xiii torino film festival

11/19:11:2005

torino

 

di Stella GIGLI e Marco GROSOLI

PER SEMPRE

di Alina Marazzi

Italia, 2005, 52'

Doc 2005 Concorso

 

Cosa c'è dietro a una scelta radicale, totale (forse mai come oggi dove maggiori sarebbero le spinte contrarie) come quella di farsi monaca?
Alina Marazzi prosegue il suo interessante, e originale (dato il non esaltante contesto documentaristico nazionale) approccio ai materiali di repertorio, dimostrato col precedente Un'ora sola ti vorrei. In verità, rispetto a quel film essi (pur essendo strutturalmente indispensabili, e si vede p. es. da come vengono trattate le fotografie) perché i propositi sono diversi: si è dato evidentemente maggior peso agli interventi diretti delle monache. La Marazzi indovina la distanza giusta rispetto alla quale lasciar parlare le dirette interessate, e la sua impronta discorsiva (in senso lato, filmico) forte si impone non per violare il discorso degli altri, ma per costruirgli una consistenza autonoma di rilievo.
Dopo l'esordio prorompente, insomma, è stato giusto "abbassare" (relativamente) le ambizioni per mirare alla funzionalità pratica del proprio progetto espressivo

Voto: 26/30

RIA FORMOSA

di Joao Botelho

Portogallo, 2005, 53'

Detours

 

Botelho è un maestro di formalismo. Non in senso deteriore, sia chiaro: piuttosto nel senso che in ogni sua inquadratura è avvertibile una ("portoghese") cura assoluta per i valori pittorici e plastici della composizione del quadro, e della luce. Con "Ria Formosa" Botelho gioca in trasferta; ovvero, traspone nel "documentario" (sulla regione lusitana che dà il titolo al film) la sua meticolosa prassi stilistica. L'effetto è volutamente spiazzante (tanto più che viene impiegato l'"antipittorico" digitale), la ragione è la solita: ribadire per la millesima volta il sacrocanto assioma moderno "non esiste documentario": più si finge l'aderenza alla realtà, più è necessaria la rielaborazione formale.
Tant'è che il pretesto che regge il film è apertamente didattico: all'inizio, una madre legge al figlio piccolo una lettera di Seneca che fa l'elogio del saper leggere e scrivere - da lì in poi sarà tutta un'educazione al vedere, un'illustrazione dei luoghi di Ria Formosa con un'evidente, e esibito, occhio pittorico (prima ancora che fotografico). La differenza principale rispetto operazioni analoghe (tipo Joris Ivens) è che è il montaggio a sacrificarsi al quadro, e non viceversa. L'autore stesso definisce il suo un progetto di limitate ambizioni; vero, ma gli va riconosciuto che il respiro dell'occhio che cerca caparbiamente finisce per trovarlo.
Voto: 26/30

RIO DE JANEIRO

di Mauro Santini

Italia, 2005, 33'

Detours

 

Scorsi, vaghi paesaggi, dettagli di Rio, immersi in una rumoristica di fondo crepuscolare e evocativa, in luci sfuocate, in un'insistita indefinitezza dell'immagine. A fare da contrappunto, una donna sconosciuta spiata dalla finestra. L'immagine, come quella donna, sarebbe una sorta di oggetto utopico e irraggiungibile, che sfugge sempre e di cui si possono conservare solo echi lontani, pallidi riflessi, ricordi. Non è tra i modi migliori di affrontare l'immagine (pur rimanendo lodevole, ancorché ovvio, l'accurato evitare qualunque cliché "Carioca"), e nemmeno lo stile con cui ci si è provato è dei più originali. Sperimentalismo volenteroso ma arido, di respiro limitato.
Voto: 23/30

KAGE / SHADOW

di Kawase Naomi

Giappone, 2004, 26'

Detours

 

Molti cortometraggi autobiografici di Kawase Naomi vertono sulla figura traumaticamente assente del (suo) padre. Qui, il suo solito incessante rivoltarsi l'uno sull'altro di assenza e presenza, visibile e invisibile, grandiosamente esemplificato nel lungometraggio "Shara", trova la sua declinazione forse estrema: un attore che interpreta suo padre gli piomba in casa, gli rivela che è suo padre, e la riprende con una videocamera (a propria volta reinquadrata da una camera imprecisata). Ancora una volta Kawase riesce a fare della semplice, tangibile presenza della macchina da presa, il segno impalpabile ma inequivocabile del peso che l'invisibile fa gravare sul visibile. Il suo pianto, lungo, diametralmente opposto allo snuff à la "Carràmba che sorpresa", tutto l'ingombro inverosimile della situazione a sua modo "estrema", arrestata con cura a un passo dall'"oscenità", si ribaltano con tale naturalezza nell'assenza, nella stasi pacificata dei piani fissi sulla stanza da letto vuota, sui rami scossi dal vento, che interrompono la scena "madre" (o meglio... "padre"). E così, il miracolo del cinema di Kawase si compie ancora.
Voto: 27/30

WALK THE LINE

di James Mangold

USA, 2005, 135'

Americana

 

La vita di Johnny Cash, secondo le sue autobiografie. E siccome Mangold ha polso, l'accento è bruscamente riposto su due fatti specifici, la morte precoce del fratello (verso il quale non ha mai smesso di sentirsi colpevole e inferiore) e il tormentatissimo tira e molla amichevole prima e amoroso poi (con varie sfumature) con June Carter.
Due autentici punti cardinali della vita di Cash, l'uno (Walk the line lo mostra chiaramente) "l'altra faccia" dell'altro. Intorno, Mangold costruisce un biopic estremamente, efficacemente tradizionale. Una forma semplice come quella di una canzone: per una volta, questa non è una banalità, ma una scelta strutturale forte. Gli eventi, gli sconvolgimenti e le facce note (Jerry Lee Lewis, Elvis...) scivolano via, il film li liquida veloce in attesa di incagliarsi appassionatamente nei numeri canori live e nei tira e molla con June. Ovvero, i due presupposti fondanti del film, due binari paralleli il cui destino non potrà essere che l'unione. Una forma binaria che (come quella della canzone) anziché svilupparsi aspetta di venir chiarita a sé stessa grazie alla ripetizione: ecco perché il film non può che risolversi con la millesima proposta di matrimonio di Johnny a June , finalmente accettata perché compiuta sul palco durante un concerto. Due presupposti impliciti il cui destino è rendersi espliciti incrociandosi, come un ritornello che assume senso sporcandosi col resto della canzone grazie alla ripetizione. Solo così la linea on-the-road di "Walk the Line", hit di Cash che letteralmente vuol dire "rigare diritto", può raggiungere la circolarità che è il segno di ogni destino, può sfumare nel cerchio dell'altro suo hit che è "Ring of Fire". Non le chiacchiere psicologizzanti del biopic deteriore alla Tu chiamami Peter, ma una forma che si chiarisce a sé stessa.
Voto: 28/30

