torino film festival
28.ma edizione

Torino, 26 novembre / 04 dicembre 2010

 

di  Lara COSTANTINI

> kaboom di Gregg Araki

> 127 Hours di Danny Boyle

> Tournée di Mathieu Amalric

> CATERPILLAR di Koji Wakamatsu

> Last Chestnuts di Zhao Ye
> Red HiLl di Patrick Hughes
> The Ward di John Carpenter

> blessed events di Isabelle Stever

> soulboy di Shimmy Marcus

 

CATERPILLAR
di Koji Wakamatsu
Giappone 2010, 85'

 

Festa Mobile

24/30

1940, nel bel mezzo della guerra sino-giapponese il tenente Kurokawa perde tutti gli arti, rimanendo inoltre sfigurato, sordo e muto.

Ritornato a casa da eroe, pluridecorato, viene ora accudito dalla moglie Shigeko. Gli occhi della comunità sono su di lei, incaricata di fare anch’essa la sua parte per il bene della nazione, mantenendo il “Dio della guerra” e rimanendogli fedele.

Intanto la guerra volge al suo termine, lasciano nel mondo sessanta milioni di vittime.

La guerra non è mai giusta, non esiste un’ideale che la possa giustificare: molti l’hanno detto ma pochi hanno messo in scena un apologo tanto duro come quello di Wakamatsu. Gli esseri umani ridotti a carne da macello, a creature che mangiano e dormono, si condensano nel simbolo Kurokawa, un torso umano che ha ormai più in comune con un bruco che non con un marito.

L’ultimo lavoro del vecchio Wakamatsu sembra la versione estesa dell’episodio giapponese di 11 SETTEMBRE 2001 diretto da Shohei Imamura. In entrambi i film il reduce di guerra è comparato ad un essere strisciante: fisicamente distrutto l’uomo-bruco di CATERPILLAR, completamente alienato nella mente l’uomo-serpente di Imamura. Non che questo faccia una grande differenza, poiché una condizione incide inevitabilmente sull’altra e sull’equilibrio delle persone che ne sono testimoni, come Shigeko.

Per Shigeko poi la mutilazione del marito non è solo un dolore ma anche un’ennesima prigione organizzata dalla società maschilista giapponese: una prigione “dorata” e decorata da menzioni d’onore e medaglie, tuttavia totalmente insufficiente a mascherare l’ingiustizia del sacrificio chiesto per la patria. Costretta ad accudire e a soddisfare quello che rimane di un uomo che anche prima la maltrattava, Shigeko stessa è inferma e disumanizzata, spinta dalla situazione a comportamenti che un essere umano non dovrebbe mai sperimentare.

Le catene di ingiustizia non si rompono con un evento pacificatore, ma con una strage ancora più grande che spazzi via tutto: Hiroshima e Nagasaki. E dopo la bomba atomica? Altri corpi martoriati, altre persone senza più uno scopo nella vita, altre catene di sofferenza da celebrare in nome della patria…

Inesorabile, CATERPILLAR è diretto e montato come se non fossero passati decenni da RED ANGEL (Yasuzo Masumura) e SOTTO LA BANDIERA DEL SOL LEVANTE (Kinji Fukasaku).

Il mondo è sempre lo stesso, la visione umanista e disillusa di Wakamatsu anche. Potente.

kaboom
di Gregg Araki
Francia/Stati Uniti 2010, 86'

 

Festa Mobile

16/30

Smith è uno studente dall’orientamento sessuale incerto. È innamorato del compagno di stanza surfista e idiota, ha una cotta anche per l’amico di quest’ultimo, va a letto con la disinibita London e passa le giornate a parlare di sesso con Stella, lesbica e snob. I sogni si Smith sono popolati da persone che poi puntualmente incontra nella vita reale: una notte in discoteca s’imbatte infatti nella ragazza dai capelli rossi che le era apparsa in sogno. Dopo aver assaggiato dei biscotti allucinogeni, il ragazzo crede di aver assistito all’omicidio della rossa. Lui e i suoi amici si trovano così coinvolti in un misterioso complotto organizzato da una setta segreta…

Uomini con la testa da animale, ragazze dalla doppia identità che di cognome fanno Novak (!), streghe e misteriosi omicidi in un campus universitario: i punti di riferimento di Araki sono piuttosto espliciti. Il tentativo di unire TWIN PEAKS ad un cinema trans-gender, anche se in chiave parzialmente parodica, risulta però indigesto ed irritante.

