
PER SEMPRE
di Alina Marazzi
Italia, 2005, 52'
Doc 2005 Concorso
Cosa c'è dietro a una scelta radicale, totale (forse mai come oggi dove
maggiori sarebbero le spinte contrarie) come quella di farsi monaca?
Alina Marazzi prosegue il suo interessante, e originale (dato il non
esaltante contesto documentaristico nazionale) approccio ai materiali di
repertorio, dimostrato col precedente
Un'ora sola ti vorrei. In verità,
rispetto a quel film essi (pur essendo strutturalmente indispensabili, e si
vede p. es. da come vengono trattate le fotografie) perché i propositi sono
diversi: si è dato evidentemente maggior peso agli interventi diretti delle
monache. La Marazzi indovina la distanza giusta rispetto alla quale lasciar
parlare le dirette interessate, e la sua impronta discorsiva (in senso lato,
filmico) forte si impone non per violare il discorso degli altri, ma per
costruirgli una consistenza autonoma di rilievo.
Dopo l'esordio prorompente, insomma, è stato giusto "abbassare"
(relativamente) le ambizioni per mirare alla funzionalità pratica del
proprio progetto espressivo
Voto: 26/30
RIA FORMOSA
di Joao Botelho
Portogallo, 2005, 53'
Detours
Botelho è un maestro di formalismo. Non in senso deteriore, sia chiaro:
piuttosto nel senso che in ogni sua inquadratura è avvertibile una
("portoghese") cura assoluta per i valori pittorici e plastici della
composizione del quadro, e della luce. Con "Ria Formosa" Botelho gioca in
trasferta; ovvero, traspone nel "documentario" (sulla regione lusitana che
dà il titolo al film) la sua meticolosa prassi stilistica. L'effetto è
volutamente spiazzante (tanto più che viene impiegato l'"antipittorico"
digitale), la ragione è la solita: ribadire per la millesima volta il
sacrocanto assioma moderno "non esiste documentario": più si finge
l'aderenza alla realtà, più è necessaria la rielaborazione formale.
Tant'è che il pretesto che regge il film è apertamente didattico:
all'inizio, una madre legge al figlio piccolo una lettera di Seneca che fa
l'elogio del saper leggere e scrivere - da lì in poi sarà tutta
un'educazione al vedere, un'illustrazione dei luoghi di Ria Formosa con
un'evidente, e esibito, occhio pittorico (prima ancora che fotografico). La
differenza principale rispetto operazioni analoghe (tipo Joris Ivens) è che
è il montaggio a sacrificarsi al quadro, e non viceversa. L'autore stesso
definisce il suo un progetto di limitate ambizioni; vero, ma gli va
riconosciuto che il respiro dell'occhio che cerca caparbiamente finisce per
trovarlo.
Voto: 26/30
RIO DE JANEIRO
di Mauro Santini
Italia, 2005, 33'
Detours
Scorsi, vaghi paesaggi, dettagli di Rio, immersi in una rumoristica di fondo
crepuscolare e evocativa, in luci sfuocate, in un'insistita indefinitezza
dell'immagine. A fare da contrappunto, una donna sconosciuta spiata dalla
finestra. L'immagine, come quella donna, sarebbe una sorta di oggetto
utopico e irraggiungibile, che sfugge sempre e di cui si possono conservare
solo echi lontani, pallidi riflessi, ricordi. Non è tra i modi migliori di
affrontare l'immagine (pur rimanendo lodevole, ancorché ovvio, l'accurato
evitare qualunque cliché "Carioca"), e nemmeno lo stile con cui ci si è
provato è dei più originali. Sperimentalismo volenteroso ma arido, di
respiro limitato.
