalmente i pupazzi e le miniature visibili nei film e
cercando di intervenire con discrezione durante la fase di postproduzione,
con computer ed effetti (In Absentia, della durata di 20 minuti, ha richiesto
circa due anni di lavorazione). E' difficile entrare in contatto con le
loro opere, almeno per chi cerca una narratività lineare, un chiaro messaggio,
o anche una stranezza comunque pacificante. Nei lavori dei Quai c'è tutto
ciò che il cinema dovrebbe offrire: immagini, innanzitutto, e poi profondità
psicologica e intellettuale, personaggi affascinanti, una tecnica impeccabile
e ultimo, ma non meno importante, l'assoluta libertà creativa. Tutto ciò
che rende i fratelli Quai degli artisti.
Omaggio ai Quai Brothers: In absentia Street of crocodile Rehearsals for
extinct anatomies De artificial perspectiva Serie Still Nacht (Dramolet,
Are we still married?, Tales from Vienna woods, Cant go wrong without
you, Dogdoor-Heloise) Serie completa di 9 spot pubblicitari
Paolo FAZZINI
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AIKI
di Daisuke Tengan
con Haruhiko Kato, Rie Tomosaka, Ryo Ishibashi
Quando si cerca di orientarsi all'interno della ricchissima programmazione
di un Festival come quello di Venezia, magari alla ricerca di rivelazioni,
il rischio di imbattersi in opere mediocri è messo in preventivo, nonostante
la severa selezione che dovrebbe precedere la composizione del carniere.
Quello che però non si capisce e rimane difficile da digerire è il fatto
di incontrare film come AIKI nella sezione "Nuovi Territori", quella che
per definizione dovrebbe ospitare opere accumunate da un intento sperimentale
e innovativo, indipendentemente poi dagli esiti specifici che, ovviamente,
solo in una parte dei casi potranno essere veramente significativi e lasciare
il segno. AIKI racconta la storia di un giovane pugile che in seguito
ad un incidente in moto finisce su una sedia a rotelle, e dopo un periodo
di crisi nella quale arriva a mediatare il suicidio, ritrova una sua strada
nella pratica dell'arte marziale dell'aiki. Il film pretende di raccontare
la maturazione progressiva del protagonista frustrato dalla menomazione
e la possibilità di riguadagnare senso alla propria esistenza dopo la
tragedia, e tuttosommato ci riesce. La realizzazione tecnico-narrativa
del film non permette neppure il gusto della ironia acida, dal momento
che secondo i criteri di una logica tradizionale l'opera è impeccabile.
Nonostante questo e al di fuori di ogni discussione di aspettativa personale,
sconcerta che venga proposto come esempio di pretesa innovazione [l'inserimento
nella sezione "Nuovi Territori" vorrebbe dire questo] un film basato su
una impostazione tematica tanto condivisibile quanto banale, costruito
su un plot che prevede evoluzioni narrative puerili [le gesta vandaliche
dei bulletti di strada che pestano l'handicappato, una storia d'amore,
aihmè, inverosimile, e, dulcis in fundo, il maestro di kung-fu esaltato
che viene messo a tappeto dal paraplegico] e che procede attraverso un
linguaggio che alla ricerca estetica sembra non attribuire alcun valore
sensato. Un contesto più adeguato per la proiezione pubblica di film come
questi potrebbe essere la prima serata Rai [almeno finchè la televisione
pubblica non rivede gli standard dei propri palinsesti] per accompagnare
le tristi serate di pensionati e casalinghe, ma qui, a Venezia, è totalmente
fuori tema.
Mirco GALIE'
Voto: 12/30
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"K-19, THE WIDOWMAKER"
di Kathryn Bigelow, con Liam Neeson e Harrison Ford.
In ogni film di Kathryn Bigelow si scontrano due antitetiche figure maschili
o dal carattere maschile ( Jamie Lee Curtis e Ron Silver in BLUE STEEL,
Keanu Reeves e Patrick Swayze in POINT BREAK, Ralph Fiennes e Tom Sizemore,
ma anche Fiennes e Angela Bassett, in STRANGE DAYS etc. ), che finiscono
per rappresentare forme diverse di approccio all' esistenza, una superomistica
e dedita alla fascinazione della violenza resa sub specie di rapidi movimenti
di macchina, e l' altra meditativa, quasi zen, corrispondente spesso ai
momenti di affabulazione e ragionamento filosofico. Il cinema della regista
pittrice costruisce progressivamente l' idea di cio' che e' "giusto" attraverso
una continua messa in dubbio delle posizioni espresse dalle due figure
maschili, anche se intuiamo subito dove andremo a finire, ovvero sulle
strade di una razionale, equilibrata gestione della modernita' utilizzata
non in funzione distruttiva dello schema naturale e pre-tecnologico dei
rapporti umani: la cosa piu' interessante e' che questo dinamico contrapporsi
di punti di vista etici, genera, non schematicamente, una vera e propria
alternanza di stili all' interno di una stessa pellicola, che ne risulta,
quindi, arricchita. Scritti sempre da altri, fatta eccezione per BLUE
STEEL, i testi della Bigelow vengono trattati, a livello di sceneggiatura,
come una tavolozza di colori preimpostati, primari, elementari, che vengono
pero' traditi a livello d' immagine da un approccio che li porta esclusivamente
sul piano di una visualita' estremamente complessa, avvolgente e che utilizza
al meglio virtuosismi tecnologici mai scontati. Il problema, dopo STRANGE
DAYS, sta nel fatto che questa linea coerente si e' spezzata a causa del
fallimento al botteghino dell' incompreso THE WEIGHT OF WATER e la Bigelow,
per quanto fuori dalle costrizioni degli studios, ha dovuto contrapporre
a questa pellicola un prodotto decisamente piu' commerciale rispetto alla
media dei suoi precedenti, raccontando un momento nascosto, criptato di
guerra fredda, quando il sottomarino russo K 19 rischio' di dar inizio
a un conflitto nucleare e l' equipaggio coinvolto dovette tenere nascosto
il segreto per 28 anni, dal 1961 alla caduta del muro di Berlino. Per
buona parte del film assistiamo alla messa in scena di tutti i topoi del
cinema di genere d' argomento bellico alla voce sottomarini: ipercinesi
della m.d.p. dentro spazi costretti, indispensabilita' di soffocanti primi
piani, improvvisi zoom su dettagli della strumentazione di bordo in funzione
narrativa, per segnare i punti di svolta verso il dramma e, ad un livello
piu' alto, la contrapposizione schematica tra l' etica autodistruttiva
del potere cieco sovietico in tempi di assenza di dialogo politico con
la controparte ( il personaggio interpretato dalla maschera di Harrison
Ford ) e l' umanita' del capitano Liam Neeson, a capo di un gruppo piuttosto
malconcio di impreparati subalterni. Diversamente dai suoi precedenti
lavori, la regista accetta in blocco lo schematismo senza sbocchi della
sceneggiatura, al punto che neanche il colpo di scena preparato a 4/5
del film serve a redistribuire i pesi drammaturgici messi in campo. Il
punto di vista prescelto -quello dell' equipaggio sovietico- garantisce
l' anonimato, alla Bigelow, per alcune personali sortite antiamericane
abbastanza estemporanee e per giunta relegate all' inizio della pellicola.
Sorvoliamo sul finale e sul fatto che, paradossalmente, anche questo blockbuster
innecessario e' stato un flop nelle sale del proprio paese, il che dovrebbe
spingere un talento come quello della regista di POINT BREAK e THE LOVELESS,
a vivere senza traumi un ' esistenza produttiva totalmente indipendente
e povera o, in antitesti, a capire come si giri un kolossal di successo
e senza compromessi di sorta.
Gabriele FRANCIONI
Voto: 24/ 30
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FAR FROM HEAVEN
di Todd Haynes, con Julianne Moore e Dennis Quaid.