KABOOM è semplicemente una parata di strafighe che si esibiscono in performance sessuali più o meno esplicite e strambe, provocando l’eccitazione e la frustrazione di un pubblico (soprattutto giovane, ma non troppo) che sembra essersi dimenticato cosa sia il sesso. MTV talkin’, promiscuità e un po’ di droga sono all’ordine del giorno e pervadono il film: sorprende quindi la quasi totale mancanza di una qualsiasi riflessione su temi cui è dato tanto spazio.

Gli stereotipi sessuali dominano, la ricerca di un qualcosa che riesca ad essere tanto estremo quanto cool e desiderabile sembra essere l’unico legame tra una sequenza e l’altra. Qualche volta si ride anche, ma è ben poca cosa di fronte all’auto-rappresentazione sconfortante di una generazione convinta che il sesso vada provato in tutte le declinazioni possibili, e “chissenefrega” dei sentimenti. Sembrerò naif e fuori moda, ma le sfilate di corpi-involucro mi ha stancato.

Certo, Araki è piuttosto consapevole di giocare con gli stereotipi (sessuali, cinematografici), ma il suo discorso non va da nessuna parte e si schianta in una soluzione di ridicola faciloneria. In altre parole, KABOOM vorrebbe mettere tanta carne al fuoco per poi scherzarci sopra. In verità, non ha niente da dire e fonda la sua appetibilità su stimoli visivi che vanno a colpire il basso ventre di una generazione (la mia) già piuttosto confusa e in balia delle correnti. Niente di più della versione adolescenziale e idiota di SHORTBUS declinato in salsa lynchana.

Tournée

di Mathieu Amalric

Francia 2010, 111'

 

Festa Mobile

21/30

Joachim Zand è un impresario dello show business francese fuggito negli USA. Ritornato in Francia decide di portare con se in tournée un gruppo di artiste camp, trasgressive e audaci. La loro incontenibile vitalità gli causa diverse grane, il desiderio di essere indipendenti ed autogestite le rende incontrollabili. Man mano che la tournée prosegue lungo la costa francese il sogno di esibirsi a Parigi sembra divenire sempre più lontano…dietro la facciata vitale e frizzante dello spettacolo si nascondono infatti i problemi di Joachim con la famiglia e con il passato, nonché la nostalgia delle ragazze per la propria casa…

Il film di Amalric è un’opera che si muove “dietro le quinte”, come la prima sequenza sembra voler indicare. La macchina da presa spia, senza farsi troppo sentire, alcune donne in camerino alle prese con il make-up ed i preparativi di scena. Esse sono mostrate nella loro autenticità, senza abbellimenti o glamour, senza compiacimento (ammesso che sia possibile evitarlo del tutto…). Sono donne “reali”, imperfette e in grado di tener testa a qualsiasi uomo: quando vogliano fare sesso, ne scelgono uno e cercano di trarne il massimo piacere, senza tanti problemi.

Quello che è davvero interessante è lo straniamento di Joachim di fronte a questi esseri femminili che non corrispondono certo all’immagine che egli ha (e più in generale che noi uomini abbiamo) delle donne: privato del suo potere, impotente, il personaggio di Amalric oscilla tra fascinazione e repulsione, odio e amore continui verso quel mondo che fino ad allora aveva considerato come poco di più di un territorio di conquista o sfruttamento (ed i suoi figli, la ex-moglie, le amanti sembrano essere la prova vivente della sua cecità).

