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Attori professionisti, gente comune tutti ad interpretare
se stessi nell’opera di Zhang Yang basata sulla storia vera di Jia Hongsheng,
attore di fiction televisive e di teatro (diretto dallo stesso regista)
che si aliena agli amici, alla professione, alla famiglia finendo in un
sanatorio per malattie mentali dal quale uscirà rimesso e segnato. Quali
le cause? Tutto: l’apertura anacronistica della Cina all’occidente, alla
musica, alla droga; o niente: la vita che sorprende un giovane che cerca
e non si accontenta. Un film che fin dall’inizio svela la propria finzione
intercalando interviste al cast, zoomate all’indietro a scoprire gli interni
come set cinematografico e sguardi, affermazioni del protagonista alla
camera: "oggi compio trent’anni" dice uscito dall’ospedale al termine
di un montaggio veloce di inquadrature che dal campo lungo stringono sul
primo piano. Il linguaggio di questo film, come altri cinesi presenti
alla mostra è fresco, fa sentire la sua importanza senza essere ricercato:
è questo che rende una storia non nuova (e quali lo sarebbero?) bella
e coinvolgente, attenta a rendere quei dettagli semplici che la facciano
autentica e sempre sul punto di essere finalmente raccontata. Lo scarto
generazionale si riassume in una inquadratura che accosta due pezzi di
sapone, la realtà della storia viene resa accentuando ancor di più, svelandola,
la finzione alla quale stiamo assistendo. A tratti vita e dramma si scambiano
di posto e non si sa più cosa vedere: fino un attimo prima il film mostrava
la vita (costruita sullo schermo) di questo attore, poi, accorgendoci
che è una simulazione, cogliamo l’attore in opera, così come recita nella
vita sul set dei suoi film o, meglio, del nuovo film che stiamo vedendo
e in cui quindi vita e cinema tornano a confondersi. Speriamo che sia
uno dei premiati. |
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Alessandro MAZZANTI |
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