YUDA

di Zeze Takahisa

Giappone, 2004, 113'

Detours

 

Un regista vaga in cerca di soggetti, si imbatte in una ragazza mascolina (o viceversa) che verrà trovata morta con la sua videocamera. Una donna gli racconterà i suoi ultimi giorni.
I maligni lo vedranno come un Wenders fuori tempo massimo, ma non è così. Storie che si gemmano in sottostorie che finiscono per non avere nulla in comune l'una con l'altra ma rimangono legate da strane analogie sotterranee. Non un alambicco testuale accademico e decadente, ma una vitale disillusione sulla leggerezza del digitale, che qui cozza impotente con l'irrimediabile alterità di qualunque storia rispetto alla propria. La soggettiva del regista munito di videocamera, che imperversa nella prima parte sovrapposta alla sua voce over, diventa così all'ombra del successivo labirinto narrativo una dichiarazione di solitudine autentica, e non una scimmiottatura di Wong Kar-Wai. Perciò, anziché il nucleo centrale del plot, ovvero il viaggio della donna e del ragazzo/a, gravido di impacciati riferimenti allegorici o quasi (come spesso si nota, e invero spesso si perdona, nei film giapponesi), conta il vano rincorrersi delle storie, l'incappare in un punto morto (l'arrivo della polizia, l'omicidio del ragazzo/a) che ferma tutto, e il ripartire dallo stesso punto di partenza (ovvero, ogni volta, il regista che con la soggettiva della sua videocamera sprofonda nel caos metropolitano tra mille imprecisate storie embrionali). E soprattutto, anche perché la donna è per il regista un palese sostituto dell'irrecuperabile ragazzo/a morto/a, il non fermarsi davanti all'inevitabile sostituzione di una storia col suo simulacro, non arrendersi ai limiti che cosituiscono il visibile, continuare e correre e a buttarsi con buona pace del (e non "grazie al") digitale.
Voto: 27/30

BAB'AZIZ

di Nacer Khemir

Tunisia, 2005, 98'

Fuori Concorso

 

Una bambina accompagna un anziano derviscio a una riunione di dervisci in mezzo al deserto. Nel frattempo, fanno molti incontri e deviazioni inattese.
Prendete La via lattea di Bunuel, togliete i mille doppifondi cattolici che il genio spagnolo non ha mai cessato di nascondere malignamente ovunque, e infondete a vari livelli abbondanti quantità di cultura islamica (di cui il regista, artista poliedrico, è da tempo un esponente tra i più alti e riconosciuti). Bab'Aziz non è molto di più. Meno visionario e misterioro, più esplicito e programmatico rispetto al suo Les Baliseurs du desert, film che ha reso celebre Khemir, passato spesso a Fuori Orario, porta comunque avanti un'idea di cinema coerente. Bab'Aziz è infatti un film assolutamente aforistico, divagante e frammentario, un prolungarsi di linee narrative e visive molto libero. I piani sembrano succedersi in modo aereo, soavemente privo di spazio, e Khemir è un maestro ad usare l'ambiente del deserto come supporto necessario di un simile impianto spaziale. Un susseguirsi di parabole che sono un sovrano arrendersi all'onnipotenza dell'invisibile. Dell'amore, come nel caso del cantante, o della morte, come per il derviscio protagonista. Il film, apertamente "sufi", gira su sé stesso, sicuro che la dispersione è il modo più rettilineo per raggiungere il divino
Voto: 26/30

SOUND BARRIER

di Amir Naderi

USA, 110'

Americana

 

Un bambino sordomuto cerca la registrazione dell'ultima puntata di uno show radiofonico condotto da sua madre (morta). In quella cassetta è raccontata l'origine del suo trauma.
Inizia così una furibonda, maniacale ricerca cui lo spettatore partecipa da molto vicino, quasi si mettesse fisicamente a scavare e indagare insieme al suo protagonista.
Come per i precedenti film, culminanti nel più recente Marathon, Naderi si dimostra ossessionato dalla forma filmica elementare, dalla costruzione dello spazio cinematograficamente "attivo" data dal semplice affiancamento di inquadrature. Una sorta di alfabetizzazione sensoriale in cui il soggetto (cinematografico) si autocostituisce mediante il suo orientamento "qui e ora" con l'esterno. Solo che qui questa dimensione prettamente spaziale affronta il suo inevitabile limite, ovvero ciò che non ha spazio: il suono. Proprio la sordità del protagonista chiarisce le cose: le sue "soggettive sonore" ci fanno sentire un gorgoglio informe, un quid sonoro anteriore al senso, dunque ancora più orfano dello spazio.
Passiamo un'ora buona in compagnia del bambino che scaravolta migliaia di cassette in cerca di quella giusta. Intanto, un immenso lavoro di effetti sonori trasforma la rappresentazione visiva dell'azione e del movimento del personaggio, sempre più veloce, in rumore fine a sé stesso.
Perché? Perché sarà proprio l'indistizione dell'entropia sonora a permettere al protagonista di riacquistare l'udito, di ricominciare a orientarsi (criterio spaziale) nel non-spazio del suono. Infatti la sua sordità viene dal trauma della perdita del padre in un incidente stradale, trauma superato nel finale quando si trova immerso nella medesima situazione, ovvero nel momento in cui, fatta a pezzi l'inservibile cassetta decisiva (perché la registrazione si interrompeva sul più bello: ovvero, perché lo spazio ha raggiunto il suo inevitabile limite), il bambino si trova in mezzo alla strada tra camion e macchine assordanti.
Naderi insomma all'inizio col suo montaggio furibondo e rigorosissimo, postvertoviano, ci immerge nell'alfabetizzazione filmica; poi spinge sull'acceleratore fino a raggiungere il contrario (apparente) dello spazio, cioè il tempo, nella forma bruta e non spazializzata del rumore. Ma proprio questo non-spazio che è il rumore permette nuovamente un'alfabetizzazione, una costruzione orientativo-sensoriale del senso, solo stavolta la "dominante" non è più visiva-spaziale ma uditiva, al di là dello spazio: il film finisce col protagonista che produce rumori su una parete per reimparare a riconoscerli, e Naderi ce lo filma quasi senza stacchi: lo spazio si è aperto al di là del suo limite.
Un'alfabetizzazione dunque paradossale, su uno spazio che non è spazio. Ma che lo spazio "non è" spazio Naderi ce l'aveva detto subito: la prima inquadratura è quella di un occhio su cui si riflette ciò che l'occhio vede - ovvero, un occhio che letteralmente scioglie la spazialità concreta di ciò che vede nell'indistizione acquosa della sua superficie.
Voto: 30/30

L'AVION

di Cedric Kahn

Francia, 2005, 100'

Fuori Concorso

 