Voto: 23/30
KAGE / SHADOW
di Kawase Naomi
Giappone, 2004, 26'
Detours
Molti cortometraggi autobiografici di Kawase Naomi vertono sulla figura
traumaticamente assente del (suo) padre. Qui, il suo solito incessante
rivoltarsi l'uno sull'altro di assenza e presenza, visibile e invisibile,
grandiosamente esemplificato nel lungometraggio "Shara", trova la sua
declinazione forse estrema: un attore che interpreta suo padre gli piomba in
casa, gli rivela che è suo padre, e la riprende con una videocamera (a
propria volta reinquadrata da una camera imprecisata). Ancora una volta
Kawase riesce a fare della semplice, tangibile presenza della macchina da
presa, il segno impalpabile ma inequivocabile del peso che l'invisibile fa
gravare sul visibile. Il suo pianto, lungo, diametralmente opposto allo
snuff à la "Carràmba che sorpresa", tutto l'ingombro inverosimile della
situazione a sua modo "estrema", arrestata con cura a un passo
dall'"oscenità", si ribaltano con tale naturalezza nell'assenza, nella stasi
pacificata dei piani fissi sulla stanza da letto vuota, sui rami scossi dal
vento, che interrompono la scena "madre" (o meglio... "padre"). E così, il
miracolo del cinema di Kawase si compie ancora.
Voto: 27/30
WALK THE LINE
di James Mangold
USA, 2005, 135'
Americana
La vita di Johnny Cash, secondo le sue autobiografie. E siccome Mangold ha
polso, l'accento è bruscamente riposto su due fatti specifici, la morte
precoce del fratello (verso il quale non ha mai smesso di sentirsi colpevole
e inferiore) e il tormentatissimo tira e molla amichevole prima e amoroso
poi (con varie sfumature) con June Carter.
Due autentici punti cardinali della vita di Cash, l'uno (Walk
the line lo
mostra chiaramente) "l'altra faccia" dell'altro. Intorno, Mangold costruisce
un biopic estremamente, efficacemente tradizionale. Una forma semplice come
quella di una canzone: per una volta, questa non è una banalità, ma una
scelta strutturale forte. Gli eventi, gli sconvolgimenti e le facce note (Jerry
Lee Lewis, Elvis...) scivolano via, il film li liquida veloce in attesa di
incagliarsi appassionatamente nei numeri canori live e nei tira e molla con
June. Ovvero, i due presupposti fondanti del film, due binari paralleli il
cui destino non potrà essere che l'unione. Una forma binaria che (come
quella della canzone) anziché svilupparsi aspetta di venir chiarita a sé
stessa grazie alla ripetizione: ecco perché il film non può che risolversi
con la millesima proposta di matrimonio di Johnny a June , finalmente
accettata perché compiuta sul palco durante un concerto. Due presupposti
impliciti il cui destino è rendersi espliciti incrociandosi, come un
ritornello che assume senso sporcandosi col resto della canzone grazie alla
ripetizione. Solo così la linea on-the-road di
"Walk the Line", hit di Cash
che letteralmente vuol dire "rigare diritto", può raggiungere la circolarità
che è il segno di ogni destino, può sfumare nel cerchio dell'altro suo hit
che è "Ring of Fire". Non le chiacchiere psicologizzanti del biopic
deteriore alla Tu chiamami Peter, ma una forma che si chiarisce a sé
stessa.
Voto: 28/30
YUDA
di Zeze Takahisa
Giappone, 2004, 113'
Detours
Un regista vaga in cerca di soggetti, si imbatte in una ragazza mascolina (o
viceversa) che verrà trovata morta con la sua videocamera. Una donna gli
racconterà i suoi ultimi giorni.
I maligni lo vedranno come un Wenders fuori tempo massimo, ma non è così.
Storie che si gemmano in sottostorie che finiscono per non avere nulla in
comune l'una con l'altra ma rimangono legate da strane analogie sotterranee.
Non un alambicco testuale accademico e decadente, ma una vitale disillusione
sulla leggerezza del digitale, che qui cozza impotente con l'irrimediabile
alterità di qualunque storia rispetto alla propria. La soggettiva del
regista munito di videocamera, che imperversa nella prima parte sovrapposta
alla sua voce over, diventa così all'ombra del successivo labirinto
narrativo una dichiarazione di solitudine autentica, e non una
scimmiottatura di Wong Kar-Wai. Perciò, anziché il nucleo centrale del plot,
ovvero il viaggio della donna e del ragazzo/a, gravido di impacciati
riferimenti allegorici o quasi (come spesso si nota, e invero spesso si
perdona, nei film giapponesi), conta il vano rincorrersi delle storie,
l'incappare in un punto morto (l'arrivo della polizia, l'omicidio del
ragazzo/a) che ferma tutto, e il ripartire dallo stesso punto di partenza
(ovvero, ogni volta, il regista che con la soggettiva della sua videocamera
sprofonda nel caos metropolitano tra mille imprecisate storie embrionali). E
soprattutto, anche perché la donna è per il regista un palese sostituto
dell'irrecuperabile ragazzo/a morto/a, il non fermarsi davanti
all'inevitabile sostituzione di una storia col suo simulacro, non arrendersi
ai limiti che cosituiscono il visibile, continuare e correre e a buttarsi
con buona pace del (e non "grazie al") digitale.