Insomma, se una progressione narrativa c’è, è proprio quella che vede Joachim abbassare le difese e lasciarsi catturare dall’altro sesso, non più visto come qualcosa di astratto, ma nella certezza, nella concretezza anche pesante del corpo, della carne, dei desideri e del dolore di queste “donnone” americane. Per il resto, il ritmo è quello ormai abbastanza tipico di un film che evita un andamento lineare, che non vuole arrivare a tutti i costi da A fino B ma che preferisce esser vissuto come uno “spaccato di vita” dai contorni fragili, un frammento neanche troppo esemplare di esistenza.

Una scelta con pregi e rischi: da una parte si guadagna in credibilità e si permette agli attori di regalare una performance eccellente, dall’altra si mette a repentaglio l’attenzione dello spettatore, o almeno di quel tipo di spettatore che va al cinema per vedere “qualcosa di diverso”. Ma questa è un’altra storia vecchia come il cinema…

John Carpenter’s The Ward

di John Carpenter

Stati Uniti 2010, 88'

 

Rapporto Confidenziale

25/30

Oregon, 1966. Arrestata per incendio doloso, Kristen viene ricoverata in un manicomio. Nel “reparto” vivono alcune ragazze come lei, con problemi di diversa natura…

Tuttavia Kristen non crede di essere pazza e non sa il motivo per cui è internata. Di notte inoltre una presenza minacciosa  terrorizza le pazienti fino ad ucciderle. Lo spirito combattivo della giovane la porta ad intraprendere una durissima lotta per la sopravvivenza, fino a scoprire l’inattesa verità…

Carpenter, nonostante tutto, c’è. E potrei finire qui la recensione, perché è questo che a noi carpenteriani interessa maggiormente.

Partiamo invece dalla dichiarazione che il regista ha registrato per l’anteprima a Toronto: “This is an old school horror made by an old school director”. Infondo è tutto qui il senso dell’operazione. L’ultimo lavoro di Carpenter infatti difficilmente troverà riscontro nel grande pubblico, difficilmente sarà studiato dalla critica, difficilmente cambierà i connotati del genere: e allora perché vederlo?

Perché Carpenter con THE WARD ci ha insegnato una lezione di umiltà, regalandoci un film girato e prodotto con modalità cadute nel dimenticatoio. Un film in cui si respira un'altra epoca, quella in cui i registi erano considerati mestieranti e a nessuno importava molto della riflessione sul genere, mentre a tutti importava l’atmosfera e i personaggi. Il che non significa che Carpenter non lavori consapevolmente sull’horror o non si consideri un autore (il suo nome prima del titolo ne è anzi la prova). In questa occasione però ha scelto di ritornare sulla scena lavorando di sottrazione, cercando quel nucleo principale di convenzioni “elementari” da cui il genere è nato.

Carpenter ha rielaborato passionalmente i generi negli anni Settanta, ha sigillato il proprio inconfondibile marchio di fabbrica negli Ottanta, ha attraversato un periodo in cui il suo cinema si è fatto più teorico e riflessivo nel decennio successivo per poi iniziare ad incrinare le convenzioni da lui stesso rilanciate, parodiandosi e sbeffeggiando amorevolmente tutta l’industria hollywoodiana da FUGA DA LOS ANGELES in poi.

E ora? Ora sembra voler ricominciare da zero, alla veneranda età di 62 anni, con una pellicola (termine inappropriato: sebbene la fotografia possa ingannare, THE WARD è digitale) che pare girata contemporaneamente a FOG (forse il suo vero antecedente), così semplice, così pura da risultare persino naif…

Pieno di momenti di humour apparentemente involontario, quasi senza gore, l’ultima fatica del regista di LA COSA (qui molto più attratto e divertito dalle curve delle sue eroine che non dall’orribile creatura) è completamente fuori moda, un anacronismo come se ne vedono di rado: THE WARD è l’Abc della storia del terrore cinematografico, con fantasmi dentro lo specchio e ragazzine abbandonate che temono l’uomo nero, spaventi cheap dietro ogni angolo e un grande senso dello spazio.

