GIOVEDI' 24 aprile
JUST ONE LOOK
Hong Kong, 2002
di Riley IP
Ambientato sull'isola di Cheung Chau, ad ovest di Hong Kong, negli anni
sessanta, il film narra le vicissitudini di due adolescenti della zona, Fan
(Shawn Yu) e Fishball Ming (Wong You-nam). Il primo medita di vendicarsi
della morte del padre torturando a colpi di fionda quello che ritiene (a
torto) il suo assassino e si invaghisce di una ragazzina riottosa che si
nasconde in una specie di tempio su un'altra isola. Il secondo vorrebbe fare
colpo sulla figlia di un maestro d'armi e per questo si iscrive (e convince
Fan a fare altrettanto) al suo corso di arti marziali. Il tutto cadenzato
dalla vitalità brulicante e rumorosa del rione nel quale i due gestiscono
una bancarella del mercato, proprio dietro un cinema in cui si proiettano
film di divi famosi e robaccia di serie Z. Funziona abbastanza bene il
retrogusto nostalgico che avvolge il film e l'utilizzo di spezzoni di film
vecchi in funzione narrativa. Non mancano, purtroppo, certi brutti vizi,
come quello di buttare troppa carne sul fuoco, complicare in vario modo la
faccenda per poi risolverla in soluzioni facili. e con un finale
consolatorio.
Voto: 22/30 (LS)
PORNO PERIOD DRAMA: BOHACHI
BUSHIDO
Giappone, 1973
di ISHII Teruo

Primo film della retrospettiva
dedicata a Ishii Teruo, il prolifico "Re del Cult" giapponese invitato a
Udine per presentare alcune delle sue pellicole più rappresentative. In
Period Drama: Bohachi Bushido
si racconta di un micidiale samurai in fuga dalle autorità che trova rifugio
presso una comunità di emarginati che gestisce una sorta di quartiere a luci
rosse. Softcore in cui scorre parecchio sangue e volano teste girato
tuttavia con una certa eleganza per i colori e per la messa in scena.
Abbondano le nudità femminili (ci sono anche alcune esempi di quelle torture
erotiche che pare andassero per la maggiore durante il periodo Edo in
Giappone, tra il 1600 e il 1867) ma anche un certo talento per la
costruzione di epiche scene di battaglia all'ultimo sangue e credibili
incursioni nell'onirico e nel grottesco.
Voto: 25/30 (LS)
MASTER OF THE GENSENKAN INN
Giappone, 1993
di Ishii Teruo
Teruo Ishii, prolifico regista ormai ultraottantenne il cui lavoro è
riuscito soltanto in tempi recenti a trasmigrare in occidente, ha praticato
per decenni i territori di un filone conosciuto come “ero-guro”, ovvero
‘erotico e grottesco’, contribuendo col suo lavoro a delineare i caratteri
di un genere che scava sfacciatamente entro le degenerazioni perverse
dell’universo erotico giapponese attraverso una lettura alternativa
all’autocompiacimento manieristico di gusto decadente alla Oshima. In
quest’opera Ishii parte dall’incontro di un disegnatore di fumetti con
alcuni figuri più o meno loschi dell’industria dei “comics” per impastare un
intreccio architettato secondo una struttura sofisticata ed audace, che
procede per divagazioni temporali [flashback] e slittamenti ‘meta-narrativi’
progressivi. Dalla mente fervida del protagonista che propone le sue
creazioni ai produttori si materializzano tre episodi totalmente slegati tra
di loro, da nient’altro accumunati se non da un gusto “fumettistico” del
racconto, basato sulla costruzione di scene dai colori vivaci e dai
caratteri sapientemente esasperati. I primi due episodi indulgono in uno
spiritualismo trasognato e poetico che ammicca alla suggestione
dell’elemento naturale: acque limpide e fiori galleggianti, sotto le note di
un sonoro straniante e un buon gusto registico che proietta verso stati di
contemplazione e preziosissime iperboli di tenerezza. Il terzo episodio, più
lungo degli altri, si incanala invece nella tradizione cupa delle storie di
fantasmi giapponesi in cui in atmosfere sepolcrali di tono delicatamente
fiabesco di insinuano trattazioni sporche di violenza e sesso malato. Negli
intermezzi tra gli episodi si svolgono le sfortunate vicende professionali
del protagonista, che nonostante il suo talento stenta a procacciarsi il
pane e al termine l’intero racconto si rivela esso stesso un film proiettato
ad un pubblico che si alza in piedi ad applaudire e ad osannarne gli
autori…. Generi narrativi e tradizioni culturali si miscelano nel film in
modo poco chiaro rendendo evidente la pecca di una scarsa unità dell’opera,
ma la ricchezza di spunti di cui è infarcita la pellicola, primo fra tutti
una non comune abilità del regista di creare atmosfere e costruire immagini,
in parte dovuta ad un innato talento visionario, in parte alla
metabolizzazione onnivora di generi [non solo cinematografici] e linguaggi
nel corso di una carriera lunghissima, rendono il prodotto assolutamente
godibile.