Voto: 27/30
BAB'AZIZ
di Nacer Khemir
Tunisia, 2005, 98'
Fuori Concorso
Una bambina accompagna un anziano derviscio a una riunione di dervisci in
mezzo al deserto. Nel frattempo, fanno molti incontri e deviazioni inattese.
Prendete La via lattea di Bunuel, togliete i mille doppifondi cattolici
che il genio spagnolo non ha mai cessato di nascondere malignamente ovunque,
e infondete a vari livelli abbondanti quantità di cultura islamica (di cui
il regista, artista poliedrico, è da tempo un esponente tra i più alti e
riconosciuti). Bab'Aziz non è molto di più. Meno visionario e misterioro,
più esplicito e programmatico rispetto al suo
Les Baliseurs du desert,
film che ha reso celebre Khemir, passato spesso a Fuori Orario, porta
comunque avanti un'idea di cinema coerente.
Bab'Aziz è infatti un film
assolutamente aforistico, divagante e frammentario, un prolungarsi di linee
narrative e visive molto libero. I piani sembrano succedersi in modo aereo,
soavemente privo di spazio, e Khemir è un maestro ad usare l'ambiente del
deserto come supporto necessario di un simile impianto spaziale. Un
susseguirsi di parabole che sono un sovrano arrendersi all'onnipotenza
dell'invisibile. Dell'amore, come nel caso del cantante, o della morte, come
per il derviscio protagonista. Il film, apertamente "sufi", gira su sé
stesso, sicuro che la dispersione è il modo più rettilineo per raggiungere
il divino
Voto: 26/30
SOUND BARRIER
di Amir Naderi
USA, 110'
Americana
Un bambino sordomuto cerca la registrazione dell'ultima puntata di uno show
radiofonico condotto da sua madre (morta). In quella cassetta è raccontata
l'origine del suo trauma.
Inizia così una furibonda, maniacale ricerca cui lo spettatore partecipa da
molto vicino, quasi si mettesse fisicamente a scavare e indagare insieme al
suo protagonista.
Come per i precedenti film, culminanti nel più recente
Marathon, Naderi si
dimostra ossessionato dalla forma filmica elementare, dalla costruzione
dello spazio cinematograficamente "attivo" data dal semplice affiancamento
di inquadrature. Una sorta di alfabetizzazione sensoriale in cui il soggetto
(cinematografico) si autocostituisce mediante il suo orientamento "qui e
ora" con l'esterno. Solo che qui questa dimensione prettamente spaziale
affronta il suo inevitabile limite, ovvero ciò che non ha spazio: il suono.
Proprio la sordità del protagonista chiarisce le cose: le sue "soggettive
sonore" ci fanno sentire un gorgoglio informe, un quid sonoro anteriore al
senso, dunque ancora più orfano dello spazio.
Passiamo un'ora buona in compagnia del bambino che scaravolta migliaia di
cassette in cerca di quella giusta. Intanto, un immenso lavoro di effetti
sonori trasforma la rappresentazione visiva dell'azione e del movimento del
personaggio, sempre più veloce, in rumore fine a sé stesso.
Perché? Perché sarà proprio l'indistizione dell'entropia sonora a permettere
al protagonista di riacquistare l'udito, di ricominciare a orientarsi
(criterio spaziale) nel non-spazio del suono. Infatti la sua sordità viene
dal trauma della perdita del padre in un incidente stradale, trauma superato
nel finale quando si trova immerso nella medesima situazione, ovvero nel
momento in cui, fatta a pezzi l'inservibile cassetta decisiva (perché la
registrazione si interrompeva sul più bello: ovvero, perché lo spazio ha
raggiunto il suo inevitabile limite), il bambino si trova in mezzo alla
strada tra camion e macchine assordanti.