Spesso abbiamo assistito a ricostruzioni storiche filologicamente
rigorose solo sotto l'aspetto scenografico, dei costumi, senza un adeguato
approfondimento della scrittura, nel senso di come si scriveva durante
l'epoca rievocata: Todd Haynes, da questo punto di vista, riesce nell'intento,
portandoci non tanto dentro una commedia americana anni Cinquanta, ma
con dialoghi, per così dire, "aggiornati", quanto immergendo lo spettatore
all'interno di un articolatissimo sistema di segni grafici, di interior
design, di moda dell' epoca -siamo nel 1957- dove la parola è segno ulteriore,
che fa letteralmente perdere le distanze dalla materia trattata, con un
effetto di spaesamento iniziale e, per così dire, riposizionamento successivo,
che, per la prima volta in casi di questo genere, ci costringe a giudicare
l'opera non come oggetto che ci sta davanti, bensì come contenitore che
ci contiene. A questo punto non ha alcun senso, ed è segno di grave miopia,
giudicare il film come inutile operazione di citazione testuale fine a
se stessa. Si tratta, invece, di un riportare in vita concretamente, tangibilmente
-proprio dal punto di vista multisensoriale (sarebbe servito l'odorama
di John Waters)- quell' anno specifico, così in contrasto con l' America
appena pre e appena post 11 settembre, per sottolineare la mancata presa
di distanza da approcci razzistici al problema della convivenza multirazziale
dopo 45 anni di crescita al ralenti di una coscienza civile, che risulta
così simile a quella degli anni 50, salvo l'ipocrita sostituzione di negro
con colored, e rimarcare quanto primordiali, ma ingenui e al limite più
comprensibili fossero certi atteggiamenti politicamente scorretti, perché
legati ad uno stato di allerta comune relativo alla guerra fredda in atto
e di come allora sì, e forse oggi no, potessero esistere fragili e forti
figure come quella della protagonista, straordinaria Cathy/ Julianne Moore
sempre tesa al miglioramento di sé e degli altri, così sinceramente alla
ricerca di una frontiera di nuova tolleranza. E' moglie di un gay impossibilitato
a fare outing e ama con convinzione psico-sociologica il giardiniere nero:
la vicenda gira attorno a questa premessa, isolando inesorabilmente la
protagonista abbandonata da chi le sta attorno, incapace di scatti oltre
le barriere delle convenzioni sociali. Una donna sola, ma sempre motore
di iniziative, grazie ad un pionieristico ottimismo che la suicida sotto
l'aspetto dei rapporti sociali, ma la propone come bell'esempio di donna
libera per le generazioni attuali.
Gabriele FRANCIONI
Voto: 28/30
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THIRST FOR REVENGE
di Mehmet Ozcelik con Mette Maria Ahrenkiel, Runi Lewerissa durata 9'
In un ambiente asfittico dalle tinte cromatiche violentemente virate sul
blu si consuma la vendetta di una donna su un individuo corpulento, incravattato,
chiuso in un gabbione con i polsi appesi alla parete e la bocca forzata
in un bavaglio. Chi sia quest'uomo e che cosa abbia fatto per meritare
atroci torture non è dato saperlo. Il tema della vendetta e il piacere
perverso della violenza sul cattivo sono elementi di per sé capaci di
rapire l'interesse dello spettatore, soprattutto se incesellati in una
estetica fotografica gelida e raffinata, ma la sospensione ellittica della
narrazione proietta oltre la suggestività gratuita di un racconto potenzialmente
adrenalinico per universalizzarsi nell'idea di necessità di appagamento:
"Thirst for Revenge è il racconto frammentario di una vendetta come desiderio
incompiuto e inappagato" secondo le parole dell'autore turco. Gli atti
di violenza della donna e il macabro piacere che lei prova nel negare
alla sua vittima l'acqua che le sue secche fauci bramano [sete di acqua/
sete di vendetta] parlano del bisogno che frustrato degenera nell'istinto
alla violenza: in questo THIRST FOR REVENGE si ricollega al precedente
lavoro di Ozcelik [STRANGER WITH ME, 2001] che racconta la disperata violenza
di un uomo in seguito a un divorzio.
Mirco GALIE'
Voto: 25/30
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ROSA FUNZECA
di Aurelio Grimaldi con Ida Di Benedetto, Ennio Fantastichini, Aldo Giuffre'
Rosa Funzeca, dopo 20 anni vissuti come prostituta, decide di liberarsi
dalla vita di strada per riunirsi con il figlio adolescente, Fernando,
cresciuto in un istituto di frati. Rosa vuole di riscattarsi socialmente
e moralmente iniziando una vita decorosa aprendo una bancarella di dolci
e fiori, acquistando una casa e sognando per il figlio una vita rispettabile.
Il percorso non si rivela semplice: economicamente nascono dei problemi,
che riportano la protagonista sulla strada e, spiritualmente, il legame
con Fernando è molto conflittuale, fatto di momenti di diffidenza e di
attimi di complicità. E' un rapporto tra madre e figlio molto forte, impegnativo,
che però non riuscirà a superare l'ineluttabilità di un destino che non
può essere cambiato. "Il film si collega direttamente a Le Buttane" afferma
Grimaldi "non solo per la presenza di Ida Di Benedetto, ma perche' sviluppa
un episodio del film. Se l'anima e' pasoliniana, con tanto di citazione
a Mamma Roma, il film e' interamente costruito sulla personalita' dell'attrice
di Ida Di Benedetto, che ha curato i dialoghi e collaborato alla sceneggiatura".
Fedele alle sue caratteristiche stilistiche e tematiche (la marginalita'
sociale rappresentata con un contrastato bianco e nero) Grimaldi intesse
una vicenda dagli ampi riferimenti pasoliniani ma che del poeta/regista
friulano trasmette a stento solo un'esile cornice macchiettistica. Impossibile
dire che la pellicola non vanti un'elegante esposizione scenografica e
registica, merito anche della credibilita' della Di Benedetto e di riuscitissimi
ruoli minori (grandissimi Fantastichini e Giuffre'), ma cio' che non convince
affatto e' la vicenda, l'anima del progetto, che sembra architettato,
non soltanto in maniera prevedibile, ma anche per vivere in funzione di
altro. In funzione, appunto, di Pasolini, di tutti i precedenti lavori
di Grimaldi, di una forzata ricerca espressiva del bianco e nero che non
basta a dare il tocco autoriale. Cadute di tono anche in alcuni siparietti
che il regista mette in scena con una ironia che non sappiamo quanto sia
effettivamente voluta, e che trasmette una sensazione di ridicolo che
stride con il resto della storia (si guardi la vecchietta che, su un pianoforte
scordato, suona Malafemmina in presenza della prostituta, o anche la sequenza
in cui Rosa improvvisa un ballo con il figlio al ritmo di un brano di
Nino D'Angelo). Nulla di dannoso, comunque (ammesso che un film possa
esserlo), ma utile forse a capire che il tanto ricercato realismo del
nostro cinema deve cambiare atteggiamento e stile.
Paolo FAZZINI
Voto 18/30
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NACKT di Doris Dorrie
Doris Dorrie è nota al suo paese e non solo, forse più come scrittrice
che come cineasta, e il lungometraggio che ha portato a Venezia, NACKT/naked
, conferma il suo talento nel gestire le potenzialità della parola per
articolare storie e riflettere, in modo né noioso né banale, sull'amore.
100 minuti di pellicola percorsi da cavalcate di dialoghi acuti e coinvolgenti
tra tre coppie di personaggi che, legati da vecchia data, si incontrano
una sera a casa di una di loro per una cena tra amici. Un plot minimale
che abbraccia l'arco temporale di poche ore prima, durante e dopo la cena.
L'unico fatto narrativamente significativo è l'improvvisazione di un gioco
audace nel quale i convitati nudi e bendati devono riconoscere i loro
rispettivi partner affidandosi semplicemante ai limiti del tatto. Dentro
scenari di interni domestici saturi di colori vivaci scorrono fiumi di
parole che travolgono le maschere entro sui si proteggono le sicurezze
erette dall'abitudine e scavano dentro la verità dei personaggi mettendoli
a nudo, non solo fisicamente. "Tutti - dice la regista - crediamo di conservare
le nostre identità indossando una maschera, che in realtà ci fa impazzire.