Voto: 26/30 (MG)
LIFE SHOW
Cina, 2002
di HUO Jianqui

Quando la millenaria spiritualità asiatica, silenziosa e imponente come una
enorme distesa desertica, si fonde con la sofisticazione rumorosa e
debordante della cultura anglosassone, a seconda della prevalenza dell’uno o
dell’altro elemento il prodotto cinematografico può essere il tentativo di
emulare le suggestioni più commerciabili della maniera occidentale o la
eleganza crepuscolare e languida di un conflitto esistenziale insanato e
forse insanabile. LIFE SHOW propende per questa seconda opzione delineandosi
già dalle prime inquadrature come un film prezioso e raffinato, una di
quelle storie d’amore comuni che si svolgono “on the road”, tra anime sole
che si incontrano per caso dentro il frastuono devastante di bagliori al
neon e torrenti di individui urbanizzati che circumnavigano labirinti di
cemento e vetro. In questo scenario si consuma la vicenda sentimentale della
giovane e graziosissima Lai Shuangyang, proprietaria di una rosticceria
all’aperto in un mercatino notturno, la quale, attratta dagli sguardi di un
cliente abituale, si lascia sedurre dall’uomo confidando di dissolvere
definitivamente nell’amore il senso di vuoto pneumatico che la attanaglia.
Purtroppo la realtà si rivela diversa: l’uomo non è disposto ad immettersi
in una storia impegnativa e Lai ripiomba di getto nella sua situazione di
disagio, ulteriormente aggravata dai conflitti familiari per questioni di
eredità e l’abbattimento del mercatino notturno, simbolo di una tradizione
culturale ferita dalla prepotenza di un capitalismo avventizio. Il senso di
vuoto, la malinconia, il senso di inadeguatezza ad una realtà sociale nella
quale la moltiplicazione degli input relazionali incrementa esponenzialmente
il blocco comunicativo, si rivelano alla percezione dello spettatore
attraverso la velatura preziosa di un linguaggio che si affida alla eleganza
delle immagini, ad una scrittura che allude più che spiegare, ad una
macchina da presa che si sofferma di tanto in tanto su ritagli meta-filmici
dell’inquadratura, in particolare i gesti delle mani che spaccano carni
animali, maneggiano monete e accarezzano corpi. Ed inoltre, o forse di
conseguenza, una riflessione sulla crisi della transizione epocale tra
vecchia e nuova Cina, condotta e gestita dalla mano ispirata di un autore
che sembra aver assimilato le lezioni di stile della migliore tradizione
cinematografica orientale (da Wong Kar Wai a Tsai Ming-Liang, Wayne Wong,
ecc...).
