A Dirty Shame
di John Waters
(USA 2004, 35mm, 89’, col)

Una moglie sobriamente timorata di Dio (Sylvia, Tracey Ullman) un marito
mediamente bisognoso di soddisfare i suoi bisogni sessuali (Vaughn Stickles,
Chris Isaac), una figlia troppo ostentatamente ninfomane per essere
trasgressiva (Caprile, Selma Blair) a rappresentazione della famiglia media;
un supermercato, un circolo, un pub a definire i confini della provincia
Americana di oggi. Questo il set di partenza da cui l’inconfondibile mood
dissacratorio di Waters, pur ammorbidito rispetto agli esordi underground,
fa partire l’azione. Tutto ha inizio con una botta in testa: Sylvia incontra
Ray-Ray Perkins (Johnny Knoxville), che nel soccorrerla le instilla il
nettare della perduta libido e il meccanismo si innesta. Ha inizio il corso
delle peripezie sessuali di Sylvia, che guidata da una irrefrenabile
‘sex-addictedness’ man mano scopre di non essere l’unica a essere stata
toccata da quella sorta di messia della liberazione sessuale che è Ray-Ray.
Anzi, man mano il ‘virus’ si diffonde, tanto da provocare una opposizione
organizzata in rivendicazione della decenza - ‘decency’- e della normalità.
‘Sex-addicted’ e ‘neuters’ – asessuati - si fronteggiano con il bipolarismo
tipico della politica americana, e nonostante i segnali di contenimento
conditi dal ‘toccasana’ di prozac e religione in ultimo sarà la libido ad
avere la meglio. Al superato cliché dell’amore romantico Waters contrappone
la forza della liberazione sessuale, proponendo una morale che è la presa in
giro di se stessa. Fino a che punto deve arrivare la trasgressione sessuale
per essere innovativa? Commedia parodistica sui ‘sexploitation movies’ e la
rappresentazione del sesso in America ‘Dirty Shame’ vuole tirarne i confini
al limite dell’immaginabile, e secondo lo stile dissacratorio del regista lo
fa toccando il fondo dello sporco e del cattivo gusto. Ma la parodia sul
sesso sembra prestarsi a più livelli di lettura, andando a coinvolgere la
politica, i costumi e le abitudini della società americana contemporanea,
che l’occhio di Waters osserva divertito e forse preoccupato ad un tempo. Ma
lo scandalo lascia il posto al riso, che, se non altro, permette di
guardare.

A DIRTY SHAME è la sublimazione della teoria
Watersiana secondo la quale dall’antagonismo nascono forze creative
incontrollabili e vitali. Da PINK FLAMINGOS in poi, lo scontro, anche
violento, tra energie contrapposte, tra modi di pensare, di vivere, di avere
rapporti sessuali, si trasforma nel momento di germinazione del nuovo. In
questo senso, A DIRTY SHAME è il non-plus ultra Watersiano, perchè le
differenze tra le fazioni in lotta sono, sotto gli strati di zozzerie
assortite, davvero sottili. Storia di una piccola comunità nella quale una
timorata casalinga, in seguito ad un trauma cranico, si fa portatrice di una
rivoluzione iper-sessuale che prevede la liceità di qualsiasi perversione e
la sostanziale accettabilità di tutti i feticismi, A DIRTY SHAME è la prova
che la posizione più scomoda eppure più stimolante ce l’ha chi non si
accattiva il pubblico, chi non propaganda, chi non attribuisce al “nemico”
(ideologico, politico, religioso, sessuale) fattezze da divoratore
d’infanti. Chi, come John Waters, ne ha per tutti.
“Can tolerance go too far?”. Possiamo spingerci troppo in là nell’essere
tolleranti, aperti ad ogni stranezza in nome di un fanatismo relativistico?
Questa è la domanda che sottende al film. Possiamo accettare tutori
dell’ordine vestiti da neonati e commessi di supermercato che si dilettano a
leccare il pavimento di un’autorimessa? Ragazze con seni grandi come
monolocali, defecatori di frodo, maniaci del vomito? Oppure, attraversando
la barricata, è possibile che ci riconosciamo in vecchiette che dichiarano
guerra al sesso? Che, con lo sguardo sbigottito di chi sente punzecchiato,
affermano: “Mia nipote è una brava ragazza, lei odia il sesso!”? E’ dalla
contrapposizione di questi estremi che sorge l’interrogativo del film di
Waters, che instilla dubbi attraverso il virus della risata grassa,
incontrollabile, grossolana, mettendo in scena situazioni che sembrano
uscite direttamente da PINK FLAMINGOS e che acquistano un impatto forse
anche maggiore perchè confezionate secondo i dettami della commedia
americana contemporanea. Un film bello anche a fronte di virtuosismi che
diventano a tratti Waters-accademia (il lungo baccanale finale è manierismo
puro e cosciente), bello perchè rifiuta ogni logica barricadera, ogni
sbandata predicatoria. E’ vero, i sex-addict di A DIRTY SHAME sono più
simpatici, più attraenti, più liberi, hanno la faccia di un grande Johnny
Knoxville (che impersona una specie di messia del priapismo) e sembrano i
vincitori della sfida contro gli sfigatissimi “neuters” (letteralmente
“neutri”, asessuati), eppure nell’eccesso c’è un pizzico di amarezza che
incrina il sorriso. Non che John Waters sia diventato un castigatore di
costumi, è solo che vista così, con lo sguardo intelligente di chi i costumi
li ha cambiati (e spesso strappati di dosso), la vicenda ha tutto un altro
spessore; il fatto che per ritrovarsi tra le fila dei sessuomani basti una
concussione cerebrale e che quindi il libero arbitrio sia sostanzialmente
bandito nella scelta della propria attitudine sessuale, rende il gioco più
complesso. Basta un colpo di testa (neanche troppo metaforico) per passare
dall’altra parte della barricata? E quante barricate si attraversano senza
chiedersi perchè, senza che la coscienza venisse tirata in ballo? La
riflessione non è banale e, soprattutto, non è attinente unicamente al
microcosmo della provincia del macrocosmo America, cosa, questa, che ha
fatto arrabbiare qualche sostenitore del cinema-guerriglia che voleva fare
di John Waters “cosa propria”. La riflessione sulla tolleranza, sulla
tendenza ad aderire a idee e ideali in seguito alle influenze più disparate
e spesso meno sensate, coinvolge la persona prima del gruppo sociale e
ridendone si ride (e non poco) di se stessi.
Anne
Trister
di Léa Pool
(Canada 1986, 35 mm, 102’, col)