Un bambino riceve dal padre pilota e ingegnere aeronautico il regalo di natale sbagliato: un modellino di aereo. Morto il padre, questo si mette a volare davvero. Non è magia, ci mancherebbe, è che il padre, scenziato geniale, aveva trovato in Egitto il materiale più leggero e resistente del mondo.
Si sente, nello script, l'infelice zampino di Gilles Marchand, sceneggiatore appassionato di infarciture psicanalitiche piuttosto scontate. Perciò, come insegna il migliore cinema americano fino a Spielberg (Shyamalan troverà il modo di andare molto oltre), la manifestazione pura del soprannaturale è la sostituzione del Padre Assente. Kahn, da parte sua, avrebbe potuto dire la sua con autorevolezza, sulla carta: in tutti i suoi film precedenti è ben riuscito a raffigurare l'ossessività dei suoi protagonisti mediante, in questa o quella forma specifica, l'ottusità del movimento.
Ma l'aereo del bambino è troppo poco ottuso, ha studiato troppo, troppi bignami di sceneggiatura pseudofreudiani. Kahn vorrebbe accontentarsi dell'ambiguità della situazione, di renderci indecisi davanti a scienza e "fede" (si fa per dire), ma la loro riconciliazione è troppo facile (indovinate un po': grazie alla madre). A Kahn manca inoltre anche il coraggio sufficiente a far scivolare l'interezza del racconto nell'ossessività - l'intenzione d'altra parte era evidentemente questa, il progressivo impazzire del collega scienziato del padre serve proprio a sfumare, come da manualetto, il solito confine scienza-fede.
Rimane l'ammirevole secchezza della sua prosa, ma stavolta è banalmente funzionale a un discorsetto già sentito, e solo qua e là, debolmente, riesce a far trasparire la consistenza "folle", infrangibile, dell'ossessione.
Voto: 24/30
 

PROGRAMMA SHORTS ABOUT LOVE

Nei suoi quattro “Shorts about love”, James Lee, autore malesiano, traccia con stili diversi e disomogenei e uno sguardo malinconicamente distaccato, la noia, i tempi morti e la quotidianità vissuta dai protagonisti delle proprie storie d’amore.
Con l’incipit Goodbye to love, che assomiglia più a una riflessione finale, più astratta e sperimentale, Lee dipinge con inquadrature fisse e movimenti di macchina lentissimi, ciò che sembra assomigliare a un triangolo da cui il protagonista si sente escluso; tuttavia, a questo livello è difficile dare un’interpretazione che non vada oltre la semplice suggestione, poiché siamo già al confine con la videoart.
A moment of love analizza i piccoli drammi quotidiani della convivenza: lui è sempre a casa, ma si dimentica di pagare le bollette e di comprare la carta igienica, lei lo rimprovera. Qui prevale lo squallore estetico e formale, che fa un po’ del corto un piccolo melodramma home-made, dove però non è chiaro fino a che punto l’effetto sia voluto, oppure se le condizioni di scarsezza produttiva abbiano influito sullo stile dell’opera.
Segue Bernafas Dalam Lumpur, un racconto sul destino tragico di un uomo appena uscito di prigione. Il colpo di scena tiene in vita la tensione, ma esteticamente passa inosservato.
Sometimes love is beautiful è una parabola sull’amore e l’ambigua amicizia che lega due ragazzine di periferia. Anche qui l’autore analizza i piccoli drammi della quotidianità, i silenzi, sguardi, gesti e parole.
Anche se soprattutto in quest’ultimo corto appare una certa ricerca sull’inquadratura e sui movimenti di macchina, il corpus dei quattro lavori non lascia certo col fiato sospeso: il suo sguardo sul reale attraverso tematiche alquanto stantìe non riesce a restituire un dibattito o un percorso critico da analizzare, purtroppo ci troviamo davanti a una ricerca che ha ancora da compiersi.

VOTO: 18/30
 

ANAK NG TINAPA / SOMETHING FISHY

di Jon Red
Filippine, 2005, 68'

Detours

Due poliziotti disonesti nascondono droghe illegali addosso a poveri sfortunati e si divertono a incastrarli. Ma a loro insaputa un gruppo di folli e ambiziosi studenti di cinema li sta spiando, documentando ogni loro mossa.
La storia del pesce piccolo che, in una società di squali, invece di incastrare il pesce grosso si accanisce sui pesci ancora più piccoli.
Questa è insomma, la metafora che sta alla base del film, oltre al gioco di parole in inglese sull’aggettivo “fishy”, composto dalla radice “fish”, pesce, ma porta il significato di “losco, sospetto”.
Insistendo sul parallelismo ittico, poi incontreremo un venditore ambulante di “fish crackers”, e il ragazzo mandato come esca per i poliziotti indosserà una maglietta con una lisca di pesce, come a dire, che ormai il suo destino è segnato.
In tre stili diversi, tra crime movie, sit-com e documentario, è stato girato in tre giorni con una concessione produttiva di 1000 dollari.
L’utilizzo del triplo registro è gestito in modo goffo e stentato, risulta difficile da digerire per un prodotto tutto sommato amatoriale, che con un apologo semplicistico sul potere vorrebbe attribuire caratteristiche universali alla piccola porzione di realtà analizzata.
Come dire, che dal comportamento del pesce piccolo, si può capire il mare intero.

VOTO: 20/30


17-SAI NO FÛKEI - SHÔNEN WA NANI O MITA NO KA / CYCLES CHRONICLE
di Wakamatsu Koji
Giappone, 2004, 90´
Fuori Concorso

 

Un diciassettenne uccide la madre e scappa in bicicletta tra le montagne giapponesi. Incontra un paio di anziani, si ferma a parlare con loro. E basta.

Sì: e basta. Tutto qua. Un'ora e mezza di pedalate e paesaggi. In un festival come questo che si chiama "cinema giovani", era inevitabile che la più bella lezione di freschezza e di innocenza ce la desse proprio questo grande veterano del cinema nipponico, con moltissimi film all'attivo. Come in Una storia vera di David Lynch, ma in modo al contempo più solare e più disperato, un road movie che è azzeramento del soggetto e immersione totale, a peso morto, nel mondo. L'uso intensivo delle dissolvenze tende ad annullare la gerarchia tra le inquadrature, e allo stesso modo i materiali che compongono il film sono appianati orizzontalmente: i paesaggi, il protagonista in bicicletta (il cui volto che guarda viene spesso inquadrato dalla macchina da presa in movimento, in modo da togliere rigidità alla soggettiva e fare del personaggio più paesaggio lui stesso che mediazione visiva con lo spettatore), i flashback sulla madre, eccetera. Perché? Perché, come si dice all'inizio del film, "siamo tutti solo un paesaggio": anziché uno sguardo soggettivo che organizza dei materiali (per esempio in una narrazione), uno sguardo che è esso stesso paesaggio, diapositiva di uno slide show verso cui non abbiamo nessun controllo. Questa è, infatti, anche l'impressione che si ricava dai racconti dei due anziani, che narrano l'impotenza allibita di essere sballottati dalla storia, dal cambiamento che ci determina ma, paradossalmente, non sembra riguardarci. Passività zen di essere immagine tra le immagini, immersi in un flusso in movimento, placido ma inarrestabile, che non ci appartiene.
Voto: 29/30