Naderi insomma all'inizio col suo montaggio furibondo e rigorosissimo,
postvertoviano, ci immerge nell'alfabetizzazione filmica; poi spinge
sull'acceleratore fino a raggiungere il contrario (apparente) dello spazio,
cioè il tempo, nella forma bruta e non spazializzata del rumore. Ma proprio
questo non-spazio che è il rumore permette nuovamente un'alfabetizzazione,
una costruzione orientativo-sensoriale del senso, solo stavolta la
"dominante" non è più visiva-spaziale ma uditiva, al di là dello spazio: il
film finisce col protagonista che produce rumori su una parete per
reimparare a riconoscerli, e Naderi ce lo filma quasi senza stacchi: lo
spazio si è aperto al di là del suo limite.
Un'alfabetizzazione dunque paradossale, su uno spazio che non è spazio. Ma
che lo spazio "non è" spazio Naderi ce l'aveva detto subito: la prima
inquadratura è quella di un occhio su cui si riflette ciò che l'occhio vede
- ovvero, un occhio che letteralmente scioglie la spazialità concreta di ciò
che vede nell'indistizione acquosa della sua superficie.
Voto: 30/30
L'AVION
di Cedric Kahn
Francia, 2005, 100'
Fuori Concorso
Un bambino riceve dal padre pilota e ingegnere aeronautico il regalo di
natale sbagliato: un modellino di aereo. Morto il padre, questo si mette a
volare davvero. Non è magia, ci mancherebbe, è che il padre, scenziato
geniale, aveva trovato in Egitto il materiale più leggero e resistente del
mondo.
Si sente, nello script, l'infelice zampino di Gilles Marchand, sceneggiatore
appassionato di infarciture psicanalitiche piuttosto scontate. Perciò, come
insegna il migliore cinema americano fino a Spielberg (Shyamalan troverà il
modo di andare molto oltre), la manifestazione pura del soprannaturale è la
sostituzione del Padre Assente. Kahn, da parte sua, avrebbe potuto dire la
sua con autorevolezza, sulla carta: in tutti i suoi film precedenti è ben
riuscito a raffigurare l'ossessività dei suoi protagonisti mediante, in
questa o quella forma specifica, l'ottusità del movimento.
Ma l'aereo del bambino è troppo poco ottuso, ha studiato troppo, troppi
bignami di sceneggiatura pseudofreudiani. Kahn vorrebbe accontentarsi
dell'ambiguità della situazione, di renderci indecisi davanti a scienza e
"fede" (si fa per dire), ma la loro riconciliazione è troppo facile
(indovinate un po': grazie alla madre). A Kahn manca inoltre anche il
coraggio sufficiente a far scivolare l'interezza del racconto
nell'ossessività - l'intenzione d'altra parte era evidentemente questa, il
progressivo impazzire del collega scienziato del padre serve proprio a
sfumare, come da manualetto, il solito confine scienza-fede.
Rimane l'ammirevole secchezza della sua prosa, ma stavolta è banalmente
funzionale a un discorsetto già sentito, e solo qua e là, debolmente, riesce
a far trasparire la consistenza "folle", infrangibile, dell'ossessione.
Voto: 24/30

PROGRAMMA SHORTS ABOUT LOVE
Nei suoi quattro “Shorts about love”, James Lee,
autore malesiano, traccia con stili diversi e disomogenei e uno sguardo
malinconicamente distaccato, la noia, i tempi morti e la quotidianità
vissuta dai protagonisti delle proprie storie d’amore.
Con l’incipit Goodbye to love,
che assomiglia più a una riflessione finale, più astratta e sperimentale,
Lee dipinge con inquadrature fisse e movimenti di macchina lentissimi, ciò
che sembra assomigliare a un triangolo da cui il protagonista si sente
escluso; tuttavia, a questo livello è difficile dare un’interpretazione che
non vada oltre la semplice suggestione, poiché siamo già al confine con la
videoart.