Vale anche per me. […] Spogliandosi e restando nudi i personaggi di Nackt
devono ammettere che non tutto ciò che professavano o credevano di essere
era vero. […] Non è facile cominciare qualcosa di nuovo e lasciarsi il
vecchio alle spalle". La capacità di riconoscere ciecamente il proprio
partner, e quindi l'idea della insostituibilità/intercambiabilità della
persona amata, è il quesito drammatico che corre lungo il filo di questa
rappresentazione umana lucida e cordiale. Cosa cementa il rapporto tra
due persone che decidono di condividere le prorie esistenze? una forza
esclusiva che lega chi è nato l'uno per l'altro o il potere della circostanza
che formula e riformula a caso gli accomppiamenti sulla base di eventi
casuali e convenienze contingenti. La sceneggiatura della Dorrie smonta
e rimonta il suo impasto di meditazioni scoperchiando i limiti del sentimento
e modellando nuove prospettive di valore per giustificare la magia dell'amore:
l'amore non è esclusivo [l'esito del gioco è negativo], spesso di dissolve
nella melma ingorda dell'abitudine, è slabbrato da abissi comunicativi
tra partner che col tempo finiscono per non riconoscersi più, ma, al di
là di tutto, la cosa più importante per ogni essere umano è tornare a
casa, la sera dopo il lavoro, e trovare qualcuno che l'aspetta, presente
in carne ed ossa, individuato [nel senso di reso individuo, unico e reale
se non insostituibile] dall'insieme delle proprietà percettive: olfatto,
tatto, occhi e archivi della memoria. NACKT è un film dalla scrittura
preziosa, che affida ai dialoghi la quasi totalità del suo significato
con esiti indubbiamente accettabili, specie nella pletora di mediocrità
che questa edizione del festival continua a dispiegare senza il minimo
pudore, ma film come questi sollevano interrogativi sul senso del cinema:
mettere in scena dei personaggi come medium per veicolare parole non è
forse fare un uso impoprio del cinema? Perché trasporre in recitazione
quello che invece rientra abbondantemente entro i confini della scrittura?
Spendere miliardi per registrare su pellicola immagini dove ci sono solo
personaggi che parlano, nella evidente assenza di un lavoro di ricerca
alternativo alla banalità della grammatica tradizionale su elementi esclusivi
del linguaggio cinematografico come i tempi, gli spazi, la fotografia,
i suoni è una operazione supoerflua e lesiva della dignità del cinema
come arte autonoma. Molti autori [pare eccessivo a questo punto citare
Antonioni, presente in questo festival per una retrospettiva della sua
opera] hanno dimostrato come il cinema possa scandagliare la profondità
degli abissi interiori in modo spaventosamente più profonodo di NACKTsfruttando
silenzi, piani-sequenza, ellissi narrative, lavori sull'immagine che la
elevano da rappresentazione a simbolo, mezzi che sono esclusivi dell'arte
cinematografica e la rendono "altro" intraducibile rispetto al regno della
letteratura. La parola è un elemento nobile e in Nackt ha un valore importante,
ma da sola non basta, almeno nella interpretazione della Dorrie, a giustificare
il ricorso alla macchina da presa.
Mirco GALIE'
Voto: 25/30
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UN VIAGGIO CHIAMATO AMORE di Michele Placido con Laura Morante e Stefano
Accorsi
L'incontro fra le arti è rischioso. In due direzioni: la sterile compromissione
di linguaggi non sempre compatibili, la noia per l'impossibilità di trasferimento
dell'emozione. Raccontare la vita di un artista porta l'autore in bilico
tra l'agiografia bozzettistica e la perdita del centro, ovvero l'acuta
sensibilità del soggetto. Michele Placido è un grande narratore di storie
e Del perduto amore, in questo senso, andrebbe preso a paradigma: ma laddove
in ballo c'erano pulsioni di diversa origine, e la vicenda era negli ideali
stessi della protagonista, scegliendo il tormentato amore Campana-Aleramo
si è trovato di fronte a qualcosa di diverso. Una vicenda umana decisamente
forte, legata però ad un incontro letterario di non secondario interesse.
Dino Campana è un poeta che alcuni studiano all'università, molti conoscono
per scelta, ma tanti non hanno mai letto. Difficile, forte a volte impressionante.
Sibilla Aleramo rischia, per i più, di passare solo per l'amante di Campana.
Placido lascia l'arte quasi ai margini, o meglio: la dà - specie nel caso
della Aleramo - come un dato acquisito e dunque da ricordare, piuttosto
che illustrare o approfondire. Ne fa sfondo e terreno a partire dal quale
costruire il racconto di una passione come però, sullo schermo, se ne
sono viste molte: ultima quella di FRIDA, di Julie Taymor, con il quale
Un viaggio chiamato amore condivide anche il mancato approfondimento delle
ragioni artistiche. E infatti, pur nell'acuta ricostruzione d'ambiente,
la pellicola si scoglie in un sequenziale accumulo di incontri/scontri
tra caratteri ribelli e difficili, passioni incontrollabili e violenti
rifiuti. Nel 1985 un altro film - senz'altro privo del glamour e del richiamo
che gli interpreti in questione (Laura Morante e Stefano Accorsi, non
troppo lontano dal suo personaggio tipo, nonostante l'ottimo impegno)
possono garantire - aveva raccontato la stessa storia: era INGANNI di
Luigi Faccini, ambientato perlopiù all'interno del manicomio dove venne
lasciato il poeta. Anche quella fu una scelta del regista: l'uomo rinchiuso,
Sibilla come figura presente ma lontana, eppure la forza dei versi di
Campana, in qualche modo, si percepiva: la suggerivano i gesti, il volto
dell'attore e il racconto del suo dramma.
Andrea DE CANDIDO
Voto: 23/30
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MEILI SHIGUANG (The Best of Times) di Chang Tso-chi
Esempio di cinema orientale realista incentrato sulla condizione sociale
dei giovani nella contemporaneità taiwanese, THE BEST OF TIMES narra la
vicenda di due giovani amici sbandati tra la sventura familiare [uno dei
dei due ha una sorella malata di leucemia, ambedue hanno perso la madre,
ecc…] e la pratica di attività improvvisate, destinati, come era prevedibile,
a finire risucchiati nella spirale di un mondo spietato al di fuori del
nuceo familiare. Coerentemente al modello steretipato di realismo sociale
a cui è ascrivibile, nel film sono disseminati spaccati di società corrotta
e squarci di quotidianità miserabile nei quali quadretti grotteschi e
attimi di umorismo lieve cercano di alleggerire il carico di una storia
lenta a scorrere sul piano narratologico e su quello stilistico. Nel finale
il film tenta un dirottamento poetico riproponendo in due versioni alternative
uno stesso segmento narrativo che si conclude con una sequenza in cui
i due nuotano e discorrono immersi nell'acqua di un fondale. Il film si
fa apprezzare per la cordialità, tipica del cinema orientale, con cui
procede il racconto e soprattutto per la delicatezza con la quale viene
rappresentato il dolore, non solo quello esplicito legato alla malattia
e alla morte, ma anche quello meno evidentente ma impietosamente calato
nel microcosmo esistenziale dei personaggi. Tuttavia nell'ambito di una
produzione che, come quella taiwanese, si impone al panormana internazionale
con pretese autoriali e che, in non pochi casi, non delude la fama che
la precede, il lavoro di Chang Tso-chi [ricordiamo che è stato primo aiuto
di Hou Hsiao-Hisien per LA CITTA' DOLENTE] ha il limite di rimanere troppo
legato ad un realismo impegnato di maniera senza riuscire a sviluppare
ed interpretare in modo cinematograficamente innovativo riflessioni che
partono dalla analisi socio-esistenziale dell'uomo urbanizzato.
Marco GALIE'
Voto: 24/30
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NUOMOS SUTARTIS Di Kristijonas Vildziunas
NUOMO SUTARTIS vuole essere riflessione sul disagio esistenziale dell'uomo
moderno che, storicamente liberato dalla tirannia delle dittature e dalla
ansia di sopravvivenza, deve fronteggiare il nemico più subdolo della
incapacità di trovare una dimensione sensata alla propia esistenza: "a
volte nella vita si prova la sensazione che il mondo non ci soddisfi più.
E' questo il punto di partenza del mio film". Il dramma è visto dalla
prospettiva di un personaggio femminile perché, afferma il regista, "è
la donna che esprime al meglio la vita interiore: un'intuizione che ha
ben capito il cinema degli anni '60, come si può comprendere vedendo i
ritratti femminili di Michelangelo Antonioni". Mantenendo le abissali
distanze del caso al cinema del maestro ferrarese in effetti Vildziunas
sembra legato oltre che per le tematiche affrontate anche per il ricorso
ad un linguaggio ellittico, assai più moderato dal filtro di una estetica
meno audace in quanto non 'estremamente' affrancata dal tributo alla grammatica
tradizionale. Le ambientazioni povere degli scenari urbani dell'est-europa
e le atmosfere soffuse dai toni bartassiani, sono scandite da timidi tentativi
di deriva di uno sguardo che si distacchi dalla materia narrata e apra
a letture metafisiche, in particolare le sequenze in cui il protagonista
maschile spia con un binocolo gli appartamenti di fronte al suo scoprendo
squarci di quotidianità altrui come icone di una realtà tanto ordinaria
quanto "aliena" e ontologicamente impenetrabile. Un film onesto ma pretenziosamente
intellettualistico che non aggiunge nulla al patrimonio del cinema d'autore
e non rimane distante dal livello dei suoi referenti.