Simile a DRAG ME TO HELL, ma con meno pretese (e un budget molto più ridotto), l’ultimo Carpenter nel finale si rivela, molto sottilmente, persino umanista! Non serve la tecnologia o un grosso AVATAR blu per vivere la vita di qualcun altro…

Insomma: THE WARD, con tutti i suoi limiti, ricercati o meno, desiderati o accidentali, è la riprova che un certo tipo di concezione dei generi vive ancora (penso all’ottimo poliziesco western australiano RED HILL per esempio) e finché in America registi come Carpenter lavoreranno il cinema potrà cantare vittoria.

E se questo ai detrattori più accaniti non bastasse, chi può negargli anche l’abilità nel muovere la macchina da presa? Chi può criticare la bellezza dei suoi frame (nell’inconfondibile 2,35:1) e dei suoi angosciosi carrelli? Si vedano i primi venti minuti per esempio, con l’incipit e il rogo di Amber Heard: un pezzo di cinema di altri tempi, come non se ne fanno più.

Dategli qualche soldo in più, una manciata di cavalli e qualche vecchia gloria (Ernest Borgnine, Harry Dean Stanton o Kurt Russell per esempio) e avrete il western più bello degli ultimi quarant’anni. Fatelo lavorare! Dopo THE WARD,  la mia fede esce rafforzata: Carpenter lives!

Last Chestnuts

di Zhao Ye

Giappone 2010, 60'

 

Festa Mobile

21/30

Una donna si reca a Kashihara in cerca del figlio. Grazie alle fotografie sulla macchina digitale dello scomparso riesce a mettersi in contatto con alcune persone che lo hanno incontrato: un vecchio attore e la madre della sua ragazza. Malata terminale, la donna si rende conto che il figlio e morto in un incidente e che non lo potrà più abbracciare. Era andato a Kashihara per raccogliere castagne.

Molto cinema contemporaneo sta provando a rappresentare il dolore più assoluto senza ricorrere ad artifizi retorici classici, quali l’iperbole, ma al contrario scarnificando da ogni “costruzione” gli eventi rappresentati. Obbiettivo utopico, tuttavia funzionale. È il caso di LAST CHESTNUTS.

La macchina da presa pedina a distanza ravvicinata la protagonista, seguendone i ritmi e assistendo all’elaborazione del suo lutto, riuscendo tra l’altro a mantenere un pudore di fondo invidiabile.

Pochi elementi e pochi personaggi compongono il quadro, sempre sospeso a metà tra un’atmosfera di quotidianità e di inconsolabile e profondissima tristezza. La madre che ha perso il figlio rimane ferma di fronte all’inaccettabile realtà, fissa le fotografie dello scomparso e si comporta come fosse ancora vivo; non le rimane altro che il ricordo, qualche immagine e il desiderio di conoscere chi realmente fosse stato il figlio. Infine sceglie di investire su di se parte della sua personalità, raccogliendo quelle castagne che a lui piacevano tanto.

Un’ora di cinema minimalista, universale, molto intenso.

soulboy

di Shimmy Marcus

Regno Unito 2010, 82'

 