Morto il padre Anne parte per Montreal, lasciando il fidanzato – Pierre - e
la madre in Svizzera. Il decollo viene accompagnato dalla voce fuori campo
della madre che si rammarica di non averle mai dato tutto l’amore di cui
aveva bisogno, parole che preludono allo svolgimento intimo della
protagonista. Anne infatti approdata a Montreal inizia un percorso che la
porta alle radici della sua identità etnica di ebrea e insieme al nucleo
delle sue verità più intime. Sarà lungo questo cammino che si scoprirà
innamorata di Alix, una psicologa infantile conosciuta a Montreal. Lo
schiudersi dei suoi sentimenti va di pari passo con lo sviluppo della sua
opera d’arte, in una percorso di ricerca disseminato di strappi e
interruzioni che vede l’anima lacerata della protagonista imparare a
convivere con la propria sofferenza, ed affrontarla.
Drammaticamente intenso il film mette a nudo un’esperienza di ricerca
interiore dove il riconoscimento di una carenza affettiva porta alla volontà
di esprimerla senza limiti né condizioni. Anne non si rassegna, ma grida con
coraggio e aggressività la sua verità. L’amore per Alix è la voce della sua
istanza interiore più profonda, che Anne una volta scoperta mette a nudo con
una disponibilità incondizionata. A frenarla non sarà il presentimento di
non essere ricambiata, non sarà l’avversione del compagno di Alix, non sarà
la pena per Pierre.
Decisamente in evidenza risulta in ‘Anne Trister’ un’attribuzione di
responsabilità all’Edipo rispetto alla devianza amorosa: il collegamento
dell’amore ritrovato con un vissuto infantile è esplicitato da diverse
suggestioni - ‘più ti cerco più non ti ritrovo, mamma mi manchi’ - tra cui
il parallelo del rapporto tra Alix e una bambina sua paziente. Più in
generale l’impianto psicanalitico del film è evidente nel meccanismo delle
proiezioni e delle sostituzioni di cui Alix diventa soggetto: su Alix Anne
proietta la madre in quanto oggetto d’amore perduto – amore in uscita – e
sempre su Alix trasferisce l’amore di Pierre per se stessa – amore in
entrata – .
Il film vuole essere non solo di denuncia delle istanze più profonde e
spesso inespresse della psiche ma anche di ribellione. Al riconoscimento
della carenza da parte di Anne non seguirà la rassegnazione e il superamento
ma la decisione di riscattarsi a qualsiasi costo, di prendersi quello di cui
è stata privata senza condizioni.
Hollywood malgrè lui
(Hollywood By Accident)
di Pascal-Alex Vincent
(Francia 2004, 35mm, 10’, col)

Fin dalla nascita, Adrien Paretti è stato scambiato per una ragazza. Un
appendicite acuta sarà l’occasione per diventare donna veramente prima e poi
una star di Hollywood.Tutto l’iter viene presentato come indipendente da una
decisione del protagonista, partecipante silente della sua vita. Voce
narrante la migliore amica. Dieci minuti di riflessione divertita e amara
sulla problematicità della libera scelta rispetto all’attribuzione della
propria identità. Montaggio originale per il mix di ripresa e animazione.
Quand je serai star
di Patrick Mimopuni
(Francia 2004, 35 mm, 114’, col)