A moment of love analizza i
piccoli drammi quotidiani della convivenza: lui è sempre a casa, ma si
dimentica di pagare le bollette e di comprare la carta igienica, lei lo
rimprovera. Qui prevale lo squallore estetico e formale, che fa un po’ del
corto un piccolo melodramma home-made, dove però non è chiaro fino a che
punto l’effetto sia voluto, oppure se le condizioni di scarsezza produttiva
abbiano influito sullo stile dell’opera.
Segue Bernafas Dalam Lumpur,
un racconto sul destino tragico di un uomo appena uscito di prigione. Il
colpo di scena tiene in vita la tensione, ma esteticamente passa
inosservato.
Sometimes love is beautiful è
una parabola sull’amore e l’ambigua amicizia che lega due ragazzine di
periferia. Anche qui l’autore analizza i piccoli drammi della quotidianità,
i silenzi, sguardi, gesti e parole.
Anche se soprattutto in quest’ultimo corto appare una certa ricerca
sull’inquadratura e sui movimenti di macchina, il corpus dei quattro lavori
non lascia certo col fiato sospeso: il suo sguardo sul reale attraverso
tematiche alquanto stantìe non riesce a restituire un dibattito o un
percorso critico da analizzare, purtroppo ci troviamo davanti a una ricerca
che ha ancora da compiersi.
VOTO: 18/30
ANAK NG TINAPA / SOMETHING FISHY
di Jon Red
Filippine, 2005, 68'
Detours
Due poliziotti disonesti nascondono droghe illegali addosso a poveri
sfortunati e si divertono a incastrarli. Ma a loro insaputa un gruppo di
folli e ambiziosi studenti di cinema li sta spiando, documentando ogni loro
mossa.
La storia del pesce piccolo che, in una società di squali, invece di
incastrare il pesce grosso si accanisce sui pesci ancora più piccoli.
Questa è insomma, la metafora che sta alla base del film, oltre al gioco di
parole in inglese sull’aggettivo “fishy”, composto dalla radice “fish”,
pesce, ma porta il significato di “losco, sospetto”.
Insistendo sul parallelismo ittico, poi incontreremo un venditore ambulante
di “fish crackers”, e il ragazzo mandato come esca per i poliziotti
indosserà una maglietta con una lisca di pesce, come a dire, che ormai il
suo destino è segnato.
In tre stili diversi, tra crime movie, sit-com e documentario, è stato
girato in tre giorni con una concessione produttiva di 1000 dollari.
L’utilizzo del triplo registro è gestito in modo goffo e stentato, risulta
difficile da digerire per un prodotto tutto sommato amatoriale, che con un
apologo semplicistico sul potere vorrebbe attribuire caratteristiche
universali alla piccola porzione di realtà analizzata.
Come dire, che dal comportamento del pesce piccolo, si può capire il mare
intero.
VOTO: 20/30

17-SAI NO FÛKEI - SHÔNEN WA NANI O MITA NO KA
/ CYCLES CHRONICLE
di Wakamatsu Koji
Giappone, 2004, 90´
Fuori Concorso
Un diciassettenne uccide la madre e scappa in
bicicletta tra le montagne giapponesi. Incontra un paio di anziani, si ferma
a parlare con loro. E basta.
Sì: e basta. Tutto qua. Un'ora e mezza di
pedalate e paesaggi. In un festival come questo che si chiama "cinema
giovani", era inevitabile che la più bella lezione di freschezza e di
innocenza ce la desse proprio questo grande veterano del cinema nipponico,
con moltissimi film all'attivo. Come in
Una storia vera di David
Lynch, ma in modo al contempo più solare e più disperato, un road movie che
è azzeramento del soggetto e immersione totale, a peso morto, nel mondo.
