
Lo sguardo di Ki-Duk Kim non si ammorbidisce col tempo.
La violenza de L'isola e
l'amarezza del bellissimo Bad Guy
sembrano cristallizzarsi in un nuovo capolavoro, altrettanto duro e
impietoso, Haensun/The coast guard.
Ambientato in un piccolo villaggio al confine con la Corea del Nord,
Haensun svolge, come i
precedenti, il tema della follia e del male, di una impossibilità
comunicativa che diventa, per la prima volta, metafora di una dolorosa
situazione politica, la divisione delle due Coree. Un giovane militare,
fanatico del dovere, uccide, per un tragico caso, un uomo. Incatenato al
peso della responsabilità umana, il soldato si trascina di errore in errore
fino ad un finale che non lascia nessuna apertura, nemmeno più ipotetica,
verso il lieto fine. Non c'è amore che redima e non c'è vita futura nel
nuovo Ki-Duk, soltanto rabbia, delusione, e la consapevolezza di una morte
in vita che diventa, film dopo film, sempre più ineluttabile.
21.11.2003
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A ritmi poco meno che fassbinderiani
(praticamente il solo Miike Takashi dirige con più frequenza), Kim
continua a costruire uno sguardo sempre più astratto sulla violenza.
Il suo cinema, con il capolavoro
Bad Guy in testa, vive
di un’atmosfera rarefatta, impraticabile, di stasi trasognata
squarciata da lampi violenti e misteriosi. Anche quest’ultimo
Coast Guard (è il
titolo internazionale), pure accusato da molti di manieristica
ripetizione del fulminante stile dei film precedenti dell’autore. Lo
spunto viene da una famigerata pratica delle autorità militari coreane
che sopravvive ancora oggi in modo lampantemente anacronistico:
piazzare soldati in zone costiere teoricamente “calde” con l’ordine di
sparare a vista a chi si avvicina. Così, giusto per sicurezza. Un
soldato particolarmente “carico” uccide per sbaglio un giovane che si
era appartato con una ragazza, la quale impazzisce traumatizzata. Da
qui un susseguirsi felicemente caotico di vendetta incrociate, follie,
disperazioni, stupri collettivi, atti inconsulti, senza risoluzione
finale. Anzi, alla fine il soldato pazzoide spara sulla folla e
accoltella gente in piena Seul. Kim in tutto questo ha il dono sublime
di non farsi prendere la mano da quello che filma. Lo spaesamento è
soprattutto suo, che con suprema innocenza non sembra sapere come
distribuire peso e importanza a violenze, squarci lirici (spesso
affidati al paesaggio), tensioni appena percettibili, brevi momenti di
sollievo. Ne esce un accatastarsi inerme e frammentario di lampi
gestuali colti nella loro flagranza e lasciati lì a mezz’aria senza
concludersi in una compiuta “azione”. Lo sguardo così si smarrisce,
tant’è che il troppo zelante soldato protagonista impazzito da metà
pellicola in poi scompare alla vista nostra e dei compagni. Si perde,
lo sguardo, in un nebuloso grumo tensivo che tronca la tragedia sul
nascere (l’accidentale morte del ragazzo) e, al contrario, carica di
tesa “elettricità” momenti apparentemente anodini (come le scene in
cui i commilitoni giocano a pallone), facendo nascere emozione pura e
semplice come oggi si vede davvero di rado.
21.11.2003
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