Un legame opinabile tra una madre che non fa propriamente la madre, Diane
(Arselle Dombasle) e una figlio che non fa del tutto l’amante, Marc (Yvan
Fahl) segna il limite di entrambi verso l’esterno. In bilico tra le avances
di uomini non desiderati e un’amore omosessuale nascosto la vita di Diane
procede senza maturazione, all’insegna di sperpero, futilità e narcisismo.
Se il rifiuto per la stravaganza per il mondo artefatto della madre,
scalcagnata attrice parigina, non è abbastanza per separarsene tout-court,
la nausea per questa femminilità fin troppo ostentata è sufficiente ad
anestetizzare Marc rispetto alle donne. A dispetto dei suoi desiderata – ‘je
veux etre normal’ - , Marc non è un uomo ‘normale’ a pieno titolo. Certo
Marc predilige un lavoro come un altro alla professione di attore, ma la
normalità nel lavoro contrasta con un libertinaggio nel sentimento che va
ben oltre la stravaganza della madre. All’equilibrio di cristalli di Diane,
Marc sostituisce un fluido laissez-passer, nel quale suo malgrado finirà per
cadere anche Diane, mettendo a repentaglio la sua stessa dignità. Sullo
sfondo il contrasto tra Parigi e Marrakesh, rispettivamente simboli della
madre e del padre scomparso, di una presenza ingombrante e limitante e di
un’assenza sopperita con una libertà estrema. Limite e libertà estremizzati
fino al punto da equivalersi nell’immobilità si stemperano amaramente in
questa commedia triste, che mette in scena gli aspetti più viziati di una
Parigi decadente, dell’arte, delle rivisitazioni in chiave liberata del
legame madre-figlio lasciandoci un retrogusto che sa di nichilismo.
Poster Boy
di Zak Tucker
(USA 2004, 35mm, 97’, col)

Il senatore ultraconservatore Jack Kray per guadagnare popolarità e vincere
le elezioni decide di utilizzare il figlio Henry come portavoce esemplare di
uno dei cardini della sua politica: il valore della famiglia. Henry non
riuscirà a sottrarsi a questa imposizione, ennesima espressione
dell’oppressione paterna, e presenzierà al discorso, accompagnato dall’amico
Anthony. Ma sarà proprio grazie alla presenza di questo che Henry potrà
riscattarsi regalando alla fine del suo discorso un colpo di scena che parla
più delle parole e ne segnerà il distacco definitivo dal padre. Film di
denuncia insieme sociale e politica film sulla repressione, Poster Boy
attacca limiti e debolezze di un certo tipo di educazione americana
rigorista e conservatrice e la falsità di un certo tipo di retorica
politica.
Significativa in questo senso la battuta risposta tra lo psicologo e Henry
in chiusura del film:
‘And your father? What [rests] between you and him?’
‘I don’t have to look after my shoulders any more’
(E tuo padre? Cosa resta tra te e lui?
Non devo più guardarmi alle spalle)
Shimotsuma Monogatary
(Kamikaze Girls – Shimotsuma Story)
di Tetsuya Nakashima
(Giappone 2004, 35mm, 103’, col)

‘Gli uomini sono codardi di fronte alla felicità. Devi trovare il coraggio
di affrontare la felicità’
Queste le parole che Momoko bambina dice alla madre per darle il coraggio di
abbandonarla.
Queste le parole che Momoko cresciuta dice a se stessa per darsi il coraggio
di non abbandonare Ichico.
Momoko (Kyoko Fukada) nasce da un’unione occasionale, quando la madre decide
andarsene con un altro uomo non la segue ma decide di restare con il padre,
trappolaio nullafacente. A dispetto degli affari non meglio identificabili
di questo e del panorama kitch-trash della remota cittadina di Shimotsuma
Momoko cresce in un mondo tutto suo, fuori tempo e fuori stile:
l’aristocrazia Rococò. Il caso vuole che incontri Ichiko (la pop star Anna
Tsuchya) una iper-ribelle di una band di motocicliste. La gentilezza di
Momoko pare inconciliabile con la sguataggine di Ichiko eppure…Il legame tra
le due va al di là dell’immaginazione e ne segnerà un riscatto combinato.
Tratto da un romanzo di Novala Takmoto il film unisce sobrietà e
trasgressività, tradizione e innovazione della cinematografia giapponese: se
i sentimenti emergono con quell’allusività velata tipica del pudore tutto
giapponese verso l’affettività la scenografia è invece prorompente ed
innovativa. La vivacità del colore lascia il posto a sketch di animazione il
tutto accompagnato da una colonna sonora aggressiva e coinvolgente.
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