Voto: 26/30 (MG)
FRUGAL GAME
Hong Kong, 2002
di Derek CHIU

Il gioco cui allude il titolo
consiste in un programma televisivo a cui partecipano famiglie senza-lavoro,
che sotto il controllo costante delle telecamere devono tirare avanti per
una settimana cercando di spendere il meno possibile dei 400 dollari che
ricevono in gestione. Al termine dei sette giorni risulta vincitrice la
famiglia che ha conservato più soldi. Sotto il tono di una commedia dal
ritmo serrato traspare la pretesa, più o meno riuscita, di risvolti
sociologici: il tema della disoccupazione, particolarmente sentito ad Hong
Kong di questi tempi, viene non soltanto tirato in ballo come espediente
narrativo, ma anche in qualche modo approfondito attraverso alcune chiavi di
lettura disseminate qua e là nell’evoluzione dei fatti, che rimandano al
disagio dei disoccupati, alla stolida violenza dei pregiudizi sociali e alla
capacità di reazione di un popolo in difficoltà. Tuttavia, nè le trovate
umoristice, nè la costruzione del racconto, nè il sottotesto “impegnato”
impreziosiscono significativamente questa pellicola.
Voto: 23/30 (MG)
VENERDI' 25 aprile
SUMMER BREEZE OF LOVE
Hong Kong, 2002
di Joe MA
Schermaglie amorose tra giovani e meno giovani in una Hong Kong
apparentemente senza problemi seri e in cui tutti sembrano schiavi del
cellulare. Molte facce note e pulitine del cinema hongkongese sembrano
divertirsi in questa commediola facile e insignificante girato dal regista
del film vincitore del premio del pubblico nella precedente edizione del FEF
(con la commedia LOVE UNDERCOVER). La formula di queste inconsistenti e
interminabili pochade degli equivoci che ammiccano al cinema demenziale e
adolescenziale hollywoodiano puzzava di marcio già lo scorso anno. Il look
curato della confezione e la simpatia ostentata degli interpreti rende il
tutto ancora più fastidioso.
Voto: 14/30 (LS)
SEXY LINE
Giappone, 1961
di ISHII Teruo
Un giovane manager si imbatte in una borseggiatrice che gli sfila il
portafogli e lo mette nei guai con la polizia. Chiarita la sua situazione,
si trova invischiato in una faccenda che coinvolge il suo capo, la sua
ragazza e un club che gestisce un giro di ragazze squillo. Quando la sua
ragazza viene ritrovata morta e l'accusa ricade su di lui, la faccenda si fa
terribilmente seria. Per fortuna che c'è l'abile e affascinante
borseggiatrice nei paraggi. B-movie in bianco e nero girato prevalentemente
in esterni, tra prostitute d'alto borgo e gangster, dichiaratamente ispirato
ai modelli hollywoodiani del noir (ma per le scene girate per le strade di
Tokyo con la camera a mano qualche critico ha tirato in ballo pure la
Nouvelle Vague). Niente di trascendentale, ma interessante come spaccato di
vita metropolitana della capitale giapponese nei lontanissimi anni sessanta.
Voto: 17/30 (LS)
THE WAY HOME
Korea, 2002
di LEE Jeong-hyang
Poiché sua madre sta passando un brutto periodo in coincidenza con la
separazione dal marito, un ragazzino di Seul dovrà trascorrere qualche
settimana nella casa della nonna muta e vecchia in uno sperduto paesino di
campagna. Come farà a sopravvivere il giovanotto abituato a guardare la TV e
a giocare con i videogame in un ambiente pre-tecnologico in cui non si
trovano le batterie e in cui bisogna fare attenzione alle mucche che
attraversano la strada? Una storia semplice che si concentra su pochissimi
personaggi e situazioni e ha nell'essenzialità il suo punto di forza. Un po'
programmatico e prevedibile come racconto di formazione in cui il bambino di
città viziato, dopo aver fatto l'antipatica peste per circa tre quarti di
film, impara a riconoscere l'umanità e la dignità delle persone che vivono
in un ambiente così distante dal suo. Il regista insiste sul tema della
difficile comunicazione tra le parti come vero scoglio da superare per poter
costruire una comprensione reciproca; e da questo punto di vista è
emblematica la scena in cui il bambino riesce a capire il significato del
gesto della mano che la nonna gli rivolge in continuazione in risposta alle
sue lamentele. Peccato per la melensa retorica del finale.