LE DOMAINE PERDU
di Raoul Ruiz
Francia/Romania/Spagna/Italia, 2004,106´
Fuori Concorso

 

Cile. Durante la seconda guerra mondiale, un bambino riceve la visita di un pilota atterrato per caso lì poco distante. Questa figura lo affascinerà per tutta la vita, in cui diventerà a propria volta pilota. Naturalmente, trattandosi di un film di Ruiz, questo non è che il punto di partenza di tutta una serie di sdoppiamenti, parallelismi, specularità, paradossi temporali, scherzi del destino e della memoria, simbologie, divagazioni bizzarre, accumuli vertiginosi di livelli di senso. Come al solito, Ruiz lavora su composizioni figurative sì complesse, ma soprattutto sempre sul punto di sciogliersi, sempre colte un attimo prima che il tempo le trasformi in qualche altra immagine. Questo cogliere "un attimo prima" si manifesta rappresentando direttamente il tempo, tramite l'uso palpabile e continuo del movimento della macchina da presa. Quasi una incarnazione del cinema stesso inteso come potenza attiva e concreta del cambiamento. Ovvero, tradotto in termini bergsoniani (e quindi proustiani, essendo Proust uno dei numi più evidenti del cileno): il tempo (il cinema) come memoria che continuamente ricrea sé stessa, ad ogni istante. Per questo, verso la fine, c'è lo sguardo in soggettiva di un'aquila che vola: la macchina da presa per Ruiz è proprio questo movimento concretissimo disgregante "assoluto" che è tuttuno con la memoria, e dunque non può che essere motore di tutta una serie di smottamenti e paradossi temporali che stritolano il mondo in una ragnatela infinita di allusioni e convergenze di senso. Convergenze infinite, che quindi non si toccano mai, come i due protagonisti e le loro storie incrociate di padri e figli (veri o putativi che siano) che non riescono mai a reincontrarsi, e che quando lo fanno riescono solo a schizzare via e ripetere sempre la stessa, problematica scissione, che finisce (nella più importante tra le analogie incrociate intrecciate da Ruiz) per essere la stessa (altrettanto paradossale) tra chi racconta e chi è mero spettatore.
Voto: 28/30

LOFT
di Kurosawa Kiyoshi
Giappone, 2005, 115´
Fuori Concorso

 

Una scrittrice affitta un casolare di campagna. Il suo vicino, antropologo, tiene una mummia trovata in una palude lì vicino. Lo spirito della mummia si reincarnerà nel corpo di una ragazza uccisa dall'editore della protagonista, ex inquilina del casolare.
Loft senza dubbio deluderà i fan del Kurosawa Kiyoshi che ha rivoluzionato l'horror. Ma è comunque un capolavoro. I materiali di genere sono qui come suo solito utilizzati in senso "teorico", spericolatamente concettuale, ma stavolta molto oltre le strutture di genere, ormai frantumate per fare spazio a un discorso diverso, incredibilmente ambizioso. Se gli horror gravitanti intorno a morti viventi e simili lavorano innanzitutto sulla (im)possibilità di tracciare un confine tra vita e morte, Loft dichiara impossibile non solo la tracciabilità del confine ma anche la sua stessa pensabilità. Perché l'immagine non può costitutivamente rappresentare quel confine: la protagonista si imbatte in un filmino degli anni venti che inquadra la mummia per dieci secondi di tre diversi giorni; si intuisce che essa si è mossa, ma tale movimento non viene percepito e rappresentato effettivamente dall'occhio della macchina da presa. E ugualmente, il gioco ingannevole di flashback "reticenti" dell'ultima parte del film che esprimono l'impossibilità dell'antropologo di ricordare effettivamente che fine ha fatto fare al cadavere della ragazza. Due esempi dell'inevitabile insufficienza dell'immagine di trattare il confine tra vita e morte, ovvero il confine per eccellenza: l'immagine è condannata a un "resto" che non può rappresentare.
Perciò la scrittrice ha solo in sogno l'immagine della verità finale, ovvero del fatto che sia stato il vicino a occultare il cadavere della ragazza nella palude: da sveglia ha solo un vano presagio (la carrucola ai piedi della palude che si muove) che non può aiutare l'antropologo nella ricerca della sua traumatica verità.
Il tentativo tragico da parte dell'immagine di cogliere, e dunque esorcizzare, il confine tra vita e morte, si congiunge all'altro tema fondante del film, ovvero la bellezza, intesa come volontà disperata di fermare il tempo, impedire la sua corsa verso la morte. Senonché, questo tentativo è paradossalmente la morte stessa: la mummia era una donna di mille anni fa morta per aver ingoiato troppo fango, cosa che, dicono, serviva a conservare il proprio aspetto fisico giovanile - e la protagonista ogni volta che si strucca allo specchio vomita misteriosamente fango. E soprattutto, quando la scrittrice scrive il suo libro copiando le bozze della ragazza morta, lo spirito di questa la ossessiona: la bellezza, come l'immagine, è intrinsecamente insufficiente e porta inevitabilmente a un "resto" che non si può controllare. Bellezza e immagine, destinate entrambe alla sconfitta, si riuniscono nella tragicità dei loro esiti: la storia d'amore che scrive la scrittrice si materializzerà nella naiveté sentimentale dell'unione tra lei e l'antropologo. Lui, con alle spalle tutti i violini del caso, dice a lei di averlo salvato dall'incubo dell'illusione dei morti viventi, ma questo, e l'impossibilità del suo ricordo (ovvero dell'immagine) a dar conto della cosa
lo porterà alla morte.
Kurosawa costringe l'immagine al suo auto-da-fé, oltrepassa il lavoro di Kairo sulla presenza fisica umana come appendice misteriosa del vuoto, complementandola con una presenza più esplicitamente impalpabile, non umana, relegata allusivamente allo sfondo. Una lampadina che si illumina sempre di più e scoppia, cambiamenti repentini di luce, sfoghi atmosferici imprevisti.
Il confine tra nulla e materia, smarcatosi così dalla categoria della "presenza" (concreta, umana), si fa così sempre più vischioso (perché appunto è l'immagine stessa a risentire nel suo status di questa vischiosità), e il confine vita-morte si fa definitivamente problematico: i personaggi affrontano i non-morti nella propria inquadratura, e i vivi (il truce editore della protagonista) con un intricato "nascondino" con il fuori campo visivo.
Voto: 30/30

SOLNZE / THE SUN
di Aleksandr Sokurov
Russia/Italia/Francia, 2004, 110´
Fuori Concorso

 