Voto: 24/30
Mirco GALIE'
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LILYA 4-EVER di Lukas Moodysson
Lilya (Oksana Akinshina) ha sedici anni, vive nella periferia dell'ex
Unione Sovietica e non vede l'ora di partire per gli Stati Uniti con la
madre (Ljubov Asgapova) e il di lei fidanzato. Si affretta quindi ad annunciarlo
a chiunque, inizia a tagliare i ponti con quel mondo di degrado, prepara
le valigie. Ma la madre preferisce ricominciare la propria vita senza
di lei, e l'affida a una zia (Lilia Sinkarjova), con la (vana) promessa
che le manderà del denaro per permetterle di raggiungerla il più presto
possibile. In un ambiente in cui non esistono pietà, altruismo (e meno
che meno amore) Lilya è abbandonata a se stessa. Immediatamente spedita
dalla dolce zietta in un appartamento sudicio, senza luce né riscaldamento,
sarebbe completamente sola se con lei non ci fosse Volodya (Artiom Bogucharskij),
undicenne senza fissa dimora che a volte dorme sul suo divano. Insieme
cercano disperatamente una felicità che però non gli è consentito raggiungere,
se si esclude quella artificiale data da sniffate di colla e medicinali
presi alla rinfusa. La prima parte del film sfiora la perfezione: personaggi
ben definiti, equilibrio tra immagini, musica e dialoghi, uso penetrante
della macchina da presa (con qua e là le zoomate sui volti dei personaggi
che sono ormai una cifra distintiva del regista). La scena iniziale, flash
forward di notevole impatto, anticipa che per Lilya non ci sarà scampo,
e contribuisce a quel senso di tragedia incombente che è poi la struttura
portante del film. Moodysson dimostra di saper raccontare quella che poteva
essere "la solita storia" in modo pulito e senza sbavature, senza scadere
nel già visto, ma non riesce a mantenere questo stato di grazia fino alla
fine. Da un certo punto in poi, quando tutti gli ingredienti sono stati
messi nel calderone, il film prende l'unica strada possibile: per poter
mangiare Lilya inizia a prostituirsi, appare il ragazzo dolce e carino
-Andrei (Pavel Ponomarjov) - che vuole stare con lei senza nulla in cambio
e che le propone una via d'uscita. Andare in Svezia con Andrei a raccogliere
verdura è l'ultima illusione, perché appena scesa dall'aereo si ritrova
(ma ce lo aspettavamo) nuovamente nel giro della prostituzione, ma questa
volta non è una sua scelta. E se prima gli incontri con i clienti erano
mostrati attraverso la soggettiva di Lilya (e la variegata serie di uomini
ansimanti è un ottimo momento del film) ora lo sono in prospettiva capovolta,
mostrandoci la novella Cabiria felliniana come oggetto sessuale. Come
già ci aveva abituato in "Fucking Amal" e "Together" grande è la capacità
di Moodysson di far affezionare lo spettatore ai personaggi e al loro
mondo, aiutato in questo anche da interpreti validi (che, fra l'altro,
sono per lo più dei non professionisti). Pessimismo e senso d'angoscia
non sono mitigati neanche dalle apparizioni di Volodya, nei momenti più
disperati, in veste di angelo protettore: il paradiso esiste, ma la felicità
non si trova neanche lì. Con questo film Moodysson ha senz'altro virato
verso l'alto, lontano dall'atmosfera -tutto sommato- sbarazzina di "Together",
in cui le zone drammatiche della storia venivano risolte nel gioioso e
giocoso finale; qui invece ha "duellato" con il tragico, ma ha vinto soltanto
a metà.
Manuela PINETTI
Voto: 26/30
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TILDA SWINTON - THE LOVE FACTORY di Luca Guadagnino - 33'
Luca Guadagnino avrebbe dovuto intitolarlo IT TAKES TWO TO TANGO, perche'
il bellissimo ritratto della fabbricatrice d' amore Tilda Swinton e'un
inno alle solitudini produttive, ai fecondi autoisolamenti , a tutti coloro
che pagano scelte coerenti e coraggio immacolato con la resistenziale
sopravvivenza entro enclaves artistiche che vorremmo sempre frequentare
e che nei momenti in cui realizzano il miracolo di un incontro d'amore
-artistico/ carnale/ sentimentale- ricreano la magia del "tango", ma sono
subito pronti per ripartire "da soli". Luca & Tilda, quindi, due splendide
forme d' isolamento che qui si specchiano - banda sonora l'uno e video
l'altra- in una sorta di certamen tra intelligenze aliene, tutto giocato
sulla reazione alle costrizioni della Narrazione, intesa come rete di
relazioni strutturali vincolanti ( sceneggiatura ), e sulla reazione alla
narrazione delle Costrizioni, questa volta sociali (matrimonio? relazione
fissa? ). Il diritto alla solitudine, e non solo alla felicita' evocata
nella Costituzione americana, e' al centro del dialogare tra i due: Guadagnino
difende il diritto alla Forma come espressione di un' intelligenza alienatasi
dai vincoli imposti da regole inventate da altri e costituenti "sistema",
la Swinton il diritto alla Liberta' di esperire la Bellezza di Dolore/
Solitudine/ Sesso come atti sostitutivi della nozione imposta di "tempo
libero": al contrario, appropriazione del proprio tempo, liberato. Luca
passa dagli oltre duemila tagli di montaggio di THE PROTAGONISTS ad un
cinema, ormai da due anni, di pura concentrazione, al di la' dell'ovvieta'di
circostanze legate all íntervista in se'.
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UN VIAGGIO CHIAMATO AMORE di Michele Placido
con Laura Morante e Stefano Accorsi
L'incontro fra le arti è rischioso. In due direzioni: la sterile compromissione
di linguaggi non sempre compatibili, la noia per l'impossibilità di trasferimento
dell'emozione. Raccontare la vita di un artista porta l'autore in bilico
tra l'agiografia bozzettistica e la perdita del centro, ovvero l'acuta
sensibilità del soggetto. Michele Placido è un grande narratore di storie
e Del perduto amore, in questo senso, andrebbe preso a paradigma: ma laddove
in ballo c'erano pulsioni di diversa origine, e la vicenda era negli ideali
stessi della protagonista, scegliendo il tormentato amore Campana-Aleramo
si è trovato di fronte a qualcosa di diverso. Una vicenda umana decisamente
forte, legata però ad un incontro letterario di non secondario interesse.
Dino Campana è un poeta che alcuni studiano all'università, molti conoscono
per scelta, ma tanti non hanno mai letto. Difficile, forte a volte impressionante.
Sibilla Aleramo rischia, per i più, di passare solo per l'amante di Campana.
Placido lascia l'arte quasi ai margini, o meglio: la dà - specie nel caso
della Aleramo - come un dato acquisito e dunque da ricordare, piuttosto
che illustrare o approfondire. Ne fa sfondo e terreno a partire dal quale
costruire il racconto di una passione come però, sullo schermo, se ne
sono viste molte: ultima quella di FRIDA, di Julie Taymor, con il quale
Un viaggio chiamato amore condivide anche il mancato approfondimento delle
ragioni artistiche. E infatti, pur nell'acuta ricostruzione d'ambiente,
la pellicola si scoglie in un sequenziale accumulo di incontri/scontri
tra caratteri ribelli e difficili, passioni incontrollabili e violenti
rifiuti. Nel 1985 un altro film - senz'altro privo del glamour e del richiamo
che gli interpreti in questione (Laura Morante e Stefano Accorsi, non
troppo lontano dal suo personaggio tipo, nonostante l'ottimo impegno)
possono garantire - aveva raccontato la stessa storia: era INGANNI di
Luigi Faccini, ambientato perlopiù all'interno del manicomio dove venne
lasciato il poeta. Anche quella fu una scelta del regista: l'uomo rinchiuso,
Sibilla come figura presente ma lontana, eppure la forza dei versi di
Campana, in qualche modo, si percepiva: la suggerivano i gesti, il volto
dell'attore e il racconto del suo dramma.
