|
|||
In ogni nascita è implicita una morte. Il
desiderio, sostrato sui cui binari corre la pulsione della vita, può guidare
verso aperture terribli se sfugge al controllo della ragione, ma l’utopia
di un dominio della ragione sul desiderio è un debole tampone alla brutale
realtà delle cose, all’idea, cioè, che il potere della ragione sia irrimediabilmente
schiavizzato dal potere di seduzione malefica, arbitraria, terrificante
di un oggetto che, senza preavviso e senza giustificazione, si fa desiderare.
In questa libera interpretazione cinematografica del famoso dramma di
Goethe il dott. Fausto, specialista in medicina terminale, durante un
congresso incontra Santos, un sinistro perosonaggio che dice di essere
stato suo paziente, di aver subìto la rimozione del fegato otto anni prima
e di essere sopravvissuto contrariamente al pronostico del medico che
lo dava spacciato entro tre mesi. Santos guiderà l’illustre scienziato
in un viaggio surreale e lo traghetterà in territori di incubo e di paura
che sembrerebbero lynchiani. E’ il solito dramma della lotta non ancora
risolta, nel nostro occidente malato, tra intelletto e istinto, tra civiltà
e natura, tra autocontrollo costruttivo e potenza devastatrice della pulsione
emozionale, ma Fausto 5.0 sembra gestire in modo geniale la retorica
della viaggio all’inferno tipico di queste trattazioni, tanto sul piano
narrativo quanto su quello estetico-formale. Il ritmo è tanto incalzante
da non annoiare ma il montaggio realizzato con finezza chirurgica lo rende
spontaneo e non forzato. Il plot è intrigante, intenso quanto basta per
solleticare la suspance, incoerente quanto basta per veicolare oltre i
limiti della storiella ben raccontata e attivare il congegno irresistibile
di una esperienza audio-visiva di grande efficacia. L’elaborazione fotografica
è tenuta su toni elevatissimi, con colori intensamente lividi, istantanee
di grande eleganza e forza espressiva (meravigliosa la sequenza che scorre
tra le celle della prigione), inquadrature azzeccate, primi piani drammatici,
panoramiche, prospettive vertiginose dall’alto o dal basso, squarci di
violenza materica che inghiottono nel gorgo dell’orrorre, esibiscono oscenità
rivoltanti, mescolano piacere sessuale, estetica dei sensi, volgarità
di carni squartate, autopsie e escrementi e, senza debordare nella gratuità
dello splatter, rendono tutta la impellenza di una carne pregna di languido
malumore. L’arte chirugica si confonde con la volgarità di bassi istinti
nei discorsi ai tavoli del ristorante dove le "irriverenti" disquisizioni
tra gli eminenti dottori si sovrappongono alla chiassosità istrionica
dei cabaret. A tratti gli autori dispiegano il loro talento registico
innestando la marcia dell’iperbole visiva in sequenze virtuose, con dissolvenze
e sovrapposizioni, immagini aggressive, urla ed estetiche pscichedeliche
che farebbero invidia ai tecnofili d’oltreoceano. |
|||
Mirco GALIE' |
|||
|
|||