
Dopo un paio d'anni di distribuzione
informale nei circuiti dei cineclub italiani, Torino Film Festival
presenta, all'interno di un omaggio a Fukusaku Kinji, uno dei film di
maggiore successo delle ultime stagioni cinematografiche giapponesi,
Battle Royale. Uscito nel 2000,
Battle Royale ha
scatenato, in patria e all'estero, una bagarre pressoché inesauribile
di polemiche, apprezzamenti, tentativi di analisi socio-politica e
socio-culturale, schematizzazioni, interpretazioni, rielaborazioni,
metaforizzazioni e quanto ancora l'essere umano abbia incluso - con
maggiore o minore consapevolezza - nella categoria della critica.
Quaranta studenti su un'isola deserta, puniti per aver alterato, nella
struttura gerarchica nipponica, il rigido rapporto di subalternità:
l'alterco si punisce col sangue.
Il Battle Royale Act, autentico Big Brother dove esce chi muore, è un
gioco, ne porta le regole che definiscono gli spazi e i tempi, il
numero di partecipanti e il premio, oltre all'immancabile aim of the
game: l'importante è vincere.

La violenza, ordinario capro espiatorio
mediatico, non è peggiore di quella che percorre gli schermi
televisivi ogni giorno, gli echi dello scandalo superano il reale
impatto visivo, ragazzi che cadono nella boscaglia, amici che
tradiscono amici, piccole vendette scolastiche arcaicamente pagate col
sangue. Il plusvalore dell'operazione BR, marchio registrato e fonte
di un numero imprecisato di gadget e merchandising sparso, è
l'ideologia di Fukusaku, il rovesciamento logico (ma, dentro identiche
dinamiche medianiche, illogico e quindi fascista) delle parti e dello
stato delle cose: la vita è una giungla, e l'uomo un animale.
Chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori. La logica, appunto,
dell'appartenenza: il taking sides, essere come oppure diverso,
dove il primo termine esprime un più ed il secondo un meno, essere
nella televisione o sua vittima.
Un'intuizione brillante di un grande vecchio prematuramente scomparso,
che consegna, con Battle
Royale, un (sinistro) ritratto di una realtà tragicamente
possibile.
14.11.2003
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Richiede uno sforzo di immaginazione non
indifferente attribuire a Fukusaku Kinji (e al figlio Kenta, che ha
terminato l'opera del padre scomparso durante le riprese) la paternità
del videogame Battle Royale
II: Requiem. Difficile immaginare i bei volti truccati delle
giovani pop stars (meno giovani e senza dubbio svuotati
dell'ingenuità da prima apparizione del primo BR) compresi nel ruolo
di terroristi (?) votati alla salvezza della purezza dei valori contro
un imprecisato mondo di "grandi". Torri gemelle, Afghanistan, banditi,
Mad Max e divise da grande fratello stancherebbero, da soli, anche il
buon samaritano, figuriamoci poi la guerriglia da soft-air, con tanto
di AK47, amori, bambini da salvare e infinite battle games.

Il buonsenso, dove un filo logico con
tanta buona volontà sembra difficile da tirar fuori, si può cercare
ovunque: trasformare l'Afghanistan nel sogno futuro post-nucleare (ah,
Ken di Hokuto) o la
Battle Royale nella anti-sfida definitiva al mondo dei cattivi supera
ogni volontà d'immaginazione. Con perle da manuale, come lo
straordinario incipit, il crollo dei cinque grattacieli di
Tokyo ed il Dies Irae, l'accusa chiara e un po' naive
contro "la nazione che da cinquant'anni schiaccia chiunque abbia
un'opinione diversa", la nostalgia degli attacchi alieni, oh fratello
Zambot 3 dove sei?
Il resto è requiem, per un grande autore scomparso di fronte al quale
dimenticheremo, come una trascurabile macchia in una carriera
ammirevole, una battaglia che di royale ha soltanto il titolo.
15.11.2003
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