TORINO CINEMA GIOVANI 2002


Torino 2002 - Julio Bressane e gli anni delle Belair, ovvero: una salutare insania cinematografica

L’imponente figura (sotto ogni aspetto) di Julio Bressane ha fatto capolino, dopo la Mostra del Cinema del 2001, anche a questo Torino Film Festival, che ha dedicato al grande regista brasiliano una meritatissima e completa retrospettiva, naturalmente curata da Roberto Turigliatto.
Suppergiù trenta pellicole, che ripercorrono i trent’anni di un’appassionata, rovente sperimentazione che ha sorvolato i tempi grazie ad una inaudita libertà espressiva, una libertà che, messa accanto ad odierni prodotti “sperimentali” (e in parecchi sembravano piccarsi di questo aggettivo fra le sale del Festival) li fa sembrare dozzinali, prevedibili cloni di un cinema preconfezionato, tenuto in vita tra additivi e conservanti. Eppure, in molti il nome di Bressane devono averlo sentito per la prima volta proprio in questa occasione.
In questo strano panorama festivaliero, dunque, attorniati dalla globalizzazione più bieca di quel gigantesco fast-food marmoreomuseale che è il centro commerciale del Lingotto, ovattati ed alienati dal rosso ferrari moquettoso del multisala Pathé in cui è stato cacciato a forza il festival, strappandolo al rassicurante centro storico torinese, i film di Bressane hanno avuto l’effetto eversivo e dirompente di una bomba H capace di azzerare ogni cosa intorno a sé, violenta rievocatrice di una matrice primordiale, istintiva del cinema.
Il geniale regista brasiliano rimane d’altra parte un unicum nel panorama cinematografico mondiale, potendo rivendicare l’invenzione di un modo di fare cinema che tuttora è nuovo e in continua innovazione, poiché parla i linguaggio senza tempo dell’invenzione poetica.
Julinho Bressane, classe 1946, è l’anima luciferina del cinema sperimentale brasiliano (il cosiddetto cinema marginal), regista-artista estraneo ad ogni inquadramento politico, storico, stilistico, oggi esattamente come negli anni ’60, quando poteva peraltro costare caro sottrarsi sfacciatamente alla militanza ideologica e inseguire la propria poetica in un paese stritolato dalla tirannia e assetato di rivoluzione.
Nel 1966, a vent’anni, Bressane ha già girato un film (Cara a Cara, “Faccia a faccia”) che fa il giro di tutti i festival europei, inserito com’è nel fenomeno del Cinema Novo, corrente dalla quale Bressane verrà repentinamente espulso solo tre anni dopo, nella confusione politica dell’epoca, ripudiato dal suo stesso alter ego registico e amico Glauber Rocha. Cara a Cara sarà il primo film di Bressane a passare alla Quinzaine a Cannes, nel 1968, perloppiù ignorato dal pubblico, salvo “alcune persone buone, sensibili, strane…”. Fra questi sperduti ammiratori si annoverano Jacques Demy, Miklos Jancsò, Carmelo Bene, il cui Capricci fu per Bressane “un vero choc…un film straordinario, che mi stimolò molto…un Ejzenštejn dell’Lsd, un Ejzenštejn lisergico”.
Quell’anno, a Cannes, il ventiduenne Bressane vive l’esperienza di un “narco-anarco-festival” (la definizione è sua) in cui, oltre al defoncé Carmelo Bene, trascorre notti goliardiche con Dennis Hopper (che aveva “un fumo molto buono”), Jack Nicholson, Nicholas Ray, e avrà occasione di incontrare più volte un Visconti affascinato da un istrionico Glauber Rocha.
