Ancora cani, ma ben altre frustrazioni dal film di Bong Joon-ho, BARKING
DOGS NEVER BITE, visto in piazza la sera del 24.
Un reggente locale in una provincia rurale indiana s'impegna a rovinare
l'esistenza del villaggio fedele e operoso [agricoltura, lavoro nei campi,
fatica e pochissima ricchezza] affidando uno dei cani reali, Apu, all'ex-servo
Koran, la cui moglie sostituisce idealmente il figlio mai nato con l'apparentemente
mite bestiola.
Quando questa semina il panico tra gli abitanti, sino ad uccidere un ragazzino,
cui aveva attaccato la rabbia, la comunità si ribella al padrone,
anche se poi, al termine di buffe relazioni diplomatiche gestite al di
fuori di ogni canone di politica "moderna", la salomonica decisione
di dividere in due la provincia non farà altro che creare l'illusione
di un nuovo stato delle cose, laddove l'intento del dittatore era proprio
quello di liberarsi, con l'inganno, di una regione considerata improduttiva
ai suoi occhi di neo-imprenditore assoldato al potere delle banche, per
quanto grottescamente legato ai piacevoli riti e ozii di una quotidianità
principesca vissuta tra danze e cibo consumato in quantità.
Il film è in realtà un piccolo documento gestito con parsimonia,
per quanto attiene alla creatività messa in campo, e con delicata
conduzione degli attori, verso un dolente descrittivismo emotivo delle
dinamiche private, una volta che queste si incontrano/ scontrano con la
dimensione pubblica, prevaricatrice, cinica e bara.
L'unica arma di civile opposizione, al di là dei cortei in cui
si brucia il rituale fantoccio del nemico e oltre la dimensione dell'affabulazione
persecutoria, censoria o semplicemente protestataria, è il silenzio.
Scelta alta di una moralità sofferta, che intuisce il mondo come
fardello da portare e mai come fonte di novità creativa [la maternità
mancata], il silenzio è la frontiera ultima, il punto di non ritorno
di un sentire primordiale, meglio primario, in base al quale l' umanità
divisa in caste e paria, dato di fatto immutabile [e, anch' esso, silenzioso],
entra ed esce con drammatica naturalezza nei/ dai corpi in cui s'incarna,
rilevandone solo il riflesso psichico di una gerarchia stabilita a priori
e da altri, nella lontananza immemore di un altro tempo, rispetto al quale,
oggi, la possibilità di sovvertire "la regola" sembra
pura e totale assurdità, più che utopia.
Voto: 26/30
|