L'uso intensivo delle dissolvenze tende ad annullare la gerarchia tra le
inquadrature, e allo stesso modo i materiali che compongono il film sono
appianati orizzontalmente: i paesaggi, il protagonista in bicicletta (il cui
volto che guarda viene spesso inquadrato dalla macchina da presa in
movimento, in modo da togliere rigidità alla soggettiva e fare del
personaggio più paesaggio lui stesso che mediazione visiva con lo
spettatore), i flashback sulla madre, eccetera. Perché? Perché, come si dice
all'inizio del film, "siamo tutti solo un paesaggio": anziché uno sguardo
soggettivo che organizza dei materiali (per esempio in una narrazione), uno
sguardo che è esso stesso paesaggio, diapositiva di uno slide show verso cui
non abbiamo nessun controllo. Questa è, infatti, anche l'impressione che si
ricava dai racconti dei due anziani, che narrano l'impotenza allibita di
essere sballottati dalla storia, dal cambiamento che ci determina ma,
paradossalmente, non sembra riguardarci. Passività zen di essere immagine
tra le immagini, immersi in un flusso in movimento, placido ma
inarrestabile, che non ci appartiene.
Voto: 29/30
LE DOMAINE PERDU
di Raoul Ruiz
Francia/Romania/Spagna/Italia, 2004,106´
Fuori Concorso
Cile. Durante la seconda guerra mondiale, un
bambino riceve la visita di un pilota atterrato per caso lì poco distante.
Questa figura lo affascinerà per tutta la vita, in cui diventerà a propria
volta pilota. Naturalmente, trattandosi di un film di Ruiz, questo non è che
il punto di partenza di tutta una serie di sdoppiamenti, parallelismi,
specularità, paradossi temporali, scherzi del destino e della memoria,
simbologie, divagazioni bizzarre, accumuli vertiginosi di livelli di senso.
Come al solito, Ruiz lavora su composizioni figurative sì complesse, ma
soprattutto sempre sul punto di sciogliersi, sempre colte un attimo prima
che il tempo le trasformi in qualche altra immagine. Questo cogliere "un
attimo prima" si manifesta rappresentando direttamente il tempo, tramite
l'uso palpabile e continuo del movimento della macchina da presa. Quasi una
incarnazione del cinema stesso inteso come potenza attiva e concreta del
cambiamento. Ovvero, tradotto in termini bergsoniani (e quindi proustiani,
essendo Proust uno dei numi più evidenti del cileno): il tempo (il cinema)
come memoria che continuamente ricrea sé stessa, ad ogni istante. Per
questo, verso la fine, c'è lo sguardo in soggettiva di un'aquila che vola:
la macchina da presa per Ruiz è proprio questo movimento concretissimo
disgregante "assoluto" che è tuttuno con la memoria, e dunque non può che
essere motore di tutta una serie di smottamenti e paradossi temporali che
stritolano il mondo in una ragnatela infinita di allusioni e convergenze di
senso. Convergenze infinite, che quindi non si toccano mai, come i due
protagonisti e le loro storie incrociate di padri e figli (veri o putativi
che siano) che non riescono mai a reincontrarsi, e che quando lo fanno
riescono solo a schizzare via e ripetere sempre la stessa, problematica
scissione, che finisce (nella più importante tra le analogie incrociate
intrecciate da Ruiz) per essere la stessa (altrettanto paradossale) tra chi
racconta e chi è mero spettatore.
Voto: 28/30
LOFT
di Kurosawa Kiyoshi
Giappone, 2005, 115´
Fuori Concorso
Una scrittrice affitta un casolare di campagna.
Il suo vicino, antropologo, tiene una mummia trovata in una palude lì
vicino. Lo spirito della mummia si reincarnerà nel corpo di una ragazza
uccisa dall'editore della protagonista, ex inquilina del casolare.
Loft senza dubbio deluderà i
fan del Kurosawa Kiyoshi che ha rivoluzionato l'horror. Ma è comunque un
capolavoro. I materiali di genere sono qui come suo solito utilizzati in
senso "teorico", spericolatamente concettuale, ma stavolta molto oltre le
strutture di genere, ormai frantumate per fare spazio a un discorso diverso,
incredibilmente ambizioso. Se gli horror gravitanti intorno a morti viventi
e simili lavorano innanzitutto sulla (im)possibilità di tracciare un confine
tra vita e morte, Loft
dichiara impossibile non solo la tracciabilità del confine ma anche la sua
stessa pensabilità. Perché l'immagine non può costitutivamente rappresentare
quel confine: la protagonista si imbatte in un filmino degli anni venti che
inquadra la mummia per dieci secondi di tre diversi giorni; si intuisce che
essa si è mossa, ma tale movimento non viene percepito e rappresentato
effettivamente dall'occhio della macchina da presa. E ugualmente, il gioco
ingannevole di flashback "reticenti" dell'ultima parte del film che
esprimono l'impossibilità dell'antropologo di ricordare effettivamente che
fine ha fatto fare al cadavere della ragazza. Due esempi dell'inevitabile
insufficienza dell'immagine di trattare il confine tra vita e morte, ovvero
il confine per eccellenza: l'immagine è condannata a un "resto" che non può
rappresentare.