Nel 1970, dopo la rottura con Rocha, Bressane dà vita alla casa di produzione più indipendente, più prolifica e dalla vita forse più breve della storia del cinema: in due mesi la Belair (evocazione beffarda di limousine con autista su Hollywood Boulevard) sforna sette lungometraggi, fioriti prodigiosamente sullo scompiglio creato nel panorama cinematografico brasiliano dai due precedenti lavori di Bressane, O Anjio Nasceu (L’angelo è nato, 1969) e Matou a Famìlia e Foi ao Cinema (Uccise la famiglia e andò al cinema, 1969), girati complessivamente in tredici giorni.
O Anjio Nasceu rappresenta il punto di distacco dal Cinema Novo, e, insieme a Matou a Familia, una decisa dichiarazione di libertà creativa, rispetto al progetto di cinema politico di Rocha e compagni, che Bressane poté permettersi anche grazie alla possibilità di autoprodurre, almeno in parte, i propri lavori. Nel film i protagonisti sono due banditi in fuga, uno dei quali, il nero, mistico e visionario, crede nella venuta imminente di un angelo purificatore. Il bianco, invece, è ferito ad una gamba, sanguina. I due si trascinano in una sorta di attesa dell’evento, durante la quale sperimentano quelli che potrebbero essere definiti gentilmente comportamenti altamente antisociali con punte di ultraviolenza: dopo svariate efferatezze on the road, i due irrompono in un’elegante villa borghese (le case dei ricchi nei film di Bressane sono popolate di design italiano e mobili di Cassina), violentano e torturano la giovane proprietaria e la domestica e, attirati da un miraggio finale, le fanno fuori per proseguire il loro cammino. Alcuni ingredienti-base del cinema di Bressane sono già qui assemblati a formare un insieme crudo, incoercibile e, nel complesso, pieno di poesia e di profeticità: la sessualità perversa, sadomasochistica, il misticismo lucido e invasato, il conflitto violento tra borghesia ed emarginati.
Ora, se una sinossi può essere estrapolata per evocazione, il tessuto narrativo e la vera costruzione di O Anjio Nasceu rimangono quanto di più fluido e scomposto si possa immaginare, cosa che del resto caratterizza ogni film di Bressane, in gradi differenti. Il mezzo filmico è vissuto come strumento di happening, un’esperienza artistica vissuta nel girato, nel montaggio e in mille variabili di produzione e d’altra parte mai veramente conclusa, dato che lascia allo spettatore un’ampia possibilità di reazione, esattamente come quando si legge una poesia, o si guarda un quadro, o si ascolta della musica. L’uso della macchina da presa è sperimentale nell’accezione più completa, l’espediente tecnico superato da una volontà di “vedere” ai confini del delirio mistico. E’ un film “incosciente, e con una forma narrativa che io ancora non conoscevo. Non avevo mai fatto un film con inquadrature lunghe, con una narrativa che seguiva un crescendo. Una volta terminato, provai una grande difficoltà ad accettarlo.”
O Anjio Nasceu ha momenti di camera a mano compulsiva, altri di una fissità ipnotizzata, come l’interminabile inquadratura che conclude il film, una strada deserta da cui nulla parte e nulla arriva, mentre scorre tutta intera un’allegra canzone brasiliana, lasciando infine un altrettanto lungo silenzio. L’attesa continuerà anche dopo la non-fine del film, in uno zoom sfocato, amaro.
”La maniera in cui lasciai che la mia sensibilità fosse attraversata da tante forze incoscienti, costituì anche per me un’esperienza devastatrice. Per me, personalmente. Perché ti confronti con qualcosa di tuo che è intollerabile, queste potenze che sono dentro di te e con cui ti metti a contatto restandone estremamente scosso. (…) Credo che Anjo sia ancora una ‘terra incognita’ anche per me.”