Voto: 24/30 (LS)
JAIL BREAKERS
Korea, 2002 di KIM Sang-jin
Le avventure di due evasi che
appena usciti dalla prigione scoprono che qualche giorno dopo sarebbero
stati graziati. Per i due (uno che per evadere ha scavato sei anni con un
cucchiaio e l'altro furioso perché la ragazza che ama ha deciso di sposare
un poliziotto e di non aspettarlo più) inizia una corsa contro il tempo per
ritornare dentro la prigione e non vedersi annullare il beneficio della
grazia. Ma rientrare non sarà affatto impresa facile per i due, inseguiti
dalla polizia e costretti a far fronte ad una rivolta all'interno del
carcere scoppiata proprio quando si stava svolgendo la visita di un pezzo
grosso della politica. Una commedia a incastri ben confezionata che pare sia
stata già prenotata dagli americani per farci un remake. Se fosse durato una
mezz'oretta in meno e i personaggi fossero stati meno esagitati (ma perché
urlano in continuazione in queste commedie coreane?) sarebbe stato meglio.
Voto: 20/30 (LS)
SABATO 26 aprile
GRAVEYARD OF HONOUR
Giappone, 2002
di MIIKE Takashi
Il nuovo film del regista culto di ICHI THE KILLER. Si narra dell'ascesa
fulminante e della discesa agli inferi di Ishimatsu Rikuo, che dopo aver
salvato la vita di un boss quando era cameriere, viene affiliato nella gang
yakuza di cui diventa uno dei più spietati killer. In prigione per alcuni
anni per via di un omicidio, Ishimatsu Rikuo conosce Imamura, un pezzo
grosso di un'altra banda con cui si instaura un forte legame di amicizia. Di
nuovo in libertà, riprende la sua attività di killer ma l'instabilità
psichica e le tendenze autodistruttive che hanno sempre caratterizzato la
sua personalità questa volta lo metteranno in guai seri. Dopo aver quasi
ucciso il suo capo per una questione di soldi e incomprensioni, Ishimatsu è
costretto a fuggire e a nascondersi in un tugurio per qualche tempo.
Catturato di nuovo dalla polizia, Ishimatsu riesce ad evadere subito,
intenzionato ad eliminare colui che ritiene l'abbia tradito, il suo "amico"
Imamura. Ma ormai ogni suo gesto sembra essere il frutto di una follia
incontrollabile. Chi conosce il regista, non si aspetti lo splatter estremo.
La violenza c'è, ma si tratta di flash brevissimi e improvvisi in cui
esplode inarrestabile e poi tutto apparentemente torna alla "normalità".
Siamo proprio nel "cimitero dell'onore" in questo film lento e crepuscolare
in cui si rappresenta la disgregazione di un mondo che sembra non avere più
codici morali a cui aggrapparsi per trovare un residuo di senso. Su tutto
aleggia un percezione di follia senza possibilità di fuga, come la storia
che il protagonista vive con Chiedo, disposta a morire passivamente per mano
del suo amante. Un film desolante e disperato.