Torino 28

18/30

Inghilterra del '74.Beatles,Pink Floyd,ma non solo... In uno scenario di crisi politica caratterizzata da violenti scontri sociali nasce e si sviluppa un movimento nuovo, giovane e pieno di energia. Sono gli anni del Northern Soul:musica soul, essenzialmente americana, suonata uptempo; giovani ballerini che, a ritmo di quest’ultima, sviluppano uno spettacolare stile di danza acrobatica; ed una cultura ribelle che cerca di sfuggire alla struggente monotonia della vita quotidiana. Il protagonista è Joe McCain (Martin Compston) che, nel tentativo di farsi notare dalla bella Jane (Nichola Burley ), intraprende il percorso per diventare un "Soulboy". Ad assisterlo nei suoi allenamenti l’amica Mandy (Felicity Jones ) che, dopo varie peripezie, Joe scoprirà essere il suo vero amore. Null'altro da dire sulla trama. Le vicende del collega di lavoro Bobby (Brian McCardie ) e del compagno di avventure Russ (Alfie Allen) appaiono piatte e marginali. Anche il protagonista è descritto con leggerezza. Tutti i personaggi, persino l'antagonista, sembrano essere sullo stesso livello, rendendo difficile l'immedesimazione e l’empatizzazione da parte dello spettatore. Il vero protagonista del film, infatti, è senz'altro il Northern Soul: fedele e realistico l'abbigliamento dei personaggi, originali e non esasperati i passi di danza, piena e coinvolgente la musica. Molto accurata anche la riproduzione del Wigan Casino, discoteca leggendaria e patria di questa cultura. È anche da osservare che i progressi di Joe in materia di danza, a differenza di certi film in cui il protagonista apprende miracolosamente movimenti estremi in tempi inesistenti, sono senz'altro possibili e realistici, risparmiandoci quindi lo strazio di un ennesimo Step Up. Con questa pellicola Shimmy Marcus ritrae un’era. La stessa struttura narrativa leggera e superficiale sembra appartenervi. Sconsiglierei quindi la visione a chi si aspetta qualcosa in più di una semplice e mediocre commedia, ma non posso che esprimere un deciso “si” per tutti gli amanti nostalgici del genere e dell’epoca: resteranno senz’altro soddisfatti.

127 Hours

di Danny Boyle

Regno Unito/Stati Uniti 2010, 94'

 

Festa Mobile

23/30

Aron Ralston ama avventurarsi nei canyon più pericolosi e affascinanti d’America. È molto esperto e sta per affrontare il Blue John. Dopo l’incontro fortuito con due ragazze che si erano perse, intraprende da solo la sua impresa, subito infranta da un terribile incidente: un masso cadendo gli ha intrappolato l’avambraccio schiacciandolo contro la stretta parete rocciosa.

Solo con la sua videocamera, in un profondo e angusto canyon, senza viveri, senza che nessuno sappia dove si trovi e senza possibilità di comunicare con il resto del mondo, Aron per sopravvivere dovrà affrontare una drammatica prova…

Non è cosa da tutti costruire, su una situazione così scarna e sostanzialmente priva di vie di fuga, un lungometraggio che riesca a coinvolgere ed appassionare il disattento pubblico contemporaneo. Ancora meno comune e riuscire a fare delle mancanze implicite del plot il punto di forza dell’opera. Sia chiaro, quando si parla di mancanze e punti di forza si sta parlando di potenzialità a livello spettacolare, non di un giudizio estetico o morale sulla sceneggiatura.

Insomma, Boyle è riuscito a fare della prevedibilità degli sviluppi il cardine della tensione narrativa. Se lo spettatore non sapesse dal principio quello che inevitabilmente dovrà succedere, difficilmente riuscirebbe a reggere la visione di uno spazio-tempo così delimitato (anche nel titolo), così claustrofobico da risultare subito monotono. Dopotutto persino lo Tsukamoto di HAZE si è dovuto fermare al mediometraggio per ottenere il risultato che ha ottenuto. È proprio l’attesa dell’evento chiave, del sacrificio che il protagonista dovrà compiere per salvarsi la pelle che mantiene viva l’attenzione.

Lo spettatore soffre e gode con compassionevole sadismo, mentre Aron stesso (un bravo James Franco) ci concede come spettacolo la sua agonia, commentandola e mettendola in scena davanti alla sua videocamera. Aron deve pagare un prezzo per salvarsi la pelle certo, ma fuor di metafora è per noi spettatori-consumatori di torture porn che paga, filmando il proprio personale REAL.TV.