Hirohito alla fine della guerra, nei giorni precedenti l'epocale decisione di rinunciare all'essere considerato una divinità concessogli dal suo status di imperatore.
Sokurov prosegue l'usuale dissoluzione della geometria (qui presente anche in veste di rituale giapponese di corte) oltre la pittura, oltre il colore (strordinario peraltro), oltre il visibile, regalandoci il contatto diretto, tattile in senso addirittura letterale, con la materia informe di cui è fatta l'immagine, con la sua grana più molle e indistruttibile. La consistenza impalpabile della materia, fumosa, nebulosa, estranea a qualunque determinazione rigida vettoriale. Ovvero, estranea al potere, come ne è estraneo Hirohito, che si scopre insieme al generale McArthur semplice pedina impotente della Storia, "divinità" che anziché sguazzare nell'onnipotenza si trastulla con le "buone cose di pessimo gusto" di gozzaniana memoria, con le foto degli attori di Hollywood, con lo studio della fauna ittica al microscopio, con la superficie nel senso più ampio del termine. Per questo il momento in cui più lo vediamo impegnato in un'attività di sintesi, ovvero la scrittura, è estenuata, sempre interrotta, ostacolata dalle visioni (straordiaria l'allucinazione in digitale del bombrdamento della città coi pesci volanti), dai ricordi, dalle esitazioni. Tutto si sfalda, e come Hirohito siamo condannati a un'ottusa innocenza, annaspiamo sulla superficie alla ricerca di nemmeno si sa cosa, di un attimo di bellezza forse: e quindi il momento dell'arrivo degli americani si blocca, gli viene invitato il centro dell'inquadratura e della nostra attenzione in favore di un imprevedibile uccello del paradiso che si trova lì nel cortile. L'apocalisse ha se non altro il merito di regalarci l'umanità, e perfino l'ex-dio Hirohito può così trasformarsi in Charlie Chaplin.
Voto: 29/30

TIAN BIAN YI DUO YUN / THE WAYWARD CLOUD
di Tsai Ming-Liang
Francia/Taiwan, 2004, 112´
Fuori Concorso

 

L'eterno protagonista dei film di Tsai, Hsiao-Kang, ora attore pornografico, incontra la ragazza amata a distanza in Che ora è laggiù. La situazione si ribalta, e la loro vicinanza diventa assoluta, pornografica anch'essa.
Intanto, a Taiwan c'è una grave siccità.
La nuvola capricciosa ricorda the Hole per essere sovente interrotto da compiaciutamente assurdi siparietti musicali. Ma va molto oltre. La sfacciata gratuità di questi numeri si lega con l'assoluta, insistita gratuità di molte delle azioni dei personaggi, e soprattutto con la peculiare gratuità del pornografico. Ovvero: è da sempre connaturata al porno una certa idea di spreco (e infatti Hsiao-Kang gira filmini porno dove l'attrazione principale è il fatto che gli attori vengono bagnati con l'acqua che data la siccità che intanto dilaga a Taiwan diventa un bene di lusso - ugualmente, la collega giapponese viene filmata che si masturba con una bottiglietta d'acqua), l'idea che i corpi impiegati siano una specie di surplus di loro stessi, un supporto visibile quanto superfluo dell'atto che inscenano, il quale è invece invisibile e irrappresentabile anche quando tecnicamente si vede tutto (per esempio, la scena iniziale con l'assurda masturbazione dell'anguria che sostituisce la vagina). Quindi Tsai per tutto il film sembra galleggiare impunito e ridacchiante nella gratuità, costruendoci su un filmino simpatico e per pubblici radical standard. Alla fine però "si redime", stravolge il proprio assunto e supera il proprio stesso cinema. La protagonista trova l'attrice giapponese morta: ecco che il corpo diventa davvero un supporto superfluo, non ci si scherza più sopra, diventa davvero qualcosa di inaffrontabile. Ma la troupe di Hsiao-Kang la utilizza per un filmino necrofilo: metafora perfetta del film fino a quel momento, compiacentesi dell'improponibilità del proprio sguardo rispetto al proprio oggetto.
Quest'improponibilità sembra manifestarsi direttamente nel disgusto della protagonista che spia la scena da una finestrella. Sembra, ma non è, perché, solo guardando, la ragazza viene, e Hsiao-Kang viene anche lui, appena dopo essere balzato fuori dalla morta per approfittare del sesso orale con la compagna dalla finestrella. Lunga inquadratura di lei con gli occhi attaccati al pube di lui: il corpo non è più il resto superfluo e masturbatorio dello sguardo, ma, proprio perché irriducibile allo sguardo, è lo sguardo stesso che diventa corpo. Il corpo, tramite il proprio eccesso, si rende inaffrontabile, portando così a coincidere per puro paradosso corpo e sguardo. Il corpo non è più ciò che sta oltre lo sguardo ma è lo sguardo stesso. La differenza assoluta, cioè la morte, elimina la differenza tra corpo e sguardo, elimina l'eccesso reciproco che li separava.

DIGITAL SHORT FILMS BY THREE FILMMAKERS 2005
di Apichatpong Weerasethakul, Tsukamoto Shinya e Song Il-gon
Corea del Sud, 2005, 108´
Detours

 

Tre episodi da un regista cult giapponese, un giovane tailandese di eccellenti speranze e un coreano discontinuo.
Proprio quest'ultimo è quello che desta più perplessita. Il suo cortometraggio è ambientato in una baita montana dove due amici bevono insieme, la notte di capodanno. Varie storie si intrecceranno, quella di un ex monaco buddista che passa di lì, quella della ragazza di uno dei due che, così sembra, si è suicidata, e altre, intrecciate in modo da rendere indecidibile quale segmento appartenga al "gogno" e quale alla "realtà". Song desta qualche sospetto di accademia: mezz'ora e passa di pianosequenza, ok, è ammirevole, però il gioco di indecidibilità tra sogno e realtà (ipersottolineato oltre che dalla spezzettatura dei segmenti anche da vistose marche fotografiche) è piuttosto rigido. È tutto troppo scritto, un po' troppo tacciabile di teatralità. Però certo, tecnicamente tanto di cappello.

Weerasethekul invece gira un film nel film dentro l'ambiente tipico del suo cinema fino ad ora: la foresta (fittissima). Ma non è un giochino postmoderno, anzi: Weerasethekul cerca di scavalcare lo svelamento postmoderno dell'apparato finzionale lavorando di puro occhio, trovando coordinate figurative di folgorante immediatezza. Uno sguardo dove distanza significa innocenza, un'innocenza anteriore e impermeabile alle ciniche lusinghe del metacinema. Che pure è presente, ma è come surclassato dalla statuaria passione figurativa delle inquadrature.