Voto: 28/30 (LS)
INFERNAL AFFAIRS Hong Kong,
2002
di Andrew LAU & Alan MAK

Uno dei film più attesi della manifestazione udinese. Ming fa il poliziotto
ma in realtà è un infiltrato per conto di un boss che traffica in
stupefacenti. Grazie alle sue informazioni il boss è sempre riuscito a farla
franca. Tra i gangster del boss c'è però Yan, un infiltrato della polizia
(fa l'infiltrato da dieci anni ormai, quasi non ricorda più chi è realmente)
che cerca di incastrare il boss e di capire chi, nella polizia, fa il gioco
sporco. Tra i due infiltrati, da parti opposte, ha inizio una partita a
scacchi su chi riuscirà a smascherare per primo il suo avversario. Un
poliziesco dalla fotografia luccicante che tenta di ritrovare i fasti di un
genere che in passato ha dato lustro alla cinematografia honkonghese, oggi
decisamente in crisi. Il meccanismo stenta a decollare nella parte iniziale,
ma poi si solleva anche grazie ad un gruppo di solidi caratteristi e
nonostante qualche stonatina retorica. Il film punta più sulla suspense che
sull'azione (le sparatorie e gli inseguimenti sono contati) giocando
sull'ambiguità del ruolo dell'infiltrato e sugli incerti confini che
separano il bene dal male.
Voto: 25/30 (LS)
Domenica 27 aprile
GONE IS THE ONE WHO HELD ME DEAREST IN THE WORLD
China, 2002
di Ma Xiaoying
Già nelle prime sequenze la pellicola di Ma Xiaoying sfodera le cartucce più
potenti della sua scelta strategica: una donna che urla disperazione sopra
il corpo senza vita della anziana madre accasciata sul pavimento del
salotto, urla amplificate dagli echi di un ralenti che dilata gli spazi del
dolore senza pudore e moderazione… Con un incipit che sfiora livelli
apocalittici di pathos il film ci introduce in un viaggio indesiderato
nell’esperienza della malattia e della morte di una madre e del drammatico
rapporto con la figlia che l’accompagna in questo calvario… perdita di una
madre ovvero di “chi mi aveva come la cosa più cara al mondo”. Un
macro-flashback ripercorre le tappe della passione scandagliando con rigore
scientifico tutte le sfumature di un rapporto madre-figlia di fronte alla
tragedia della malattia, che attraversa fasi di speranza, di cadute e di
abbandoni, di carezze e di rimpianti… overdosi di melodramma che minacciano
di sensi di colpa chi non sentisse salire su il groppo alla gola… E’
difficile criticare un cinema che con cura meticolosa e buone intenzioni
tratta di vicende così drammatiche e così plausibilmente vicine alla vita di
ciascuno, ma forse, proprio per questo, sentiamo di muoverci nei territori
di un cinema limitato alla mera rappresentazione, che a null’altro allude se
non a ciò che viene sfacciatamente spiattellato sullo schermo; che non si
presta a sperimentazioni linguistiche che scavino nella emotività di chi
guarda né propone la meditazione di idee che smuovono le valenze più
recondite dello spirito. Nonostante i goffi tentativi dell’autore di
assumere a tratti toni poetici per evocare l’intensità del sentimento che
lega madre e figlia, il lirismo barocco del Sokurov di MADRE E FIGLIO è
lontano anni luce.
Benchè sorretto da una recitazione magistrale il film decade nella retorica
iperrealista e colpisce lo spettatore con la violenza di una sciabolata nel
basso ventre che si fa sentire, ma non ha di certo effetti salutari.