A differenza dell’idealista (ma altrettanto ingenuo) Alex Supertramp di INTO THE WILD, il protagonista di 127 HOURS non cerca la solitudine, non cerca se stesso, ma al contrario trova se stesso e si capisce per caso e suo malgrado, documentando il tutto per qualcuno che prima o poi vedrà i suoi video. Aron, come l’herzoghiano uomo dei grizzly, è sotto sotto un uomo di spettacolo.

Esso si circonda nelle sue allucinazioni di un pubblico che lo osservi, della propria famiglia, di lui stesso bambino: ed è grazie a questo che sopravvive prendendo il coraggio di fare quello che ha fatto. Il cerchio si chiude: Aron agisce grazie ad un pubblico che lo spinge (immaginario nella diegesi, reale nel momento in cui noi paghiamo il biglietto) ed il pubblico soffre e si diverte grazie ad Aron.

E allora via con una catena di dettagli iperrealisti, di eccessi visionari a volte crudelmente ironici: abbiamo pagato il biglietto e il regista non ha intenzione di deluderci. Per accontentare la nostra sete di estremo ci voleva un talentaccio, uno di quelli con lo stile videoclipparo e molti successi alle spalle, uno come Danny Boyle, uno che è riuscito a fare i miliardi rendendo appetibile lo sgradevole.

Alla luce di questo commercio continuo acquistano di senso anche le immagini della folla in split screen che aprono e chiudono 127 HOURS: esse, nell’economia del film, intrattengono costantemente un dialogo con il solo e unico protagonista dello show. Lo schermo multiplo lascia spazio all’immagine 1,85:1 tipica del cinema di Boyle per poi tornare a triplicarsi nel finale. La folla di vidoriana memoria, cambiati i tempi e gli stimoli, si avventa su Aron come un’orda di zombi per farlo a pezzi e portarsi a casa i propri souvenir.

Red HiLl

di Patrick Hughes

Australia 2010, 96'

 

Festa Mobile

24/30

Primo giorno di servizio a Red Hill per il nuovo arrivato Shane Cooper. Trasferitosi dalla città per permettere alla moglie incinta una vita più tranquilla, Shane dovrà subito confrontarsi con la durezza dello sceriffo locale e dei suoi deputies.

Quando l’evasione fortuita di Jimmy Conway, un aborigeno incarcerato per l’omicidio della moglie, getta nel panico la cittadina e le sue forze dell’ordine, Shane si ritrova solo a dover affrontare il detenuto, determinato a prendersi la sua vendetta. Con il volto ustionato ed un fucile a pompa l’uomo è pronto a fare una strage, tenendo la comunità sotto assedio.

Se non si fosse capito, quello di Hughes è un western. Non una rielaborazione, né una contaminazione o un omaggio, ma un western vero e proprio ambientato nell’Australia del 2010. E anche se RED HILL condivide con il poliziesco molti elementi, essi sono più un effetto collaterale che una scelta ricercata. Abbiamo un nativo incarcerato che tiene sotto assedio una cittadina coloniale per prendersi la sua vendetta, sceriffi a cavallo e duelli. Ci saranno anche le auto e i telefoni satellitari, ma sono così inessenziali ai fini dell’intrattenimento da non notarne la presenza.

Quella dell’esordiente Hughes è una storia già sentita e arcinota certo, ma proprio per questo è un piacere riascoltarla nella sua classica efficienza. È una storia d’onore, senso del dovere e giustizia, come nella miglior tradizione. Niente orpelli inutili o discorsi che appesantiscano la situazione, ma solo le buone vecchie dinamiche nate dallo scontro tra categorie elementari: dentro/fuori, giusto/sbagliato, coraggio/paura, individuo/comunità.