Tsukamoto firma un autentico capolavoro. Un uomo apre gli occhi e si ritrova imprigionato in un labirintico cunicolo dove escono lame chiodi e altre trappole poco piacevoli. A un certo punto, gli balena un vago ricordo del modo esterno, un vago ricordo visivo di una figura femminile...
Impossibile non pensare a Carmelo Bene. L'unico altro cinema oltre al suo che (come questo corto esemplifica alla perfezione) come diceva Deleuze fa del
cinema una prigione del corpo, che lo frammenta incessantemente, e che fa dello sguardo il sintomo doloroso dell'estraneità tra corpo del soggetto e mondo esterno (infatti all'origine di tutto, come attesta il finale c'è l'incontro tra il soggetto e il suo Altro, ovvero, come sottoscriverebbe Bene, la donna). Un'estraneità che obbliga il corpo a scindersi nell'imprendibilità della voce. Appunto, a un certo punto Tsukamoto nel cunicolo si ferma, fa prendere il sopravvento alla voce dopo le mille atrocità subite, e irrompono dal nulla immagini totalmente slegate da quel set specifico (dunque prive di un "corpo" come la voce), e tutto questo ricorda molto da vicino l'instancabile lavorio sull'asincronismo vocale di Carmelo Bene. Un impossibile dialogo a due che è tra le cose più sorprendenti del cinema di oggi.
Voto: 27/30

MUSHI TACHI NO LE / HOUSE OF BUGS
di Kurosawa Kiyoshi
Giappone, 2005, 51´
Detours

 

Una coppia di coniugi confidano ognuno a un amico di sesso opposto una serie di preoccupazioni nei riguardi del compagno/a. Ma le due versioni non combaciano.
Kurosawa per questa parentesi video abbandona le rarefazioni estreme del suo cinema, accelera il montaggio, e affida tutto a un'impervia e audace costruzione strutturale. Infatti, ciò che rende interessante questo esperimento è che le visualizzazioni di ciò che dicono i due (perversamente intricate l'una dentro l'altra) non sono semplicemente divergenti, ma altresì convergono, e lo fanno nel modo più strano: ovvero ci sono un paio di passaggi che si ripetono in ambo le versioni identici, è letteralmente la medesima scena ripetuta al montaggio così com'è. Un'invenzione intelligente che prepara coerentemente il campo alla riconciliazione finale: le due "perversioni" diverse dei coniugi si scambieranno, l'uno prenderà il posto e la visione dell'altra e viceversa.
Voto: 27/30

DOMINION: PREQUEL TO THE EXORCIST
di Paul Schrader
USA, 2005, 117´
Americana

 

Padre Merrin, l'esorcista più famoso del mondo, prima di divenire tale era un archeologo spretato che decide di riprendere i voti per fronteggiare il diavolo in persona, sprigionatasi in una misteriosa cappella paleocristiana spuntata in africa fuori dalla sabbia.
Ci si aspettavano grandi cose da un testo denso di temi schraderiani, ma il risultato non è così entusiasmante. Solo a tratti si scorge quella che era destinata ad essere la chiave moral-figurativa del film: se il nazismo ("Non c'è più poesia dopo Auschwitz" si è detto), incarnazione del male radicale, ha sradicato le tenui frontiere tra il bene e il male rendendo quest'ultimo inevitabile (Padre Merrin costretto a sacrificare innocenti per il bene di altri), il nuovo discrimine sarà, a livello puramente formale-iconografico, tra l'ambiguità assoluta dell'immagine sacra (le vittime del diavolo uccise e sistemate in modo da riprodurre temi classici dell'iconografia cristiano, tipo il martirio di San Sebastiano) e il segno puro, vuoto, dell'armamentario cristiano tradizionale con cui Merrin ricaccia il diavolo. Più l'immagine acquista consistenza, più si avvicina al male: questo il segreto della bidimensionalità dell'arte palocristiana già rilevata da Schrader nel suo celebre libro "Lo stile trascendentale" e citata in questo film in svariati elementi architettonici. Forse per questo Schrader sceglie uno stile anodino, senza nerbo. O forse è semplicemente un problema strutturale del film. Che pure si guarda volentieri, ma ci si aspettava più polso da cotanto regista.
Voto: 26/30

GRIZZLY MAN
di Werner Herzog
USA/Canada, 2005, 103'
Americana

 

Timmy Treadwell era un giovane appassionato ambientalista che per svariati mesi all'anno studiava gli orsi in alaska a incredibile e pericolosissima vicinanza con loro. Ha sempre saputo che prima o poi uno di loro l'avrebbe mangiato, e così è stato. Timmy ci ha lasciato centinaia di ore di filmati che Herzog ha rimontato con interviste a chi gli stava vicino e altro.
Ennesimo capolavoro del regista che più di ogni altro ha saputo lavorare sui personaggi titanici, eccessivi - e più di ogni altro ha sempre lavorato sulla relazione tra tali personaggi e la propria smisurata ambizione. Herzog si confronta in questo film con un suo alter ego, con un'ossessione molto simile alla sua per il contatto con l'onnipotente Natura, senza contare che gli elogi che muove al suo istinto registico (saper aspettare che la natura si produca nelle meraviglie del caso...) sono i cardini del suo stesso cinema.
Come già testimoniava tra l'altro il suo sconvolgente documentario su Kinski (qui citato espressamente quando Treadwell si riprende in un furibondo "overacting" di svariati minuti con mille "fuck" lanciati contro tutto e tutti), la ricerca dell'estremo ha come limite inevitabile il Medesimo, lo Stesso: l'infinitamente lontano non può che coincidere con l'infinitamente vicino, ciò che sta proprio qui. In definitiva, Herzog stesso, lanciato verso i suoi doppi-simili, in un percorso che sembrava culminare con inski e invece trova qui uno sviluppo ulteriore, perché Timmy rispetto a Kinski è anche segnatamente diverso da Herzog, il quale dunque dopo essersi vertiginosamente avvicinato al proprio oggetto se ne scopre lontano. Come Timmy il cui contatto vicinissimo con la natura lo porta alla distruzione, varcare il confine porta alla morte, per questo Herzog dopo essere "diventato" l'uomo degli orsi, si tiene infine al di qua del confine, dice "Timmy credeva ingenuamente nell'armonia della natura, io no, io credo che tutto sia retto solo dal caos", la disarmonia si riproduce impietosa tra soggetto e oggetto nel momento stesso della loro apparente fusione. Nel momento, cioè, in cui Herzog fa suo il cinema istintivo e geniale di Treadwell, si appropria del materiale che ha girato, scompare dietro i video dell'ammiratissimo uomo degli orsi, scatta la separazione virtuale tra i due. E le immagini, da presa diretta sull'onnipotente divengono traccia impotente di ciò che sta senza rimedio al di là del confine, emanazione memoriale dall'oltretomba, come l'orologio (cui tanto spazio Herzog concede nel suo film) superstite della voracità dell'orso che ha fatto strage di Timmy.
Voto: 30/30