Voto: 24/30 (MG)
YESTERDAY
Korea, 2002
di Jeong Yun-su
presentato al festival come uno dei titoli che ha sbancato ai botteghini
coreani della passata stagione, YESTERDAY è un delirio fanta-poiziesco fatto
di inseguimenti, irruzioni di corpi speciali, esplosioni e sparatorie di cui
si stenta, ahimè, a comprendere l’obiettivo… la trama risulta
drammaticamente contorta e criptica finchè non si scopre ridursi ad una
banale e poco convincente caccia ad un serial killer prodotto da imprudenti
esperimenti di clonazione. tuttavia, nonostante il senso di umiliazione
dello spettatore per l’incapacità di cogliere il disegno del plot
[umiliazione per altro fugata al termine della proiezione quando una rapido
e sommario sondaggio tra i compagni di sala la rivela come una condizione
comune: mal comune mezzo gaudio!] le due ore di pellicola scorrono
agevolmente se non altro per il virtuosismo con cui sono state concepite le
scenografie cupe, nebulose e sontuosamente dilatate in uno stile che ricorda
BLADE RUNNER [si perdoni l’azzardata citazione], l’indiscutibile mestiere
con cui sono state costruite le numerose scene d’azione disseminate senza
economia nell’intricato sviluppo dei fatti e l’audacia con cui sono state
montate sequenze iperbolicamente serrate. Del resto in opere del genere la
trama e gli appiccicaticci risvolti polemici sulle paure epocali generate
dall’ambizione della scienza sono quanto di più dispensabile e gli autori
concentrino pure gli sforzi nell’esibilizione di una creatività violenta e
visionaria. Da questo punto di vista i cinque milioni di dollari spesi per
realizzare il film risultano tuttosommato ben sfruttati.
Voto: 25/30 (MG)
TURN
Japan, 2000
di Hirayama Hideyuki
Se uscendo di casa in un mattino qualunque, per affrontare la routinaria
giornata in una megalopoli come Tokyo trovassimo i luoghi della nostra
quotidianità frenetica totalmente privi di presenze umane, forse
rimpiangeremmo il caos e l’alienazione… è questo che sembra suggerirci la
vicenda di Maki, eroina del film TURN, che dopo un incidente stradale si
risveglia in una dimensione bizzarra nella quale il suo mondo perfettamente
inalterato negli aspetti materiali è abitato da nessun’altro che lei… una
prigione di isolamento assoluto che la guida giorno dopo giorno fin quasi
alla pazzia. L’unico contatto umano che le arriva come un miracolo dal cielo
è la comunicazione telefonica con un ragazzo che ha acquistato una sua
mezzatinta da un gallerista. Una storia basata su una idea originale e
condotta con tono garbato e coinvolgente, disseminata di sprazzi di
tenerezza nel delicato rapporto tra Maki e il suo unico interlocutore umano,
nella placidità di ambienti e azioni in cui la gravità della situazione si
mantiene velata in un tono fiabesco e leggiadro senza perdere il suo carico
di intensità… più tardi si scopre che la Maki reale giace in coma in un
letto d’ospedale come conseguenza dell’incidente e il risveglio dal coma
viene risolto con una sequenza al ralenti priva di inutili dialoghi e
gestita con una sensibilità rara: Maki apre gli occhi e rivolge uno sguardo
trasognato alla madre e poi al suo compagno di avventura che sono lì al suo
fianco. Pochi personaggi e poche chiacchiere per un film che rapisce e sa
anche far riflettere.
Voto: 26/30 (MG)
BETTER THAN SEX ::: NEW!! :::
Taiwan, 2002
di SU Chao-pin
Commedia demenziale ambientata a Taiwan dove il destino di un ragazzo
"superdotato" che non ha mai conosciuto l'esperienza dell'amore si incrocia
con quello di un numero imprecisato di personaggi strampalati tra cui una
giovane punk innamorata di lui in cerca dei soldi per poter andare al
concerto dei Tomato Brothers e una pornodiva a riposo il cui marito
poliziotto da la caccia ad un gruppo motociclisti armati di una letale daga
magica. E ci si mette di mezzo pure una troupe televisiva in cerca di
teppistelli da redimere. Una serie di sketch più o meno divertenti tenuti
insieme con il filo di ferro da cui si evince che il sesso è meglio quando è
accompagnato dall'amore. Una specie di "pattumiera" in cui si sono divertiti
a buttare dentro tutte le trovate che venivano in mente; riesce ad essere
convincente solo quando tira frecciate al sentimentalismo lacrimevole
imperante in certo cinema e tv, ma anche qui finisce con il tirare troppo la
corda.
