Il primo lungometraggio del coreano Song
Il-gon è un film difficile, un road movie cupo e introverso in cui la
meta geografica della ‘Flower Island’, l’isola dei fiori dove ogni dolore
scompare, diventa il limite interiore al quale protendere un disperato
anelito al sollievo. Sollievo dai dolori che irribediabilmente accompagnano
la nostra esistenza e che non sono altrimenti tollerabili se non con un
percorso di purifcazione che attraversa la coscienza e introduce alle
percezioni intime dello spirito.
"Tutti abbiamo incurabili ferite interiori. - dice il regista - Provengono
dal fato, e a esso non possiamo sfuggire. La storia e la vita di un individuo
fanno parte del nostro fato e non ce ne liberiamo se non con la morte".
La esistenza ci ciascuno evolve attraverso esperienze amare che lasciano
il segno raggrumandosi in croste indelebili e incisive. Non sono deformazioni,
né alterazioni di uno stato normale, ma componenti essenziali della formazione
di un uomo, che scolpiscono il suo suo corpo interiore e si risolvono
per ricobinazioni casuali in un bagaglio di possibilità percettive.
Una elegia del dolore che procede per ellissi, squarci pittorici, silenzi
e compone in una esperienza intima il suono di urla lancinanti, la fisicità
di carni ferite e rumori di materiali casuali che sembrano gridare il
male del mondo (dalle buste di plastica, agli sportelli dell’auto, al
coperchio del cassonetto).
Il pellegrinaggio interiore delle tre protagoniste dissolve pian piano
il dolore nella liricità delle esperienze, delle percezioni e degli incontri,
sollevando una remota idea di salvezza. Sono quelle percezioni intime
che il cinema intende catturare per restituirle al mondo metabolizzate
dalla forza salvifica dell’arte. "Divenuto adulto ho scoperto che tutti
portiamo in noi delle ferite, e che queste ferite non sono sanabili. Per
questo ho iniziato a fare film. Flower Island parla di come possiamo
trovare il modo di sanare la nostra anima ferita".
Voto: 27/30
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