Andrea DE CANDIDO
Voto: 23/30
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ZENDAN-E ZANAN (Women's prison) di Manijeh Hekmat Zendan-e Zanan
Film -documentario nato da una lunga serie di ricerche fatte dalla
regista stessa nelle carceri femminili iraniane, oltre a essere una forte
critica ai metodi della giustizia iraniana, è soprattutto l'ennesima testimonianza
della terribile condizione delle donne in Medioriente. La Hekmat, con
il suo esordio alla regia, sceglie di darci un affresco della micro società
ingiusta e punitiva che si crea all'interno di una prigione, che sembra
non essere molto diversa dalla situazione sociale, politica ed economica
del paese che la ospita. La regista si sofferma in particolare su due
figure : Tahereh, direttrice severissima ed autoritaria, decisa però a
migliorare le cose con i metodi della repressione e Mitra ergastolana
ribelle, anche lei decisa a cambiare la penosa condizione di vita delle
prigioniere, opponendo un'instancabile resistenza. Lo scontro diventa
inevitabile. Nell'arco di venti lunghi anni però le due donne imparano
a conoscersi e a convivere, instaurando nel carcere una sorta di armonia,
che porta addirittura la dura direttrice a chiedere ed a ottenere la grazia
per la sua nemica. Il film, pur costituendo un momento importante per
la cinematografia iraniana, rischia però di essere ripetitivo e manca
della poesia che li contraddistingue.
Caterina MAZZUCATO
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Aprimi il cuore di Giada Colagrande, con Giada Colagrande, Natalie Cristiani,
Claudio Botosso.
Due sorelle: Maria(Natalie Cristiani)) e Caterina(Giada Colagrande),
una accudisce l'altra, a far da sfondo a queste due esistenze sono letture
dantesche, teorie galileiane a confronto con quelle di Keplero. Un clima
culturale alquanto fervido, quello che emerge dalla Roma delle quattro
mura domestiche di queste due vite pseudosolitarie. Vite, che private
di una loro affettività regolare, per un consueto accrescimento psicologico,
a causa della morte prematura della madre, ed ignare di chi potesse essere
il padre, si legano morbosamente tra loro, non capendo i confini del rapporto
parentale! La più piccola è segregata in casa, sedici anni trascorsi avendo
scambi solo con la sorella maggiore, che funge persino da tutrice, le
compra i libri e la istruisce in loco come usava fare dai nobili un tempo
per non mescolarsi con il resto della popolazione, ma soprattutto per
la mancanza di scuole, ma oggi, come si spiega questa surreale vicenda?
Caterina è tenuta da Maria sotto una campana di vetro, come se il mondo
esterno potesse in un certo qual modo traviarla, ferirla!Caterina però
forse vede la sorella minore, come una sua proprietà, come la sua bambola
di giochi infantili. Caterina prosegue la tradizione materna con il mestiere
più antico del mondo, portando i clienti in casa, a questi incontri di
lavoro, seguivano bagni purificatori in cui Maria si immergeva come per
liberarsi degli atti che aveva compiuto, per poi concedersi sessualmente
alla sorella come vero atto amoroso. Durante i rapporti tra le due comparivano
visioni di quadri di Madonne, come la pala di Simone Martini per terminare
con la morte della Vergine del Caravaggio(di cui sappiamo lo scandalo
che il pittore suscitò, ritraendo come modello per la Madonna, una prostituta
incinta, o con il ventre gonfio d'acqua in quanto morta annegata nel Tevere,
trasferendo così alla Vergine le sembianze di una donna del popolo!).
Simbologie religiose, legate alla figura della donna, in particolare a
quella della Madonna e a quella di Maria Maddalena. Vige questa contrapposizione
tra i sentimenti e gli atti sino a che non subentra un terzo personaggio,
il custode(Claudio Botosso) della scuola di danza, unica valvola di sfogo
e di uscita per Caterina. Punto di vista fisso, luci fredde, mancanza
di colonna sonora come scelta di campo della regista, unica musica diegetica,
relazionabile alla vicenda, la si avverte durante gli incontri segreti
in casa di Caterina e del custode, uomo maturo che si innamora della giovane
sentendo quasi un impulso di redenzione ed un atteggiamento salvifico
nei confronti della giovane. I ripetuti incontri lasciano minime tracce
nella casa di una possibile altra presenza… . Maria comincia ad insospettirsi
ed ingelosirsi della sorella, tendendo così un agguato ai due li scopre
e come una prefica accoglie apparentemente di buon grado l'uomo invitandolo
a bere un calice di vino rosso che, nelle migliori tradizioni letterarie,
è portatore di veleno. L'uomo muore dando il via alla svolta a spirale
della vicenda ed alla iniziazione della piccola al mondo maschile, sino
a che Caterina non trova altra strada per interrompere la scia di morte
che la perdita di controllo di Maria aveva generato, che avvelenarla a
sua volta, al fine di interrompere un rapporto malato. Una storia per
certi versi surreale, per altri intrisa di riferimenti alle vicende di
fratricidi che hanno imperversato per il paese in questi ultimi tempi,
nonché citazioni desunte dalla letteratura di tutti i tempi dalle tragedie
greche a quelle shakespeariane. Una pellicola girata con pochi soldi in
un interno, in cui vige l'alternanza di suoni diegetici finalizzati alle
scene, ai silenzi meditativi e talvolta malsani, che ricordano le tematiche
dei film Dogma, mentre per quanto riguarda la fissità delle inquadrature,
i riferimenti approdano ad una cinematografia alla Ozu.
Lucia LOMBARDI
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The Magdalene sisters di Peter Mullan, 119'.
Vincitore del Leone d'oro alla 59^ edizione del Festival del cinema di
Venezia, questo film ha suscitato scalpore durante la sua proiezione alla
Kermesse; la Chiesa non ha visto di buon grado come vengano messe in luce
le istituzioni ecclesiastiche qui chiamate in causa. Non si tratta di
demonizzare la "fede" in sé, ma di mettere in luce un atteggiamento negativo,
che alcuni uomini di fede hanno perpetrato verso loro simili, senza motivi
plausibili, violenza psicologica e fisica gratuita! Ecco ciò che Mullan
evidenzia con la sua pellicola il cui racconto è tratto da un avvenimento
realmente vissuto da tre ragazze, all'epoca del governo Kennedy, rinchiuse
in un riformatorio irlandese. Questi numerosi istituti religiosi, gestiti
dalle suore della Maddalena, sono stati chiusi nel 1996, quindi quella
affrontata, è una storia più che attuale, che deve ancora una volta far
riflettere sul ruolo della donna nella società. In questi riformatori,
venivano rinchiuse giovani donne, orfane, ritardate, o che avevano subito
abusi sessuali, o che addirittura avevano avuto la sfortuna di rimanere
incinte non essendo sposate, le cui famiglie, disconoscendole, davano
i figli di queste sventurate madri, in adozione, rinchiudendole, subito
dopo il parto, con i seni ancora grondanti di latte materno, in questi
"campi di concentramento" postbellici. L'ipocrisia della società qui è
sviscerata appieno, sotto ogni suo aspetto più cruento. La storia è quella
di tre giovani, che vengono per differenti motivi gettate dentro le mura
di uno di questi istituti irlandesi e, si trovano a lavorare nella lavanderia
di cui l'istituzione si occupava per ammonticchiare denaro alle spalle
delle loro sofferenze; lavoravano in quei mefitici scantinati tutto il
giorno senza poter comunicare tra loro e stabilire un contatto umano,
altrimenti venivano seriamente punite; venivano derise fisicamente davanti
a tutte le compagne allineate come militari e denudate dei loro abiti,
la spersonalizzazione, la derisione, l'alienazione, la frustrazione e
la bieca individualità, a cui erano obbligate ad abituarsi, il considerare
loro stesse come esseri inferiori e peccaminosi, porta le giovani a grossi
conflitti interni, a tentati suicidi a spese dei più deboli di carattere
e a degli inutili tentativi di fuga da parte delle ragazze più intraprendenti.