NO DIRECTION HOME: BOB DYLAN
di Martin Scorsese
USA, 2005, 201´
 

Questo documentario sugli esordi di Dylan fino a dopo l'incidente in moto del '66, comprende un momento topico della recente storia Americana: la gigantesca manifestazione a Washington del '63. Dylan c'era, ma sappiamo che c'era anche Forrest Gump. E non è un caso. Il ritratto del cantante che viene fuori dalle interviste, dai materiali di repertorio, dagli spezzoni live eccetera, certo risente molto del postindividualismo degli eroi scorsesiani, ma ha anche molto della vuotezza sublime dell'antieroe di Zemeckis. Tutto converge in questo film in direzione dello stralunato candore, dell'aria innocente di estraneità rivendicata dal personaggio-Dylan nei decenni. Bandiera della contestazione senza che ne avesse mai avuto l'aria che gliene fregasse qualcosa, arrivato al successo così, come per caso. Soprattutto, Scorsese si sofferma in modo interminabile sulle sue numerose influenze (di cui Woody Guthrie è solo la punta dell'iceberg), come a confermare il personaggio quale ricettacolo vuoto e vorace di impulsi dall'esterno, in maniera ancora curiosamente analoga a Gump. Tutto questo senza particolari ambizioni autoriali, se non con l'usuale, apprezzabile fiducia concitata nell'affastellarsi bulimico dei materiali (cosa che ha non poco a che vedere con lo stile dei suoi film "di finzione") già manifestata fra l'altro nel documentario sul blues.

OMAGGIO A ROGERIO SGANZERLA
 

Seconda parte dell'omaggio a questo regista brasiliano, dalla filmografia disparata e difficilmente recuperabile, wellesianamente disposta in mille rivoli e dalla collocazione sempre incerta, in progress. Il che calza a pennello a uno come Sganzerla ossessionato da Welles, come dimostra uno dei corti presentati quest'anno (Il linguaggio di Orson Welles).
Sem Essa Aranha, uno dei due lungometraggi presenti, confrontava un elementare teorema politico sul Brasile direttamente sul campo, sviluppandosi con pianisequenza in presa diretta girati sì nelle favelas ma non in senso pomposamente documentaristico, quanto per il gusto della sovrapposizione dissonante tra la messa in scena e la realtà cui, con volontario attrito, si riferisce. Un cinema vitale, scatenato, liberissimo, e tuttavia di immediata, istintiva plasticità figurativa. Lo stesso vale per Copacabana mon amour, l'altro lungometraggio, e in sostanza per gli altri film del periodo Bel Air, ovvero di quei pochi mesi in cui lui e Bressane nel 1970 formarono l'omonima casa di produzione indipendente che partorì 4-5 film in 2-3 mesi, documentati dal montaggio di spezzoni A miss e o dinosauro. Dopo questo periodo delirante, Sganzerla ha fatto (a parte le cose wellesiane viste a Torino l'anno scorso) soprattutto film su commissione, magari di qualche ente culturale, a scopo divulgativo (Viagem..., America), sempre audacemente lanciati in una cura estrema del rapporto tra il soggetto del film e i materiali più direttamente filmici come la luce o il paesaggio. Alcuni possono deludere (Perigo negro, Deuses no juruà che usa il video in modo un po' maldestro), ma sono sempre ammirevoli per la loro ambizione eccedente di molto il progetto in sé (appunto spesso commissionati). Spesso trattano di un personaggio (wellesianamente) eccessivo verso cui il regista vicino: è il caso di Informaçao Koellreuter, omaggio all'omonimo importatore in Brasile della dodecafonia musicale, che illustra e traspone filmicamente, con immagini anziché suoni, l'idea (dodecafonica) di prolungamento della libera combinatoria di strutture al di là dei limiti della presunta armonia.
Oppure, di Umbanda no Brasil, dove l'intervista ravvicinata all'esperto del soprannaturale popolare parareligioso Mata e Silva si fonde alle riprese di riti sciamanici "doppiati" da una macchina da presa che si lancia in percorsi visivi autonomi.


EBOLUSYON NG ISANG PAMILYANG PILIPINO / EVOLUTION OF A FILIPINO FAMILY
di Lav Diaz
Filippine, 2004, 643´
Focus Filippine

 

Film del genere convincono che i festival servono ancora a qualcosa. A far diventare un caso mondiale (prima a Toronto, poi a Rotterdam, a Torino e altrove) la storica impresa cinematografica di un cineasta che impiega 10 anni a costruire questo film epocale, bellissimo che dura quasi 11 ore.
Sedici anni in bianco e nero, dal 1971 al 1987, di storia di una famiglia filippina, e della parallela Storia con esse maiuscola: ovvero, dall'insediamento del dittatore Marcos alle manifestazioni popolari che hanno portato al premierato al suo posto Cory Aquino.

Annoso e spinosissimo problema: come portare la Storia sul grande schermo? Come intrecciarla con la storia minuscola? Lav Diaz sceglie di disperderla in livelli apertamente divergenti. Il film è suddivisibile, pur con una certa arbitrarietà, in quattro "strati" marcati esplicitamente da differenze figurative forti. Il "presente" diegetico situabile verso la fine dei sedici anni, girato in digitale con un respiro temporale profondo, un'immersione totale nel mondo rurale filippino raffigurato con un'occhio compositivo miracoloso, pressoché fordiano (alcune scene, come la morte della nonna durante l'aratura , sembra quasi vengano da Furore), un'attenzione e un'aderenza sconfinata e profonda verso l'ambiente che descrive. Il "passato" riferentesi ai primi anni dell'intervallo trattato, un bianco e nero contrastatissimo, ultraespressionista, bagliori di luce dolorosamente sottratti al buio, montaggio concitato, vario, di lirismo sincopato, elaborato. I materiali di repertorio della scottante attualità coeva. E infine l'elemento più apparentemente bizzarro: la visualizzazione delle registrazioni dei programmi radiofonici ascoltati dai protagonisti, principalmente radiodrammi, ma anche interviste a Lino Brocka, regista impegnato a fondo politicamente tra gli anni 70 e 80.

Proprio i melodrammi radiofonici ci forniscono una chiave importante. Il film di fatto abbonda di elementi melodrammatici classici: il giovane Reynaldo è un orfano costretto a una fuga senza fine, la madre adottiva tutt'a un tratto diventa cieca, suo fratello Kadyo è un bravo ragazzo che va in carcere per aver rubato armi "per una giusta causa" e anche dopo non riuscirà a uscire dal circolo di violenza cui è condannato. Il controcanto radiofonico, proprio in virtù della sua presenza concreta rappresentata dalle riprese degli attori che recitano davanti ai microfoni, indica chiaramente la più pregnante sostanza drammatica di Evolutions of a filipino family, il mood che abita alle sue radici, affinché il film possa, invece di svilupparlo in senso tradizionalmente drammaturgico, disperderlo. Perché disperderlo? Perché preoccuparsi di costruire un nucleo tragico se poi va disperso? Perché a Diaz non interessa comunicare il tragico, mira direttamente alla sua esperienza.

