FIGLI/HIJOS
di Marco Bechis
con Giulia Sarano, Carlos Echevarria e Stefania Sandrelli

Il cosa e il come. Ovvero due elementi fondamentali del fare cinema: ciò di cui si narra e in che modo si decide di farlo. Molto spesso (e l'abbiamo detto più volte, vedi la nostra recensione de LA STANZA DEL FIGLIO) molti si appoggiano al primo per nascondere le mancanze dell'altro, nella speranza che l'impatto emotivo del proprio racconto sia a tal punto intenso da far dimenticare il resto. Ci sono autori che invece non si accontentano: scelgono la materia, ma ne rielaborano il coefficiente emotivo con gli strumenti della propria espressione, e soprattutto l'inquadratura e il tempo. Uno di questi è senz'altro Marco Bechis.
HIJOS/FIGLI parte da un come senz'altro "invadente": narrare di come una vita creduta normale può scoprirsi falsa, a causa di un passato di violenze civili e collettive. Un passato così orrendo da riflettersi persino sui figli di chi ne è stato vittima. In Argentina, infatti, la dittatura militare non si fermò a colpire chi ne rifiutava l'idea, ma guardò al futuro, alla generazione che li avrebbe seguiti - gli hijos: molti furono uccisi ma altri finiro forse anche peggio: adottati dagli assassini dei proprio padri.
Una materia, allora, su cui è facile scivolare, perdere l'equilibrio, ma a partire dalla quale Bechis a messo in piedi una struttura filmica assolutamente rigorosa: nell'intelaiutura narrativa come nel valore fondamentale attribuito all'inquadratura. Il racconto, per lui, è l'inquadratura, non la successione dei piani. Un lavoro che parte dalla sottrazione dei controcampi e si regge su di un apparente squilibrio degli elementi. I protagonisti sono due, e quasi sempre coabitano il quadro (magari grazie ad uno specchio), ma qualcosa - la messa a fuoco, l'altezza, un elemento architettonico - di volta in volta bilancia l'attenzione a favore di uno o dell'altro, suggerendo molto di più che un cronologico accumulo dei eventi e sensazioni. Un po' come Paolo Benvenuti in GOSTANZA DA LIBBIANO, Bechis riempie le proprie inquadrature del maggior numero di informazioni possibile, e non solo di natura spazio/temporale ma principalmente emotiva. E' per questo che a volte il suono del vento vale di più di un dialogo e un taglio al montaggio è meglio della "scena madre" che ad un certo punto ci aspetteremmo naturale ma che, inevitabilmente, saprebbe un po' di deja vu.


Voto: 30/30

Andrea DE CANDIDO
01 - 09 - 01


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