
Si poteva tranquillamente immaginare che
in questa ventunesima edizione del Torino Film Festival ci sarebbe
stato almeno un omaggio a João César Monteiro. Così è stato, a
ricordare uno dei grandi cineasti del secolo appena trascorso; ma non
solo, Monteiro è stato un vero e proprio uomo di cultura: poeta,
scrittore, giornalista, critico cinematografico e appunto regista. Un
personaggio davvero unico per l’Europa e per il mondo, sfuggente ad
ogni classificazione per il suo eclettismo e per la libertà
espressiva, presente nei suoi scritti e nel suo cinema. Sicuramente ha
lasciato un profondo segno nell’immaginario dello stesso Portogallo;
soprattutto con il suo alter ego cinematografico João de Deus, un suo
doppio che si muoveva, nei suoi film, con furore iconoclasta; tra un
forte senso del sacro e una ricerca surreale sempre in bilico tra il
bello e il brutto, la tragedia ed il grottesco.
Già nel suo primo cortometraggio
Sophia de Mello Breyner
Andresen (1969), documentario sulla poetessa Sophia de Mello
Andresen (oltre che un omaggio a Dreyer), Monteiro ci dice come sia
impossibile filmare la poesia. L’indagare la verità tramite la vita di
una persona non è la ricerca dello Spettacolo, ma il mettersi in
ascolto di voci e ricordi. Gli altri lavori presentati a Torino
Quem espera por sapatos de
defunto morre descalço (1970),
Fragmentos de un filme esmola
– A sagrada família (1972) e
Que farei eu com esta espada?
(1975) sono dei veri e propri manifesti estetici e poetici del grande
cineasta portoghese. Pellicole disinvolte che nascondono un profondo
lirismo e un preciso progetto estetico, dalle quali emerge una sincera
rabbia nel raccontare, attraverso una depurazione tematica, la
necessità di una lotta di classe ma anche una lotta contro i vecchi e
stantii fantasmi dell’immaginario portoghese. Ma il vero testamento
dell’artista, Monteiro sapeva di essere malato mentre lo girava, è
Vai e vem (2003);
progetto nato dopo aver abbandonato l’idea di adattare La filosofia
nel boudoir del Marchese De Sade. Ma anche dalla volontà di
lasciare libero per sempre il personaggio di João de Deus, suo alter
ego fino a Le nozze di Dio,
e che, comunque, ritorna nel film attraverso il racconto di una delle
cameriere del protagonista João Vu-Vu. Monteiro, per l’ultima volta,
ci descrive il suo universo grottesco e poetico in cui gli unici suoi
amici sono i libri ed i dischi; la disillusione, provocata dalla
ricerca di un riscatto sociale da parte del figlio ex-detenuto, lo
porterà ad un’esistenza con forti inclinazioni al crimine. L’apparente
oscenità dei suoi film si dissolve, anche questa volta, in una
rigorosa messa in scena che sottintende il suo peculiare programma
estetico. Vu-Vu alle sue spalle ha sempre delle cornici simili a degli
schermi cinematografici, che sia il lunotto posteriore di un autobus
piuttosto che una finestra o gli scaffali di una libreria; sembra
dirci che il cinema può ancora raccontarci qualcosa, ma che
inesorabilmente rimandi sempre a qualcosa d’altro e di ulteriore. Le
lunghe riflessioni, che nella sceneggiatura iniziale, dovevano essere
dedicate a Nietzsche rimangono comunque nello spirito del film: il
buffone-folletto Monteiro rimarrà a danzare sulla corda; tutti gli
altri, gli acrobati, sono destinati a precipitare.
05.12.2003 |