Una delle ragazze, scorge un giorno di festa nel campo prospiciente l'edificio,
un pertugio aperto, capisce che potrebbe essere una salvezza, esce dalla
porta un giovane le offre un passaggio, ma lei non lo accetta e, lui la
apostrofa con parole velenose riguardo tutte quelle che, come lei provenivano
da quel luogo infame; la giovane sentendosi ancora più spersa e sconfortata,
rientra nella sua personale prigione! Tra le ragazze, nonostante gli sforzi
delle suore a far sì che ciò non avvenisse, si forma una vita sotterranea
di amicizia, di condivisione di esperienze nefaste, tant'è che questa
coesione, porterà due di esse alla ribellione e alla fuga tanto agognata.
Racconto serrato, film stilisticamente perfetto, recitazione ineccepibile,
conclusione, un meritato leone d'oro! Il cinema deve essere anche denuncia
sociale. I mass media, devono muoversi verso la sensibilizzazione dell'opinione
pubblica, non solo essere fautori di stereotipi e di miti fittizi.
Lucia LOMBARDI
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Velocità massima di Daniele Vicari, con Valerio Mastrandrea, Cristiano
Morroni, Alessia Barela. Sceneggiatura: Daniele, Maura Nuccetelli, Laura
Paolucci. Durata 111 min.
Vince alla 59/ma Mostra del cinema di Venezia il premio "Città di Roma-Arcobaleno
Latino", istituito per segnalare film dell'area latina e consegnato direttamente
dal sindaco di Roma Walter Veltroni, a Daniele Vicari, come miglior regista
esordiente, che grazie a questa pellicola ci riporta alla borgata romana
di pasoliniana memoria, ma nulla di trascendentale ed intellettuale avvolge
il clima della vicenda. Opera prima di Vicari che a Venezia con questo
lavoro colpisce positivamente, commuovendolo, il Leone d'Oro alla carriera
Dino Risi. Stefano (Valerio Mastrandrea) é un giovane ostiense, che parla
un dialetto stretto, maschilista ed un pò avventuriero, legato soprattutto
alle automobili, che vuole rivalutare la sua posizione sociale raggiungendo
il successo economico, avviando una attività in proprio, aprendo un'officina.
Tra debiti con le banche ed assegni in bianco, Stefano riesce ad assumere
un aiutante, Claudio(Cristiano Morroni) un giovane sensibile, non ancora
maggiorenne, che grazie alle sue doti tecniche di collaudatore di motori,
riuscirà a risollevare la situazione dell'officina dando una nuova impronta
lavorativa. I giovani si radunano con altri patiti di auto a Roma EUR,
dove si svolgono gare notturne a velocità inaudite, rischiando di perdere
tutto in pochi secondi, soldi e motori, lanciando schegge di riferimento
alle forsennate corse di gioventù bruciata. Anche in questo film, ci sarà
la tanto agognata corsa per la vittoria e, per il riscatto di sé stessi
nei confronti del branco. Claudio nella sua timidezza e riservatezza,
riesce a conquistare Giovanna(Alessia Barela), la più ambita del gruppo,
più grande di lui di diversi anni e che lo metterà in crisi con sé stesso
sia da un punto di vista sociale che lavorativo. Emergono nei rapporti
tra i giovani le classiche gelosie manifeste sin da quando l'amico-collega
trova una ragazza di cui è pazzamente innamorato, e che include nella
propria vita, ovviamente sottraendo del tempo ad altro, come per esempio
ai compagni e talvolta al lavoro, tuttavia questo è nella normalità degli
eventi, considerato comunque sia, che l'amore è sempre un sentimento che
chiunque vorrebbe esprimere ed invidia perciò chi lo trova… Il film ci
lascia con un interrogativo donne e motori, vanno poi così d'accordo?
Lucia LOMBARDI
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L'HOMME DU TRAIN di Patrice Leconte. Interpreti : Johnny Hallyday, Jean
Rochefort
Due uomini, due generazioni differenti: vite diverse che si incontrano
per condividere alcuni giorni assieme, nella stessa casa, che è la villa
del professore (Jean Rochefort), il più anziano dei due. I due personaggi
attendono l'arrivo del "sabato", giorno per entrambi fatidico, l'appuntamento
con un avvenimento, che potrebbe per motivi differenti per l'uno e per
l'altro, configurare lo spunto verso un probabile appuntamento con la
morte. Il professore grazie alle sue capacità discorsive, riesce ad instaurare
un rapporto di confidenza con l'avventuriero, ex cascatore di circo, che
per risollevare la sua situazione economica, si vede costretto ad affrontare
una rapina con i suoi vecchi compagni d'avventure, ma egli non sente né
sé stesso all'altezza della situazione, né il gruppo, ormai provato dalla
durezza dell'esistenza e dal tempo che inesorabile passa e si porta via
l'agilità e la destrezza fisica. Scambio di vite e di personalità tra
loro, è ciò che i due uomini vorrebbero fare; aver potuto vivere ciascuno
la vita dell'altro! Il professore, pantofolaio per natura, che ha vissuto
con la madre tutta la vita all'interno della stessa stratificata abitazione,
avrebbe anelato a condurre una vita spericolata, lui che aveva vissuto
solamente contornato dai suoi libri e riempito dall'insegnamento, quasi
come fosse stato un autoproteggersi dal mondo; incapace di costituirsi
una vita tutta sua, condizionato dalla famiglia (che come si evince da
molti film presentati a Venezia, talvolta viene vissuta come un fardello),
nonostante avesse un'amante da più di quindici anni, non era riuscito
a creare e a concretizzare progetti di vita comune! Ecco, che qui si inserisce
la metafora letteraria desunta dal romanzo "Eugenie Grandet", libro che
il professore farà analizzare al piccolo allievo, a cui dispensa lezioni
di letteratura, nel proprio vissuto studiolo, che per ricchezza di volumi,
ricorda quelli Rinascimentali. Per la prima volta nella sua vita, l'anziano,
dimentica di avere una lezione con il "piccolo", a cui si sostituirà il
cascatore. A questo punto il racconto sviscera il tema della fugacità
e della caducità delle "cose umane", collegandosi al romanzo di Balzac,
cioè alla possibilità di riuscire ad attendere tutta una vita il proprio
amore, sfidando tutti gli orologi e i calendari, concludendo la lezione
con un quesito, si attenderebbe oggigiorno l'amato per tutta l'esistenza?
Il sabato giunge dopo confessioni tra uomini di generazioni differenti,
che vorrebbero l'uno aver vissuto nei panni dell'altro, come si esplicita
visivamente dalla costruzione filmica dell'ultima scena della pellicola,
tecnicamente propria dell'occhio di Leconte, in cui le due figure di uomini
si vengono a sovrapporre per poi distaccarsi, imboccando strade diverse.
Lucia LOMBARDI
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UN HOMME SANS L'OCCIDENT di Raymond Depardon
Il nuovo film di Depardon, tratto dal romanzo di Diego Brosset, Sahara:
Un homme sans l'Occident, ritorna a parlare di Africa. Dopo l'apprezzatissimo
"Prigioniera del deserto", in cui le lunghe panoramiche e i lentissimi
movimenti di macchina conferivano agli illimitati spazi desertici un senso
di impotenza e prigionia, il regista continua ad analizzare i differenti
modi di vivere di chi è lontano dalla società concludendo un ideale percorso.
Il film segue i movimenti di Alifa (Ali Hamit), uomo del deserto che tenta
sfuggire alla colonizzazione occidentale. Mantenendo forti ascendenze
Flahertyane si muove sempre tra finzione e documentarismo, non riuscendo
però a raggiungere il risultato poetico del film precedente. Nonostante
le belle immagini in bianco e nero ottenute con una fotografia che esalta
i contrasti tra il candore monocromatico del deserto e i volti scuri dei
pochi uomini che appaiono, il film finisce irrimediabilmente per annoiare.