Matou a Familia e Foi ao Cinema, girato contestualmente a O Anjio, in una quindicina di giorni, si compone invece di dieci storie, che prendono il via da un episodio iniziale, che dà il titolo al film, ispirato ai titoli dei giornali scandalistici: un ragazzo del ceto medio-basso uccide padre e madre e va al cinema a vedere “Perdidas de Amor”. Nel film, che finisce per sovrapporsi alla realtà, due ragazze poco più che adolescenti, vista la propria relazione saffica minacciata dalla madre di una delle due, la uccidono a pugnalate. Due sorelle della buona borghesia, una delle due in piena crisi matrimoniale, si ritrovano nella lussuosa e imbalsamata casa di quest’ultima e, in un delirio liberatorio a base di samba, dopo aver infranto in ogni modo l’ordine costituito della dimora, fra balli e risate, finiscono per spararsi l’un l’altra al culmine di una sorta di rito sacrificale a metà fra il sabba e l’isteria. Altri frammenti e storie narrano di altri personaggi senza passato, né futuro, che si agitano nel presente violando ogni legge etica, senza nulla da perdere, gioiosamente e disperatamente al tempo stesso.
In Matou a Familia, come in O Anjo, si assiste ad un’autentica implosione sintattica dei contenuti, dei tempi e dei modi codificati del fare cinematografico, una decostruzione in piani paralleli e conflittuali degli elementi del film. I personaggi stessi creano punti di rottura violenti con l’ambiente che li circonda, facendosi trascinare da una follia eversiva e provocatoria che li porta all’autodistruzione, una salutare “idiozia” che trascende i limiti e rompe ogni schema. Ritmi a singhiozzo, scene che si “incantano”, come la puntina di un giradischi che, nell’ultima scena, replica all’infinito la mezza strofa di una canzonetta popolare.
Nei film prodotti successivamente con la Belair, Bressane raffina e aggiunge elementi via via più complessi ai suoi lavori, realizzati sempre in tempi strettissimi e con un’economia di mezzi e materiali che fa pensare ad una sorta di action painting cinematografico. In A Familia do Barulho (La famiglia del chiasso, 1970) si fa il verso alle chanchadas, i popolari film melodrammatici brasiliani, utilizzando però autentiche star di questo genere, fra cui Grande Otelo, che era stato attore ed amico di Orson Welles, l’autore-feticcio di Bressane.
Barão Olavo, O Horrivél (Barone Olavo, l’orribile, 1970) è invece una commedia dell’assurdo, in cui la follia si autogenera nella cornice di una misteriosa casa nella foresta, abitata da un gruppo di strani personaggi. “Alla fine tutti escono dalla casa come se fossero dei topi da laboratorio che fuggono e vanno a contaminare il mondo” (Bressane). Letteralmente esilarante la scena finale con sottofondo trascinante di samba, in cui i protagonisti, in una sorta di candid-camera, si aggirano per le strade affollate di Rio compiendo ogni genere di stranezze fra gli sguardi divertiti e un po’ spaventati della gente, “contaminando” il mondo con una sana follia creativa che precorre di un bel po’ d’anni l’insania calcolatissima degli Idioti di Lars Von Trier.
In Cuidado Madame (Attenzione Madame, 1970), la camera a mano segue le gesta di una giovane cameriera che, in combutta con un’amica, compie una piccola rivoluzione sociale uccidendo la sua elegante padrona a coltellate, tra sambe e danze sguaiate. La musica ha vita propria e domina letteralmente le azioni dei personaggi, contrastandole o accompagnandole negli eventi con un’energia caustica, incurante e irriverente.

