
Per il secondo anno consecutivo la sede
del Torino Film Festival è stata quella del multiplex Pathé,
all’interno del centro commerciale ricavato dall’ex stabilimento Fiat
del Lingotto; vero non-luogo, passaggio ideale dall’economia Fordista
a quella dell’immateriale. Se da un lato l’enorme struttura in vetro e
cemento rischia di divenire fonte di alienazione (o di allucinazioni)
per le frotte di festivalieri, cinefili, giornalisti o semplicemente
curiosi di passaggio; dall’altro il poter usufruire di ben undici
sale, in uno spazio relativamente raccolto, rende agevole il seguire
le diverse sezioni del festival: proiezioni, pranzo (veloce),
proiezioni, cena (velocissima) e ancora proiezioni. Ma anche la
culla-trappola del Lingotto può essere colpita da un fulmine a ciel
sereno: la notizia, apparsa sulle pagine culturali locali di vari
quotidiani, che il regista David Cronenberg fosse presente a
Torino per una serie di incontri. La mattina seguente, più per
curiosità che per l’effettiva speranza di incontrare il cineasta
canadese, mi reco con largo anticipo in una piccola aula del DAMS
dell’Università di Torino; già stracolma di studenti ed appassionati,
veniamo immediatamente spostati nell’aula magna: luogo più consono per
un simposio certamente degno di importanza. L’incontro inizia con
delle brevi presentazioni da parte di alcuni rappresentanti dell’
associazione culturale VOLuminA promotrice dell’iniziativa, di Giulia
Carluccio docente di Storia del cinema Nord-Americano, del produttore
Anthony Cianciotta, di Donato Santeramo della Queen’s University di
Kingston e di Sergio Toffetti della Scuola nazionale di Cinema.
Poi accade quello a cui, forse, nessuno credeva; David Cronenberg
appare dal nulla, accompagnato da un forte e lungo applauso, come non
se ne sono sentiti nemmeno durante i giorni del festival.
Immediatamente si ha la sensazione, soprattutto per chi conosce
l’estrema riservatezza del regista, che l’incontro non sarà lungo e
che difficilmente gli si potranno rivolgere molte domande. Cronenberg,
d’altronde, è conosciuto anche per il suo essere schivo e per la sua
riservatezza nel trattare e nel dare spiegazioni dei suoi film;
considerati come prodotti di una visione estremamente personale.
Comunque disponibile, ma anche capace di risposte sagaci e taglienti
come dimostra una sua battuta sulla nebbia cittadina, alla domanda,
quanto mai vaga sulla possibilità di girare film a Torino,
dell’assessore alle politiche culturali della Regione Piemonte. Il
cineasta canadese, dotato di una profonda cultura, vuole
immediatamente essere chiaro su come per lui il cinema sia una faccia
particolare dell’Arte in generale, un’opera mai finita completamente e
in continua interazione con le altri arti. Non a caso afferma che con
l’adattamento del
lA Zona
Morta, romanzo di Stephen King, abbia preferito essere
fedele alla propria visione del mondo piuttosto che al testo di
partenza; approccio visibile anche ne
Il Pasto
nudO di William Burroughs e in
Crash
di James Ballard. Se tradurre è tradire, in un certo senso
anche nel passaggio, ci vuole far capire Cronenberg, da un media ad un
altro bisogna, per così dire, essere infedeli all’opera che si vuole
adattare: la visione mutante applicata all’opera d’arte. Come la
fusione finale tra il protagonista di
The fly e la capsula
teletrasportatrice, non ci devono essere mai compartimenti stagni tra
le varie arti; il cinema, ma anche la televisione, sono dei veri e
propri cannibali di poetiche e immaginari provenienti da altre
attività artistiche dell’uomo. Ma anche il cinema si è sempre
trasformato, dalla sua origine, in qualcosa diverso da sé; diviene
innanzitutto una merce, e le possibilità odierne della compressione
digitale (satellite e dvd) aprono nuove ed interessanti strade alla
sua diffusione, su scala planetaria.
Cronenberg aggiunge che non parte mai da posizioni teoriche nella
realizzazione dei suoi film, il suo cinema è molto fisico (per questo
si diverte molto anche a recitare) e le sceneggiature che scrive hanno
uno sviluppo che procede attraverso il caos, piuttosto che lungo un
andamento lineare. Per questo non si è mai interessato eccessivamente
all’uso della computer grafica, dal momento che non riuscirebbe ad
immaginare di poter girare senza vedere tutti gli elementi di una
scena, presenti effettivamente sul set. Una visione umanistica della
tecnologia, per cui è l’uomo che provoca dei mutamenti in essa e mai
viceversa.
Un’ approccio favorito dal lavorare da anni (la ormai famosa “troupe
Cronenberg”) sempre con le stesse persone, a cui sottopone sempre la
sceneggiatura del film prima di iniziare le riprese; una maniera per
distanziarsi dal cinema hollywodiano che utilizza i tecnici “alla
moda”, e che rivela una volontà artistica più di stampo europeo ed
autoriale. Una forma rappresentativa che lo ha portato a scegliere il
cinema di genere horror (anche se con caratteristiche estremamente
personali), proprio per sottintendere come l’arte sia spesso
considerata pericolosa; soprattutto in società che assumono un
carattere di tipo repressivo. Per Cronenberg il rapporto tra le arti,
il cinema in particola modo, e la cultura è piuttosto complesso; ci
deve essere sempre una modalità rappresentativa che si allarghi ai
vari aspetti di una società complessa come quella occidentale. Una
particolare visione estetica, quindi, non si deve solamente occupare
di ciò che è bello (o che è considerato tale), ma anche del brutto e
degli aspetti nascosti (volutamente) da una cultura. Un modo che non
deve essere un semplice liberarsi dei propri fantasmi; ma il portare
avanti un’indagine tra i profondi scambi reciproci tra arte e società.
Cronenberg, anche per tale motivo, sembra sfuggire alla domanda sui
suoi lavori televisivi (numerosi ma praticamente invisibili in Italia,
a parte la pubblicità del 1990 della Nike), affermando che non
gli interessa trattare argomenti di stretta attualità, come avviene
per i prodotti per il piccolo schermo in Canada. Interessante
l’aggiunta di come la televisione sia un posto per produttori
piuttosto che per registi: si ricordi che il protagonista del suo
capolavoro, Videodrome,
è proprio un produttore di una canale satellitare. A Cronenberg sembra
invece interessare da sempre l’elemento documentaristico nei suoi
film, una maniera particolare per rappresentare la realtà. La
definisce come “arte trovata”, una maniera di arricchire i suoi film
con elementi eterogenei, similmente al protagonista di
Spider che gira per la
città a raccogliere pezzi di corda per costruire la sua tela di ragno.
L’incontro si conclude con la cattiva notizia di aver
accantonato definitivamente l’idea di girare il seguito di
Basic Instinct
(progetto a cui avrebbe preso parte attivamente la stessa Sharon
Stone) e della decisione di non girare più nemmeno
Pain Killer (ovvero la
maniera anglosassone di chiamare gli antidolorifici); una sua
sceneggiatura originale vecchia di cinque anni e per cui ha ormai
perso ogni interesse.
05.12.2003 |