Caterina MAZZUCCATO
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UN HONNETE COMMERCANT di Philippe Blasband
L'onesto commerciante è in realtà uno spietato e freddissimo spacciatore
che nessuno è mai riuscito ad incastrare. L'ennesimo assassinio legato
ad affari di droga convince la polizia belga ad ingaggiare i suoi ispettori
più esperti che lo costringono ad un lunghissimo interrogatorio decisi
a farlo cedere. Subito i ruoli si ribaltano e l'abilissimo spacciatore
diventa inquisitore dei due poveri poliziotti che vengono trascinati in
un massacrante gioco psicologico che ne mette a nudo le loro debolezze
di uomini e di tutori della legge. Talmente sicuro della sua inattaccabilità
l'onesto commerciante si permette perfino di raccontare la verità su di
sè e sulla sua vita di spacciatore. Il film che rimane sempre in superficie,
ha la presunzione di descrivere le profonde motivazioni che spingono gli
individui ad incarnare il bene o il male, utilizzando schematismi psicologici,
che riflettono un'ottima conoscenza dei genere noir, ma che conferiscono
al film una scontatezza che non aggiunge niente di nuovo. Primo lungometraggio
di Philippe Blasband, già sceneggiatore, è contraddistinto da una regia
convenzionale che sottolinea la piattezza della trama. Buona la fotografia
degli interni di Virginie Saint Martin e gli attori, tra cui spicca l'iniziatore
al crimine, un ottimo Philippe Noiret.
Caterina MAZZUCCATO
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BLOOD WORKS di Clint Eastwood
Dopo le coraggiose incursioni semi-antropologiche dei sue ultimi film,
che pur muovendo da melodrammi di stampo classico hanno percorso felicemente
la strada della riflessione esistenziale con toni spesso cupi e suggestivi,
Clint Eastwood ritorna in cerca dei vecchi fasti con un prodotto di cassetta
ben confezionato ma fedele alla tradizione. L'eroe di turno è un veterano
sbirro dell'FBI costretto da un attacco di cuore al pensionamento anticipato
e ad abbandonare la sfida con un acutissimo serial killer chiamato dai
media "Codice Killer" per la sua abitudine di lasciare messaggi cifrati
al suo degno sfidante. Dopo il trapianto di un cuore ricevuto da una donna
morta ammazzata, McCaleb si rimetterà sulle tracce dell'assassino, contro
il fermo divieto dei pareri medici, per dovere morale nei confronti di
colei che morendo gli ha ridato la salute, spinto in questa ardua impresa
dalla sorella di lei che chiede giustizia del delitto subito. Inutile
dire che il caso sarà risolto e i protagonisti finiranno per accoppiarsi.
I soliti cervellotici colpi dei scena che articolano il plot [l'uccisione
della donna, dello stesso gruppo sanguigno di McCaleb, è frutto di un
geniale piano di Codice Killer in cerca di un cuore per il suo storico
cacciatore, l'assassino è "il goffo e insospettabile "vicino di barca",
ecc…ecc…] non bastano a nobilitare il livello di una scenggiatura prodotta
in serie, di quelle della peggior specie, che vantano pure accessori iper-inflazionati
come il collega minchione, il bambino geniale o i bozzetti ironici disseminati
qua e là nella storia a moderare la seriosità di un decorso pretenziosamente
'epico' dei fatti. I feticismi cinici del serial killer inveriabilmente
accoppiati ad una capacità di calcolo superiore alla norma sono luoghi
comuni risaputi del genere, che ormai indignano persino i più assidui
frequentatori di blockbusters, anche laddove la storia è montata da una
scrupolosa quanto efficentissima macchina attoriale come un Eastwood in
piena forma nonostante l'età: "…Ho recitato in tutte le scene, senza controfigura.
Ma io apprezzo tutto il processo di realizzazione e voglio dare al pubblico
qualcosa che valga il prezzo del biglietto. E' un lavoro impegnativo,
sia fisicamente che mentalmente, ma non vorrei che fosse altrimenti. Non
deve necessariamente essere facile; dev'essere divertente". Sotto il possente
portamento del suo carico muscolare, comunque, anche in questa prova persiste
quel piglio di profonda umanità che ha da sempre caratterizzato i personaggi
'eroici' di Eastwood e gli ha fatto guadagnare la amorevole devozione
di generazioni di ammiratori [non a caso la comparsa in scena del personaggio
durante la prima proiezione veneziana della pellicola ha suscitato una
entusiastica agitazione del pubblico in sala]. Il McCaleb di BLOOD WORKS
è un personaggio piegato dalla stanchezza e dalla malattia, che porterà
a termine la sua impresa scontrandosi col proprio limite fisico prima
che con l'abilità del suo rivale, e affronta il rischio della sfida nell'ansia
di ritornare ancora una volta sulle scene, nonostante le rughe, da protagonista.
Mirco GALIE'
Voto: 20/30
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MY NAME IS TANINO di Paolo Virzì con Corrado Fortuna, Mimmo Mignemi, Frank
Crudele, Rachel McAdams, Jessica De Marco.
Virzì con il suo nuovo film, fuori Concorso al Festival del Cinema di
Venezia, costruisce una vicenda incalzante, divertente da annoverare tra
le commedie all'italiana, e da considerarsi come degna prosecuzione di
quel filone, ma con qualche giusto tocco di intellettualismo degno del
proprio talento registico. Il film va a ritroso, iniziando con il racconto
euforico del giovane protagonista: Tanino, interpretato da Corrado Fortuna,
racconta in prima persona, attraverso una mail indirizzata all'amico d'infanzia,
il suo sogno americano, la sua incredibile avventura. Tanino è un giovane
studente siciliano iscritto all'Università di Roma con velleità da filmmaker.
Tutto incomincia durante l'estate, quando tra i flutti marini della frastagliata
costa sicula, Tanino recupera un orpello appartenente ad una "americana
venere bionda", approdata in quel di Castelluzzo per le vacanze; tra i
due giovani scocca il dardo dell'amore estivo-esterofilo in voga da sempre
sulle nostre spiagge. Ciò che Giuseppe eredita da questa storia, oltre
alla nostalgia è una telecamera portatile, che lei dimentica provvidenzialmente
in Sicilia… . Lui figlio della generazione di Seattle e di una parrucchiera
vedova di Castelluzzo, si trova smarrito, abbandonato a sé stesso quando
dopo essere stato bocciato all'esame di storia del cinema, a causa di
una alterazione del titolo di un film di Fellini da 8 ½ trasformato in
12, torna anticipatamente al paese natio e trova la madre in dolce compagnia;
Tanino ferito nell'orgoglio di figlio egoista ed infantilòide, e rischiando
di partire per il servizio di leva, decide di fuggire in America grazie
all'aiuto economico datogli da un vecchio commerciante che in cambio gli
chiede di trasportargli oltre oceano alcuni pacchi per i parenti italo-americani.
Così Tanino si trova metaforicamente traghettato in pieno sogno americano,
qui la parodia viene fomentata dal caricaturare sempre più incalzante
dei personaggi, solamente che in certi punti il luogo comune prende il
sopravvento, ma nel contesto la messa in scena appare alquanto divertente
e ben orchestrata. All'aeroporto trova ad attenderlo tutta la comunità
italo-americana di Rhode Island da cui lui prontamente fugge per andare
alla ricerca di Sally, la sua fiamma estiva per restituirle la fantomatica
telecamera. Nella fredda cittadina, riesce a rintracciare Sally, che accoglie
freddamente il ragazzo, in quanto lei ha la sua vita precostituita, un
nuovo ragazzo suo collega al college, che va a genio alla sua borghese
famiglia; Tanino è l'antieroe per antonomasia, qualsiasi progetto egli
affronti, gli si frantuma tra le mani. Accidentalmente egli viene ad infrangere
gli equilibri instabili della famigliola americana, apparentemente perfetta,
scoprendo inavvertitamente il tradimento della madre di Sally con il cognato.
Tanino fugge da questa situazione e si ritrova nuovamente attorniato dagli
italo-americani che, lo costringono a fidanzarsi con la viziatissima e
poco attraente figlia del sindaco della città. Il protagonista vive contraddittoriamente
la situazione, si sente un arrivista ma non riesce a sottrarsi agli artifici,
sinché sentendosi ricattare e mal apostrofare dalla mafiosetta, la getta
in acqua durante una cerimonia e fugge ricercato dalle nerborute guardie
americane, come in qualsiasi poliziesco che si rispetti; riuscendo a salire
al volo sul primo treno e risvegliandosi nella grande mela. Il suo entusiasmo
cresce sino ad esplodere quando ad una rassegna di cinema presso l'università,
conosce inaspettatamente il suo idolo, il regista underground Seymour
Chinawsky, che scoprirà essere un emarginato all'oscuro delle nuove tecnologie
cinematografiche tanto quanto lui. Tentando invano di salvare la vita
al suo nuovo compagno di sventure, egli viene catturato ed imprigionato
per i reati imputatigli dalla figlia del sindaco, ma rilasciato su cauzione
grazie ai compaesani d'america, che delusi dai progetti investiti su Tanino,
lo fanno rimpatriare, lasciando il giovane al proprio destino ed al proprio
generazionale stato di confusione! Una storia giovane, frizzante, ironica
con richiami a Sergio Leone nei flashback riguardanti le polverose scene
dell'uccisione del padre del protagonista. Il debuttante Corrado Fortuna,
ricorda il giovane Vittorio Gassman con la sua forte espressività da sprovveduto
ed imbelle delle commedie all'italiana. La pellicola dona al nostro cinema
una nuova sferzata e strizza l'occhio al mercato internazionale, sia dal
punto di vista delle tecniche di ripresa che da quello della sinapsi del
film.