RED HILL è talmente classico negli sviluppi e nella messa in scena che risulta persino inutile e controproducente andare a cercare le citazioni (uno sport molto in voga): la cosa importante è entrare nella narrazione, sentirsi bambini di fronte al grande schermo (davvero grande e imponente, come un Cinemascope degli anni Cinquanta) e provare per un’ora e mezzo la sensazione di essere come gli eroi delle mitologie, di cui il western appartiene sicuramente.

Se proprio bisogna trovare un difettuccio a questo notevolissimo esordio è l’insistenza con cui Hughes dichiara, quasi ad ogni scena, la sua intenzione di fare un western: è tutto talmente chiaro ed evidente dalla prima inquadratura che ogni ripetizione è assimilabile ad un leggero rumore di fondo. Un rumore di fondo che per qualche secondo ci potrebbe distrarre dalla tesissima narrazione e ricordarci che siamo in una sala cinematografica e non nelle pianure australiane.

A parte questo, siamo di fronte ad un’opera di splendida essenzialità ed economia narrativa, divertente, leggera e coinvolgente, qualcosa che riporta con la mente agli anni Settanta di DISTRETTO 13. Che Hughes sia il nuovo Carpenter australiano? Auguriamocelo e aspettiamo i prossimi lavori…

blessed events

di Isabelle Stever

Germania 2010, 91'

 

Concorso

22/30

La notte di capodanno Simone esce da sola. Ballando conosce un ragazzo, con il quale ha un rapporto sessuale. Mesi dopo, in ospedale per la sua gravidanza, incontra di nuovo il partner, che si prende subito le sue responsabilità e si dimostra desideroso di creare una famiglia con lei. I due iniziano una nuova vita insieme, in attesa del grande evento. Simone mette a posto la casa, Hannes accudisce i malati terminali in clinica.

Tuttavia la gravidanza di Simone prende una brutta piega man mano i dubbi sullo sconosciuto con cui vive divengono paranoia nella sua mente…

Il film della Stever procede per lunghe scene giustapposte, quasi statiche. L’oggetto dell’indagine è Simone, la sua solitudine e le conseguenze nel rapporto di coppia. L’attenzione verso Simone non è né morbosa né aggressiva, ma più che altro è l’espressione di uno sguardo attento che sa cogliere nelle piccole manifestazioni di isteria quotidiana i sintomi di ferite molto più grandi, ferite che per esperienza diretta tutti conosciamo.

Non c’è nulla di speciale in Simone. O forse è meglio riformulare: non c’è nulla di spettacolare, nel senso comune del termine, in Simone e nella sua gravidanza. Proprio per questo BLESSED EVENTS è una pellicola che colpirà proprio quegli spettatori che trovano di per sé stimolante il meccanismo della comunicazione tra esseri umani. Spettatori che trovano impressionante il modo in cui un’idea radicata nella mente possa scatenare dolori e paranoie intensissime in un corpo e in un anima fragili.

L’idea di non essere speciale, di non essere quella giusta per Hannes è il movente che scatena le piccole (dall’esterno) ma potenzialmente tragiche reazioni di Simone. Il pensiero di essere parte di un gioco, di un meccanismo (la relazione di coppia) in cui le parti non sono insostituibili (“una volta morti tutti i pesci, muore anche il mare?”) ferisce la debole autostima della donna fino al punto da mettere a repentaglio relazione e maternità. E non importa che tutto questo abbia o meno corrispondenza nel mondo reale, perché il dolore è sempre reale, sia esso fondato o meno.

Con la sua discrezione BLESSED EVENTS muove a compassione, spinge a rivivere in se stessi quelle paure che tutti prima o poi abbiamo provato: la paura di invecchiare soli, di perdere la persona amata, di non avere nessuno al di fuori di se stessi (ma dentro Simone c’è una vita che sta per nascere…e questo farà la differenza).

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28.ma edizione

Torino, 26 novembre / 04 dicembre 2010