ABRIL DESPEDACADO
di Walter Salles
con Rodrigo Santoro e Ravi Lacerda

L’importanza di raccontarsi, nel senso impersonale e riflessivo del termine, "storie": ecco la pesta in gioco del film in concorso di Walter Salles. E’ notte, una carrellata all’indietro ci restituisce la camminata di un ragazzo col cappello, Pacù, viso in ombra, che inizia a raccontare "una" storia. Una faida inveterata tra due famiglie in lotta per la terra, l’onore e… l’ottusa abitudine di odiarsi per avere qualcosa su cui imperniare il tempo altrimenti insensato di una vita spesa nel lavoro, in raccolti sterili, nella rendita avara dello zucchero di canna: siamo nelle steppe del Brasile, inizio secolo. Il tempo della faida ha una sua matrice: un secondo in più che passa è un secondo in meno che resta da vivere a chi, come Tonho, deve scontare l’uccisione di un membro della famiglia rivale. Il conteggio del tempo avrà termine alla luna nuova (o quando il sangue del morto sarà ingiallito) perché è questa la tregua che le due famiglie abitualmente si concedono prima di vendicare i congiunti. Ma a sconvolgere quest’ordine arrivano due circensi, fratello e sorella. Clara inizia all’amore Tonho, altrimenti destinato a non conoscerlo mai e soprattutto regala un libro a Pacù, il fratello minore del condannato, che comincia ad imbastire storie, che poi dimenticherà, sulle illustrazioni del libro e che gli costeranno il sequestro del medesimo ad opera del padre che lo vuole più intento alla macina delle canne da zucchero, soprattutto ora che Tohno ha lasciato la casa sulle tracce di Clara (e forse per sfuggire alla vendetta). Ma il giorno in cui scade la tregua ritorna e la notte, dopo esser stato con lei, si svestito all’aperto, esposto ai colpi del nemico che si è avvicinato alla casa. Pacù si accorge di tutto e in un momento capisce quel che gli è richiesto: indossa i vestiti del fratello, esce dal recinto e si incammina nella notte: è la stessa scena che abbiamo visto nell’incipit. Ora Pacù ci dice che questa era la "sua" storia ma si chiede come mai fossero le altre storie che aveva dimenticato e… giunge lo sparo. Il film potrebbe concludersi ma si dilunga a chiarire ciò che si era già capito: il padre abbraccia il fucile per una vendetta immediata ma la moglie ha buon gioco urlandogli che ormai è tutto finito: "ma come, non capisci, che tutto è finito?" Tacendo di alcune sequenze, come la storia d’amore stereotipata e un po’ incredibile tra i due giovani, che abbassano il tono del film, il finale è veramente sorprendente: che quel ragazzo in ombra fosse Pacù lo spettatore accorto lo era venuto a sapere già durante il film così come non è nuovo vedere un film che si chiude sulla scena iniziale. Ma qui la soluzione "formale" di montaggio si carica di una necessità "di contenuto" che prende corpo solo durante la visione del film e che consiste in ciò: la capacità di comprendere le storie e soprattutto di saperle concludere. Cercheremo di spiegarci meglio. Delle storie con cui è venuto a contatto Pacù ha trattenuto la cosa più importante che poi ha saputo applicare alla sua: la conclusione. Nel gesto Del ragazzo è esemplificato in maniera eminente che cos’è avere intelligenza narrativa, che cosa significhi capire le storie e applicare ciò che così abbiamo capito alla propria vita, senza intendere ciò come un prima e un dopo (prima le storie e poi la loro applicazione nella vita) ma piuttosto come una loro cooriginarietà o circolarità: è travestendosi che Pacù finisce di capire la sua storia, ma solo perché l’aveva già capita ora sa quel che deve fare per concluderla sensatamente. La storia della faida, ora ri-raccontata da Pacù si carica di un tempo più complesso, circolare, più vivo e che non ha più niente a che vedere con la morta linearità dei momenti del conto alla rovescia che aveva governato fino a quel momento l’esistenza delle due famiglie: il sacrificio del ragazzo non è stato inutile, tutti gli sono debitori d’amore.

Voto 29/30

Alessandro MAZZANTI
02 - 09 - 01


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