Voto: 20/30 (LS)
A PERFECT MATCH
Korea, 2002
di MO Ji-eun
Hyo-jin lavora in una grande agenzia matrimoniale e si occupa di organizzare
gli incontri dei suoi clienti single mentre la sua vita sentimentale è
andata a rotoli dopo la rottura del rapporto con un giovane che vive
all'estero. Ma per fortuna che c'è un cliente affascinante che proprio non
gli riesce di far accoppiare.Commedia romantica leggera leggera che ha il
pregio di essere meno sbracata e infantile di quelle honkoghesi.
Voto: 20/30 (LS)
Martedì 29 aprile
THE PHONE
Korea, 2002
di AHN Byung-ki

Per via di alcune minacce ricevute dopo aver scritto un pezzo su una banda
di pedofili, una giovane giornalista cambia numero di cellulare e si
trasferisce nella grande e villa disabitata di proprietà di un suo amico.
Una misteriosa chiamata sul cellulare che sembra provenire direttamente
dall'inferno da inizio ad una serie di oscuri avvenimenti soprannaturali che
coinvolgono la giovane figlia dei proprietari della villa e il mistero di
sangue che si nasconde tra le sue pareti. Dopo THE RING siamo condannati a
sorbirci orde di spiriti che ci tormentano al cellulare e occhi spiritati di
ragazzini invasati. Qui, oltre al film di Nakata, hanno rubato pezzi dai più
svariati classici del genere e li hanno assemblati insieme un po' come
accadeva per i cadaveri di TELL ME SOMETHING, thriller passato qualche anno
fa al FEF. Purtroppo anche qui manca la testa.
Voto: 18/30 (LS)
NEW BLOOD
Hong Kong, 2002
di Soi CHEANG

Un poliziotto durante il turno serale trova in un'auto una giovane coppia in
fin di vita dopo aver tentato il suicidio. In ospedale, grazie alla
donazione del sangue del poliziotto e di altre due persone tra cui una
ragazza (che poi si scoprirà essere divenuta schizofrenica in seguito ad un
profondo trauma subito nell'infanzia) e un giovane architetto, solo il
maschio riesce a salvarsi. Quando la ragazza morta decide ti tornare
dall'aldilà per vendicarsi di chi ha osato dividerla dal suo amore, per i
tre saranno dolori. Dal regista di HORROR HOTLINE. BIG HEAD MONSTER,
presentato nella precedente edizione del FEF, un horror di qualche ambizione
stilistica. Man mano che procede, la narrazione si destruttura come se
osservassimo la vicenda attraverso il filtro della malattia mentale della
ragazza donatrice, dove i confini tra realtà, illusione o incubo si fanno
sempre più sfilacciati. Grande sfoggio di bravura registica ma il risultato
è troppo pensato e freddo.
Voto: 23/30 (LS)
Mercoledì 30 aprile
NO BLOOD NO TEARS
Korea, 2002
di RYU Seung-wan
Una taxista con problemi di soldi e la donna dello scagnozzo manesco di un
boss che traffica nelle scommesse clandestine si coalizzano per e scappare
con il malloppo delle scommesse. Nella bagarre finale che ne scaturisce in
cui tutti cercano di fregare tutti tra doppi e tripli giochi, tre ragazzetti
sfigati finiranno col godersi il malloppo. Ma c'è anche una sorpresa finale.
Violenza, inseguimenti, botte da orbi, un pizzico di ironia e tante
parolacce tra i bassifondi e la malavita di una metropoli coreana,
all'insegna di un cinema votato all'eccesso e all'accumulo quantitativo. Il
paradosso di molto cinema orientale: alta competenza tecnica e produttiva
(le scazzottate e gli inseguimenti sono girati con pignoleria quasi
maniacale) a sostegno di storie per film di serie C, come se a suo tempo
Hollywood avesse messo i suoi capitali in mano ad un Umberto Lenzi o ad
Antonio Margheriti.
Voto: 17/30 (LS)
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