OMAGGIO A João César Monteiro

di Alberto CASINI


Si poteva tranquillamente immaginare che in questa ventunesima edizione del Torino Film Festival ci sarebbe stato almeno un omaggio a João César Monteiro. Così è stato, a ricordare uno dei grandi cineasti del secolo appena trascorso; ma non solo, Monteiro è stato un vero e proprio uomo di cultura: poeta, scrittore, giornalista, critico cinematografico e appunto regista. Un personaggio davvero unico per l’Europa e per il mondo, sfuggente ad ogni classificazione per il suo eclettismo e per la libertà espressiva, presente nei suoi scritti e nel suo cinema. Sicuramente ha lasciato un profondo segno nell’immaginario dello stesso Portogallo; soprattutto con il suo alter ego cinematografico João de Deus, un suo doppio che si muoveva, nei suoi film, con furore iconoclasta; tra un forte senso del sacro e una ricerca surreale sempre in bilico tra il bello e il brutto, la tragedia ed il grottesco.
Già nel suo primo cortometraggio Sophia de Mello Breyner Andresen (1969), documentario sulla poetessa Sophia de Mello Andresen (oltre che un omaggio a Dreyer), Monteiro ci dice come sia impossibile filmare la poesia. L’indagare la verità tramite la vita di una persona non è la ricerca dello Spettacolo, ma il mettersi in ascolto di voci e ricordi. Gli altri lavori presentati a Torino Quem espera por sapatos de defunto morre descalço (1970), Fragmentos de un filme esmola – A sagrada família (1972) e Que farei eu com esta espada? (1975) sono dei veri e propri manifesti estetici e poetici del grande cineasta portoghese. Pellicole disinvolte che nascondono un profondo lirismo e un preciso progetto estetico, dalle quali emerge una sincera rabbia nel raccontare, attraverso una depurazione tematica, la necessità di una lotta di classe ma anche una lotta contro i vecchi e stantii fantasmi dell’immaginario portoghese. Ma il vero testamento dell’artista, Monteiro sapeva di essere malato mentre lo girava, è Vai e vem (2003); progetto nato dopo aver abbandonato l’idea di adattare La filosofia nel boudoir del Marchese De Sade. Ma anche dalla volontà di lasciare libero per sempre il personaggio di João de Deus, suo alter ego fino a Le nozze di Dio, e che, comunque, ritorna nel film attraverso il racconto di una delle cameriere del protagonista João Vu-Vu. Monteiro, per l’ultima volta, ci descrive il suo universo grottesco e poetico in cui gli unici suoi amici sono i libri ed i dischi; la disillusione, provocata dalla ricerca di un riscatto sociale da parte del figlio ex-detenuto, lo porterà ad un’esistenza con forti inclinazioni al crimine. L’apparente oscenità dei suoi film si dissolve, anche questa volta, in una rigorosa messa in scena che sottintende il suo peculiare programma estetico. Vu-Vu alle sue spalle ha sempre delle cornici simili a degli schermi cinematografici, che sia il lunotto posteriore di un autobus piuttosto che una finestra o gli scaffali di una libreria; sembra dirci che il cinema può ancora raccontarci qualcosa, ma che inesorabilmente rimandi sempre a qualcosa d’altro e di ulteriore. Le lunghe riflessioni, che nella sceneggiatura iniziale, dovevano essere dedicate a Nietzsche rimangono comunque nello spirito del film: il buffone-folletto Monteiro rimarrà a danzare sulla corda; tutti gli altri, gli acrobati, sono destinati a precipitare.
 

05.12.2003