
Tra i lungometraggi presentati quest’anno al Festival di Torino sembra
esserci un sottile filo rosso che lega i film in concorso: quello delle
terre di confine. Che siano le terre di mezzo del Sud-Italia, piuttosto che
i paesaggi mentali del giapponese
Hako, o le storie di formazione (confine tra età diverse) dei film
Sudamericani fino alla provincia Coreana, rurale e desolata, teatro tragico
di crimini ed indagini. Non sfugge a questo ideale tema di fondo del
concorso Struggle; opera
prima di Ruth Mader, giovane cineasta austriaca già al Festival di Cannes
2001 con il corto Null Defizit.
Il confine questa volta è quello orientale dell’Unione Europea; linea labile
ed indefinita, non solo per il futuro allargamento ad Est della UE nella
logica contemporanea dell’economia globale. Due blocchi (per quanto se ne
voglia dire), due sistemi socio-economici che si compenetrano continuamente
fra di loro; vite di lavoratori semiclandestini o clandestini, schiacciati
tra regole ferree, spiegate come in una pessima rappresentazione da
avanspettacolo dal “caporale” di turno. Che siano campi di fragole,
fabbriche, uffici, squallidi sottoscala, strade o macchine la lotta per la
sopravvivenza fisica e mentale rimane uguale sia ad Est che ad Ovest. Due
storie che si sviluppano verso e dalla metà esatta della pellicola (un altro
confine), per poi incrociarsi sul finale. La lavoratrice dell’Est e
l’agente immobiliare viennese uniranno le loro solitudini attraverso il
sesso (anche se deviato): unico possibile incontro-scontro tra corpi ed
identità.
Lo stile registico, secco e asciutto, può ricordare Canicola o il primo
Haneke; ancora Austria, ancora confini.
05.12.2003
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