Gli anni della Belair si conclusero per assenza di fondi, e non certo di energia creativa. La ricerca di Julinho continuò e continua tuttora, infatti, a produrre capolavori estremi come Dias de Nietzsche em Turin o São Jeronimo.
L’essersi inventato un nuovo modo di fare cinema, l’aver scelto una strada di ricerca personale, tacciata di eccessivo individualismo, aveva tuttavia creato un precedente tale da costare l’interdizione a Bressane da tutti i circuiti di produzione, brasiliani ed europei.. “Ho passato 12 anni senza poter presentare film ai festival nazionali, e per 20 anni i festival internazionali rifiutavano o ignoravano sistematicamente i miei film: ero un ‘agente della CIA!’ “.
A vederlo oggi, l’esilio materiale e morale di Bressane, che continuò dall’estero, per anni, a mandare i suoi segnali cinematografici, può sembrare assurdo, e lo fu anche per lui stesso. Ma la spinta a girare fu decisamente più forte, e Bressane, affetto da un autentico nomadismo, continuerà a spostarsi e a creare, ad inseguire la sua pista.

“Sapete cosa ho capito quando ho iniziato a fare cinema, fin dalla prima volta che ho messo l’occhio dietro alla macchina da presa, quella che mi aveva regalato mia madre? Ho provato subito una sensazione di estraneità rispetto a quello che avevo filmato, qualcosa che avevo fatto io ma che non mi apparteneva, che era diverso rispetto a me. Questo sentimento mi ha perseguitato per molto tempo, fino ad oggi.Ho notato che il cinema (…) è una specie di organismo che attraversa l’intera sensibilità di una persona, attraverso l’arte, la scienza e la vita stessa. Non è solo uno strumento che riflette la visione del mondo, ma uno strumento di autotrasformazione radicale. Oggi un cineasta, oltre a possedere talento, deve contare su molteplici conoscenze, che è molto difficile avere e per le quali non si ha il tempo.Ma l’esigenza del cinema esiste ancora ed è un’esigenza dell’organismo cinema. In questo senso ho sempre inteso il cinema come uno strumento di autotrasformazione, di rimozione e di acquisizione. Quelle immagini lì, registrate, trent’anni prima, fissate per sempre, rappresentano una maniera per poter dimenticare tutto quello. Una maniera per liberarmene facendo.(…)
Modestia a parte, avrei potuto essere il principe dei cineasti brasiliani e invece sono stato messo da parte, giustamente.(…) Ho fatto questo cinema perché non potevo fare altrimenti, non c’era uscita per me, era una questione di vita, o facevo così o morivo. Ho fatto questi e non i grandi film, che so: 2001: A space Odyssey. Dovevo fare questo. Ho fatto questi film e i film hanno fatto me. L’ho capito facendoli, per me la vita non aveva altra uscita.”
(Julio Bressane, 2002)

Piccarda di Montereale

 

CONCORSO DOC 2002


Doc 2002 è la sezione interamente riservata ai documentari italiani (di recente produzione), 15 opere che narrano vicende differenti con differenti modalità, ognuna testimone della varietà di strumenti espressivi in grado di documentare un evento, ritrarre una persona, mostrare il trascorrere del tempo. Il Torino Film Festival è particolarmente orgoglioso di questa sezione perché è cresciuta negli anni e ha concorso al rilancio del documentario nel panorama nazionale di produzione cinematografica.
Opere decisamente eterogenee sono quelle che abbiamo visto e ciò ci fa pensare a un panorama vivo, ad autori che cercano un proprio spazio e a uno sviluppo di questo genere cinematografico.

ALICE E’ IN PARADISO
di Guido Chiesa dall’affermazione scritta a caratteri cubitali “il ’77: che palle!” ha inizio la storia di Alice, la radio bolognese chiusa con un’irruzione dei carabinieri nel marzo del ’77 durante gli scontri di piazza avvenuti dopo che un carabiniere aveva ammazzato uno studente. Il racconto procede lieve con interviste ai fondatori della radio, immagini dell’epoca, inserti del racconto di Carroll e scritte che interrompono la narrazione. Il risultato è un documentario trascinante, ironico, mai retorico, girato in modo da risultare leggero, ma senza essere mai superficiale o modaiolo (ed era abbastanza vintage per poterlo essere).

L’ULTIMA CORSA di Enrico Pitzianti narra della dismissione del servizio passeggeri delle navi traghetto delle ferrovie dello stato che collegano Civitavecchia alla Sardegna. Tutto girato a stretto contatto con i dipendenti delle FS, con primissimi piani dei volti, utilizza ogni strumento per renderci partecipi della disperazione degli uomini imbarcati per l’ultima corsa del titolo. Anche dal vivo la didascalia appartiene a Pitzianti, infatti in sala ci ha informati del fatto che in Sardegna non c’è lavoro e la gente del posto è costretta a emigrare. Devo dire che la notizia non ci giungeva nuova…

SALA ROSSA di Saverio Costanzo: nella sala rosa del pronto soccorso entrano i pazienti che stanno tra la vita e la morte; è una zona off limits e questo corto sfrutta la tendenza voyeuristica dell’essere umano e la sua curiosità. Condividiamo con due equipe di medici e infermieri alcuni momenti delle nottate in cui questi sono in servizio e qui la regia è nulla per ovvi motivi, ma nelle interviste (sempre ai protagonisti) assistiamo a scelte pericolosamente vicine al patetico con ambientazione “paradiso” realizzata con un bianco sfolgorante che sfuma i contorni dei visi e gli stacchi sulle nuvole del cielo.