Lucia LOMBARDI
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THE TRACKER di Rolf de Heer Con David Gulpilil, Gary Sweet, Damon Gameau,
Grant Page
Australia, 1922. Alla caccia di un fuggitivo accusato dell'omicidio di
una donna bianca, si muovono tre poliziotti a cavallo: il capo (il Fanatico)
è un convinto razzista, il Veterano è un esperto anziano e silenzioso
e il Segugio è una giovane recluta spaesata per la prima volta in missione
speciale. La loro guida è un aborigeno che si muove a piedi , espertissimo
nel seguire le tracce del fuggitivo, anch'esso un nativo. Non hanno nome
i protagonisti dell'ultimo film di Rolf de Heer (regista olandese naturalizzato
australiano, autore tra gli altri dell'interessante Bad Boy Bubby del
1993) e la voluta astrazione della vicenda traspare anche dal paesaggio
che quasi soffoca i personaggi e dall'uso della colonna sonora. Tutto
è architettato affinchè il film sia, sì una sorta di denuncia dei massacri
razziali che i bianchi hanno inflitto agli aborigeni all'inizio del secolo,
ma anche una più ampia e profonda indagine psicologica degli archetipi
che sono spesso presenti nel panorama cinematografico. Lo stile rimanda,
iconograficamente, al western, ma de Heer rende rarefatti ambienti e atmosfere
(così come aveva fatto Jarmusch in Dead Man) congelando i sentimenti al
di fuori di ogni tempo e genere. L'intera pellicola suona come un lungo
blues visivo, uno straziante canto che non ha bisogno di prolissi dialoghi
(sempre troppi nel cinema contemporaneo) e di intricate vicende per far
emergere conflitti che sembrano eterni. Ad una ricercata linearità, ad
un incedere lento e cadenzato, si contrappone una tensione che sorprende
proprio perché la storia ed i personaggi, fin dalle prime inquadrature,
sembrano avere un destino prevedibile, quasi scontato. E' su questo difficile
equilibrio che de Heer vince la sua scommessa, partita che non si aggiudicherebbe
senza la complicità dello spettatore. Chi guarda deve abbandonarsi al
ritmo, deve superare quella sensazione di prevedibilità che The Tracker
sembra trasmettere, deve scavare dentro le luminose immagini e quindi
affrontare un finale che, dietro il sorriso della giovane recluta, non
nasconde nulla di confortante.
Voto 28/30
Paolo FAZZINI
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RIPLEY'S GAME di Liliana Cavani
La Cavani mette in scena una reinterpretazione del primo successo internazionale
di Wim Wenders, L'amico americano, già a sua volta partorito come riadattamento
per il grande schermo di un romanzo di Patricia Highsmith. Da letteratura
a cinema e poi ancora a cinema, ma in altra versione, Ripley's game è
un esercizio di riscrittura che non offende le matrici orginarie se non
per il limite intrinseco alla pratica del "ricopiare", che nel cinema,
come altrove, tende a diluire la creatività nel sapore stantìo di una
"minestra riscaldata". Nella versione Cavani il personaggio cinico e raffinato
di un John Malcovich fedele alla eleganza della sua figura e quello tenero
e impacciato di un Dougray Scott assai lontano dalla fascinazione plastificata
del cattivo di Mission Impossible II, sono all'altezza di una storia che
tira in ballo l'ambiguità dell'opposizione bene-male tra le righe di un
thriller abissalmente drammatico: un onesto artigiano di provincia [per
di più un corniciaio] malato di leucemia si reinventa assassino per assicurare
il benessere finanziario alla sua famiglia e l'acutissimo criminale che
ha architettato il geniale piano si prostra ai palpiti della pietà di
fronte alla evidenza della "purezza corrotta" dal suo gioco perverso.
"…Il film focalizza in particolare il rapporto maestro-discepolo, una
diade antica e sempre attuale che a tratti si confonde con l'altra diade
vittima-carnefice", dichiara la regista, centrando uno dei punti di forza
della storia, che risiede proprio nel suggestivo ribaltamento delle posizioni
centrali: il buono smarrice la morale e diviene goffo, mentre la perizia
criminosa del cattivo diventa virtù al servizio di un atteggiamento quasi
paterno che suscita emozione e conforto. la marmorea solidità del personaggio
di Ripley si intona felicemente con il gusto algido e levigato delle ambientazioni
venete e nell'evidente lavorìo sull'idea di estetica raffinata e buon
gusto, che si associa al personaggio e alle scenografie, soprattutto di
interni, la Cavani è riuscita a costruire una atmosfera magnetica che
esalta il potenziale narrativo della vicenda. ".. al cinema mi annoia
l'attesa strombazzata del pericolo, mi inquieta invece la sua invisibilità.
Ho considerato perciò la suspense non come una tensione che interviene
a tratti per scuotere lo spettatore, ma viceversa come un sentimento profondo
che accompagna Ripley quasi come un'aura che si porta intorno".
Voto: 23/30
Mirco GALIE'
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DUE AMICI di Spiro Scimone e Francesco Sframeli
Sarà stata la parziale delusione delle altre produzioni italiane presentate
il Laguna, sarà stato l'immediato innamoramento di quanti (pochi, per
dirla tutta) hanno già avuto occasione di visionarlo, fatto sta che questo
DUE AMICI a Venezia ha fatto proprio un'ottima figura. La trama? Poco
più che un pretesto: Nunzio (Francesco Sframeli), operaio in una fabbrica
di vernici, e Pino (Spiro Scimone), sicario costantemente in viaggio,
condividono un triste appartamento di periferia in una Torino mai così
anonima e deprimente al cinema. Siciliani trapiantati in un inquietante
non-luogo, i due protagonisti fondano il loro menage su una totale complementartà
di carattere: a bilanciare gli sguardi taglienti, i silenzi e l'eleganza
tetra di Pino, infatti, arrivano come da un altro mondo i sorrisi e le
domande improbabili del coinquilino, autentico motore narrativo della
vicenda. Straziato da una tosse lacerante, il tenero e ingenuo Nunzio
troverà in una lavascale (la deliziosa Teresa Saponangelo) la donna cui
offrire fiori e aprire il cuore, ricavandone l'ennesima umiliazione. Anche
il glaciale e consumato killer, intanto, sembra intenzionato a far filtrare
un raggio di luce nel suo universo, e per potersi liberare definitivamente
del suo mestiere è costretto a un ultimo, efferato delitto. La pellicola,
pimpante per almeno un'ora, più intimistica e controllata nel finale,
è tratta da una pièce teatrale del '94 dello stesso Scimone: se a suo
tempo la regia venne affidata ad un mostro sacro come Carlo Cecchi, stavolta
i due artisti messinesi hanno deciso di cavarsela da soli, con risultati
decisamente apprezzabili. A voler trovare un punto debole lo si può individuare
nel poco incisivo e a tratti inappropriato commento musicale di Andrea
Morricone, figlio d'arte forse ancora un po' troppo "acerbo". Inappuntabile,
invece, la scelta dei personaggi di contorno, con un Felice Andreasi in
gran forma nel ruolo di affittuario implacabile e strampalato, e l'asciutta
fotografia di Blasco Giurato. Quanto alla coppia Scimone-Sframeli, giù
il cappello: Samuel Beckett e il suo sottile gusto per l'assurdo sono
ancora lontani, ma questi Franco e Ciccio virati in un'atmosfera da "Cinico
Tv" hanno già dimostrato di avere qualcosa di importante da dire, immergendosi
in profondità cui i trentenni indecisi di Muccino e D'Alatri non si avvicineranno
mai.
Voto 28/30
Luca M. CALDARELLI
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