Conduce lo spettatore per mano a seguire la lancinante, lunghissima morte di Kadyo accoltellato che si trascina aon affanno per metri e metri e minuti e minuti. Rende il nucleo tragico, la visione pessimista (perché critica e rivoluzionaria) della Storia al cuore del progetto (infatti l'epilogo del film è la scena in cui la vera madre di Reynaldo lo abbandona appena nato: suggello finale, assoluto della negatività del destino), tutt'uno con l'esperienza del tempo. Seppellisce il melodramma dentro il pulsare del tempo. Rende il tempo l'incarnazione dell'entropia centrifuga generale della struttura del progetto (i quattro strati divergenti) e del contenuto stesso del plot (anziché riunirsi, le diramazioni della famiglia protagonista si separano a propria volta, tra morti e fughe di personaggi e incarcerazioni).
Solo questo movimento di caduta tragica accomuna storia e Storia; quando si uniscono, cioè nello strato al passato girato con luce contrastata, ci sono solo confusi e piccoli bagliori nel buio totale, nulla di più lontano dall'"azione dei personaggi", da una loro influenza attiva: i due livelli rimangono separati.
Ma quest'opera monumentale non è un elogio della rassegnazione. Nessun personaggio si arrende: il giovane cercatore d'oro scomparso trova il coraggio di assassinare tutti i suoi nemici, Reynaldo continua a viaggiare, le due sorelle, scomparsa la terza, e la nonna che si prendeva cura di loro, si dicono che qualunque scossone accada loro continueranno a vivere. La voce di un personaggio (mentre sullo schermo scorre una splendida soggettiva in movimento - la soggettiva è una figura stilistica usata spesso nei momenti chiave di questa pellicola, per incollare lo spettatore a ciò che si racconta senza la seduzione delle false e tiepide sirene dell'"identificazione", anzi buttandolo contro la realtà) dice "ti continuerò a cercare" riferito a uno dei tanti personaggi scomparsi del film. Il contrario della tipica rassegnazione filippina che Diaz rimprovera ai connazionali nelle interviste.
La prima e forse unica cosa da fare è guardare, guardare all'altezza della terra, ai ritmi di quella vita come il tempo (che è in sé tragico, come il film cerca di evidenziare in tutti questi modi) li dispone, i ritmi del lavoro, della quotidianità seguita nel suo dispiegarsi più minuto, interrotti (senza soluzioni drammaturgicamente lineari) da questo o quell'evento drammatico che vi si mescola senza preavviso. Guardare all'altezza della terra: pochi film come questo lo fanno con altrettanta sconvolgente efficacia.
Voto: 30/30 e lode

RETROSPETTIVA CLAUDE CHABROL
 

Da sempre si dice che i numi tutelari di Chabrol siano Lang e Hitchcock. E bisogna continuare a dirlo, perché è ancora vero, anche negli ultimi film, anche dopo quasi 50 anni dal suo esordio.
Tematicamente i riferimenti si sprecano. Lang: la vendetta, il feuilleton, il destino, il complotto stratificato. Hitchcock: l'omicidio, il matrimonio, il regista-dio onnipotente, la finta misoginia, l'instabilità del concetto di colpa. E così via fino alle minuzie, come l'ossessione chabroliana per la gastronomia, raffinatamente hitchcockiana. Stilisticamente, diciamo approssimativamente che la spazialità langhiana della messa in scena, la disposizione degli elementi in una spiccata rigidità significante, viene disciolta hitchcockianamente in movimenti di macchina ambiguamente allusivi, sempre in bilico tra l'allusione significante e un malizioso, subdolo naturalismo, tra la predisposizione e il caso. Scioglie il gioco hitchcockiano dei punti di vista soggettivo e oggettivo in un'unica indefinizione spaziale, un tappeto mobile sui cui galleggiano gli indizi che andranno a comporre (o fare finta di comporre) il quadro del racconto, evidenziando l'ambiguità del loro status, in cui l'allusione implicita e la manipolazione esplicita dello spettatore si confondono - Certo, una confusione di stampo hitchcockiana ma condotta attraverso strumenti langhiani (perché spazializzati uniformemente). Insomma la sua filmografia è una indefessa combinatoria di tutti questi elementi, un'esplorazione mai doma di tutte le possibili combinazioni di essi, condite con temi più riconoscibilmente chabroliani come la provincia o la borghesia. Esplorazione sempre appassionante, mai piatta o prevedibile. Chabrol ama confrontare un personaggio langhiano e uno hitchcockiano (come accade anche nell'ultimo La damigella d'onore, uno calcolatore e uno ipocrita (Il tagliagole o Stephane), il manipolatore e il manipolato (I fantasmi del cappellaio, I bellimbusti, I cugini), e puntualmente sconvolge, scambia o ribalta le carte in tavola.
Le geometrie langhiane del complotto trovano al loro limite estremo la gratuità: la razionalità totale dell'architetto Lang scopre al proprio cuore un fondo nero, irrazionale. In Profezia di un delitto Rochefort organizza un intricato piano omicida (senza uccidere di persona) così per gioco, in All'ombra del delitto il livido melodramma di inizio film si trasforma imprevedibilmente in un fascio di percorsi sconnessi e senza influenza reciproca, un motore narrativo che sceglie di girare a vuoto per puro gusto della sorpresa e dello spiazzamento. Tutti i suoi film spionistici (il ciclo della tigre, Criminal story, Sterminate gruppo zero) esasperano le contorsioni perverse del feuilleton spionistico fino ad arrivare a una grande leggerezza ludica. Il demiurgo aristocratico di I bellimbusti rovina meticolosamente vite e amori per vendicarsi di una puerile bravata adolescenziale. Anzi: Chabrol si diverte soprattutto ad affossare quelli che possono essere le incarnazioni di qualche principio organizzativo del suo caos non appena li fa maliziosamente venire a galla. In questo senso l'autore francese, incarnandosi come regista in personaggi del genere, tende più volte a sparire (dietro la storia, dietro a qualche automatismo autoriale - Chabrol ama il cinema americano classico e l'automatismo perfetto della sua macchina espressiva...): il protagonista di Ucciderò un uomo, con quel suo bloc-notes che gli serve a tenere il suo piano sotto controllo, ritorce la vendetta infine contro sé stesso, contro la falsità del proprio sentirsi estraneo ai peccati altrui, e decide di sparire in mare; in Dieci incredibili giorni Michel Piccoli detective improvvisato espia l'hybris di aver risolto il giallo in cui era implicato inventandosi una fantomatica coresponsabilità. E così via: ogni tentativo di emergere con forza al di sopra del quadro di forze del plot tende sempre a essere ricacciato nel deflusso infinito di variabili in cui si agitano le storie di Chabrol.
Ma è proprio questa impossibilità della totalizzazione (se non beffarda come per la statua finale di La damigella d'onore) a impedire a qualunque tentativo di analisi su questo corpus di chiudersi. I percorsi praticabili dentro l'intrico infinito che Chabrol compone di anno in anno, di film in film, si estende ben oltre questi esempi, lasciati aperti e irrisolti in modo curiosamente coerente con la sostanza pratica dell'universo chabroliano.

 

 

Torino, 20:11:05