COME FOSSILI CRISTALLIZZATI NEL TEMPO di Luca Pastore lo si segue come in trance grazie alla musica che accompagna le bellissime immagini di fabbriche in disuso. Siamo nei pressi di Biella dove ci sono i più grandi complessi dell’industria tessile (ovviamente abbandonati) e Pastore ce li mostra attingendo dall’immaginario dei formalisti russi e facendo una scelta di stile molto evocativa mantenuta tale poi su piani differenti. Ci sono figure umane che abitano di nuovo quei luoghi, ma sono figure mute e immobili mentre gli edifici stessi si animano grazie all’unione della musica e del montaggio (audace) oppure grazie alla rievocazione della frenetica attività passata.

PORNODROME UNA STORIA DAL VIVO di Beniamino Catena è invece uno sconcertante contenitore vuoto e senza che ci sia una poetica dell’assenza dietro. Un gruppo che suona esclusivamente dal vivo si prepara per un concerto; e fin qui non ci sarebbe niente di male, niente di nuovo, ma neppure niente di male, a parte l’elevato tasso di antipatia dei componenti del gruppo. Parallelamente a questa dura preparazione, però, Catena ci mostra di aver imbastito una storia imbarazzante che vede coinvolti tre amici che girano un video con una svedese, la stuprano, la soffocano e la avvolgono nel cellophane (senza chiedere scusa a Lynch); pare che lei non muoia, comunque. Almeno avesse avuto l’ironia di commentare che il suo film era una metafora del fatto che il mito della svedese è duro a morire, sarebbe stato tollerabile, ma l’autore, che si prende molto sul serio e forse si rende conto del risultato complessivo, preferisce il concorso di colpa, infatti dichiara che la sua è un’opera collettiva (con gli interventi dei musicisti etc.), anomala e con l’obiettivo di raggiungere una partecipazione condivisa.
 

Altri film
 

DARK WATER

di Nakata Hideo

Giappone 2001

 

L’acqua scrosciante accompagna tutto il film, ossessiva e impietosa segue le due protagoniste (una madre appena separata dal marito con sua figlia) e lo stesso fanno un incubo e una figura di bambina in impermeabile giallo. La paura dell’abbandono si amplifica e si trasmette di madre in figlia, arriva a permeare anche l’ambiente circostante come la macchia di umidità che invade in poco tempo il soffitto della nuova casa delle due donne; il piano razionale, umano, psicologico, confina con quello del paranormale e ciò che all’inizio si pone solo come possibilità remota finisce per diventare l’unica terrificante realtà. Un climax imprevedibile perché il film gioca bene su entrambe le suggestioni, quella terrena di mente suggestionabile e quella ultraterrena, ci porta dentro l’incubo mantenendo una specie di ottundimento dei sensi perenne, lo stesso fanno i salti temporali funzionali alle proiezioni delle esperienze della madre sulla figlia e il ricorrere della situazione che ha causato il trauma iniziale. Tra psicanalisi e horror tout court.

 

 

THE PRINCESS BLADE

di Sato Shinsuke

Giappone 2001

 

Yuki alla vigilia del suo ventesimo compleanno scopre di essere una principessa e di lavorare per l’uomo che ha assassinato sua madre, ragione di vita diventerà la vendetta e in questo suo percorso incontrerà Takashi anch’esso tradito dal proprio capo. Il soggetto è tratto da un manga e racconta la storia d’amore tra i due ragazzi, uniti dal destino proprio mentre intraprendono la loro guerra personale. Molto bello il combattimento tra gruppi dell’incipit, reiterati all’infinito gli scontri tra Yuki e il resto della banda con la reazione proprio in punto di morte che porta alla vittoria. I momenti lirici, contraddistinti sempre dalla presenza di pegni amorosi, si alternano alle scene cruente dando una cadenza molto rigida all’impianto filmico. Vivamente sconsigliata l’identificazione agli adolescenti.

Sara TROILO

 

TOY LOVE
Di Harry Sinclair

Amori giocosi, frivoli e senza sentimenti, tradimenti leggeri e spudorati, sesso problematico e relazioni vuote e superficiali: questi gli ingredienti che condiscono la commedia New Zelandese di Harry Sinclair.
Ben, giovane protagonista del racconto, abituato a tradire senza tanti scrupoli la fidanzata Emily che lo tradisce a sua volta, viene sconvolto dall’incontro con Clio, ragazza anticonvenzionale ancora più disillusa e cinica di lui, che lo porterà a fare pazzie di ogni genere.
Di questi tre personaggi non ci viene detto molto, la loro vita è scandita solo da ridicole e poco probabili avventure sessuali, poco sentite e piuttosto squallide.
Un quadro della gioventù disincantata e ormai senza nessun tabù sentimentale che dovrebbe far sorridere e divertire e che invece rischia inesorabilmente di annoiare con trovate banali e portate all’eccesso . L’ennesimo tentativo di stupire con la trasgressione, già visto e rivisto e svuotato di ogni possibile legame con la realtà, che non aggiunge nulla di nuovo al genere della commedia sexy.
L’apice della convenzionalità, che voleva essere tanto rifuggita , viene raggiunto con il tentativo di spiegare la superficialità sentimentale come risultato di sofferenze e delusioni amorose passate e di affibbiare ai tre protagonisti sentimenti autentici, di cui erano privi fino alla fine e che invece appaiono come per magia alla conclusione.


EL LEYTON

(HASTA QUE LA MUERTE NOS SEPARE)
di Gonzalo Justiniano

Questo film cileno in concorso, tratto da un racconto piuttosto popolare in Cile, narra le vicende di una piccola e isolata comunità di pescatori che viene sconvolta da un delitto d’onore; infatti el Leyton, unico giovane scapolo del villaggio, bramato da tutte le donne del paese, insidiando la novella sposa dell’amico Modesto (di nome e di fatto), uomo onesto e dai sani principi, ma poco virile, provoca lo scoppio della tragedia…
Il regista Justiniano, vincitore di Cinema Giovani nell’ormai lontano 1986, fa un film in chiave tragicomica e sembra indeciso sul tono da dare al racconto, non è chiaro infatti se drammatico e moralista o ironico e indulgente. Si tratta soprattutto di una riflessione sulle ataviche contraddizioni dei popoli latini, eternamente divisi tra una grande religiosità e una vivace sessualità e sulla vita comunitaria degli abitanti di piccoli villaggi, apparentemente solidali tra loro, ma in realtà uniti da rapporti morbosi, invidiosi ed invadenti, che li portano a rivolgere le loro frustrazioni su un capro espiatorio: tema che generalmente coinvolge giovani e attraenti ragazze. In questo caso invece, ad essere implicato è il povero, ma non troppo innocente, Leyton, il quale, inizialmente costretto ad abbandonare il villaggio, verrà riaccettato a patto di rinunciare alla sua libertà di single . Niente di originale quindi, ma il film risulta scorrevole e divertente soprattutto per il fatto di mettere in risalto aspetti della vita e della cultura cilena.
La tecnica e le inquadrature decentrate e oblique, che non sempre sembrano funzionali allo svolgimento del racconto sono tali perché il film è girato in digitale poi trasferito in pellicola.

Caterina Mazzuccato

 

HAMMER FILMS

 

“Un’altra Europa”, una rassegna nella rassegna posta nell’ambito di “Orizzonte Europa”, quest’anno ci porta nelle “altre” atmosfere della gloriosa casa di produzione inglese Hammer. Per chi non lo sapesse la Hammer Films, che ebbe il suo periodo d’oro tra gli anni cinquanta e sessanta, si specializzò nella produzione di pellicole e serial televisivi di genere fantastico e orrorifico. Una vera e propria “macchina spettacolare”, con base negli studi di Bray, la cui formula vincente era il budget ridotto ed i tempi di lavorazione tiratissimi (in venticinque anni furono prodotti e distribuiti centoquaranta film), grazie soprattutto di specialisti dell’horror, dai registi Terence Fisher, Roy Ward Baker, Freddie Francis e John Gilling; agli sceneggiatori Jimmy Sangster, «John Elder» e John Sansom; dal direttore artistico Bernard Robinson; dagli operatori Jack asher e Michael Reed fino al compositore di colonne sonore James Bernard e al truccatore Roy Ashton. I segni distintivi delle pellicole Hammer divennero le luci violente (tutt’altra cosa rispetto a quelle polverose marchio della Universal) e un nutrito gruppo di attori che divennero delle vere e proprie icone della fantasia e del terrore come Christopher Lee, Peter Cushing e Barbara Shelley.
A Torino è stato proposto un piccolo, ma fortemente rappresentativo, gruppo di film della Hammer; con piacere si è rivisto L’astronave degli esseri perduti (Quatermass and the pit, 1967) di Roy Ward Baker ovvero il terzo episodio della saga (ripresa da una serie televisiva di successo e primo film della casa inglese con The Quatermass Xperiment del 1956) del Dottor Quatermass e forse il più bello ed interessante. Decisamente affascinante l’ambientazione realistica, in contrasto con l’atmosfera sottilmente fantastica, di Londra; dove in uno scavo della metropolitana viene ritrovata una astronave che forse è all’origine di ogni male sul pianeta terra. Una pellicola dai mezzi e dagli effetti speciali poveri, in cui lo straordinario nasce dall’ordinario, e per questo ci ricorda i sottili terrori dei racconti di Lovecraft.
Di sicuro interesse anche La lunga notte dell’orrore (The plague of the zombies, 1966) di John Gilling; a prima vista un classico horror-movie ma nella sostanza si avverte qualcosa in più. Una lettura quasi di stampo marxista degli zombie usati da nobili imbelli e corrotti per realizzare plusvalore per le loro orge e festini di sangue. Dalla morale comunque semplice e semplicistica, potrebbe tuttavia essere eletto a capostipite di tutte le pellicole combat zombies nati nel clima della contestazione giovanile di quegli anni: il trucco minimalista dei morti viventi non ci ha ricordato forse, quello dei mostri famelici di carne umana messi in scena l’anno dopo da George Romero?
Quasi completa l’omaggio ai Dottor Frankenstein di Terence Fisher, chissà perchè è mancato il primo capitolo della serie dedicata all’ambiguo chirurgo La maschera di Frankenstein (The curse of Frankenstein, 1957), che ci rivela l’estrema versatilità di questo regista e il perfetto idillio con l’attore Peter Cushing che ci ha regalato una serie di interpretazioni si teatrali e sopra le righe, ma mai disturbante. Con La vendetta di Frankenstein (The revenge of Frankestein, 1958) si capisce come questa serie inizi ad entrare praticamente in competizione con l’altra dedicata a Dracula; un piccolo gioiello gotico, con il barone scienziato dipinto come un eroe romantico senza che nessun giudizio morale appesantisca questa piccola grandr pellicola. La maledizione di Frankenstein (Frankenstein created a woman, 1967) da una svolta verso il melodramma alla serie, in cui il tragico mostro incontra l’altro sesso, ma siamo anni luce dalla creatura dalle meche elettrificate di Elsa Lanchester ed alcune scelte stilistiche ci hanno ricordato le strampalate simbologie di un Jesus Franco o un Jean Rollin. Con Distruggete Frankenstein! (Frankenstein must be destroyed, 1969) la regia di Fischer si fa sempre più classica ed essenziale, così come il volto di Cushing più emaciato e spettrale. Se il barone apre una clinica per trapianti non è per la ricerca della felicità e della ricchezza ma per il sacro fuoco della ricerca pura; chi l’avrà vinta il folle e geniale chirurgo o la mediocrità di coloro che lo combattono e lo contrastano? Frankenstein e il mostro dell’inferno (Frankenstein and the monster from hell, 1974) è la degna conclusione della serie iniziata più di quindici anni prima, in cui il barone rifugiato in un manicomio continua a compiere i suoi esperimenti sui pazienti dell’istituto mentale; un film inedito in Italia, probabilmente non distribuito per un finale nerissimo, non consolatorio e senza alcuna speranza.

Alberto CASINI