Perciò la scrittrice ha solo in sogno l'immagine della verità finale, ovvero
del fatto che sia stato il vicino a occultare il cadavere della ragazza
nella palude: da sveglia ha solo un vano presagio (la carrucola ai piedi
della palude che si muove) che non può aiutare l'antropologo nella ricerca
della sua traumatica verità.
Il tentativo tragico da parte dell'immagine di cogliere, e dunque
esorcizzare, il confine tra vita e morte, si congiunge all'altro tema
fondante del film, ovvero la bellezza, intesa come volontà disperata di
fermare il tempo, impedire la sua corsa verso la morte. Senonché, questo
tentativo è paradossalmente la morte stessa: la mummia era una donna di
mille anni fa morta per aver ingoiato troppo fango, cosa che, dicono,
serviva a conservare il proprio aspetto fisico giovanile - e la protagonista
ogni volta che si strucca allo specchio vomita misteriosamente fango. E
soprattutto, quando la scrittrice scrive il suo libro copiando le bozze
della ragazza morta, lo spirito di questa la ossessiona: la bellezza, come
l'immagine, è intrinsecamente insufficiente e porta inevitabilmente a un
"resto" che non si può controllare. Bellezza e immagine, destinate entrambe
alla sconfitta, si riuniscono nella tragicità dei loro esiti: la storia
d'amore che scrive la scrittrice si materializzerà nella naiveté
sentimentale dell'unione tra lei e l'antropologo. Lui, con alle spalle tutti
i violini del caso, dice a lei di averlo salvato dall'incubo dell'illusione
dei morti viventi, ma questo, e l'impossibilità del suo ricordo (ovvero
dell'immagine) a dar conto della cosa
lo porterà alla morte.
Kurosawa costringe l'immagine al suo auto-da-fé, oltrepassa il lavoro di
Kairo sulla presenza fisica umana come appendice misteriosa del vuoto,
complementandola con una presenza più esplicitamente impalpabile, non umana,
relegata allusivamente allo sfondo. Una lampadina che si illumina sempre di
più e scoppia, cambiamenti repentini di luce, sfoghi atmosferici imprevisti.
Il confine tra nulla e materia, smarcatosi così dalla categoria della
"presenza" (concreta, umana), si fa così sempre più vischioso (perché
appunto è l'immagine stessa a risentire nel suo status di questa
vischiosità), e il confine vita-morte si fa definitivamente problematico: i
personaggi affrontano i non-morti nella propria inquadratura, e i vivi (il
truce editore della protagonista) con un intricato "nascondino" con il fuori
campo visivo.
Voto: 30/30
SOLNZE / THE SUN
di Aleksandr Sokurov
Russia/Italia/Francia, 2004, 110´
Fuori Concorso
Hirohito alla fine della guerra, nei giorni
precedenti l'epocale decisione di rinunciare all'essere considerato una
divinità concessogli dal suo status di imperatore.
Sokurov prosegue l'usuale dissoluzione della geometria (qui presente anche
in veste di rituale giapponese di corte) oltre la pittura, oltre il colore (strordinario
peraltro), oltre il visibile, regalandoci il contatto diretto, tattile in
senso addirittura letterale, con la materia informe di cui è fatta
l'immagine, con la sua grana più molle e indistruttibile. La consistenza
impalpabile della materia, fumosa, nebulosa, estranea a qualunque
determinazione rigida vettoriale. Ovvero, estranea al potere, come ne è
estraneo Hirohito, che si scopre insieme al generale McArthur semplice
pedina impotente della Storia, "divinità" che anziché sguazzare
nell'onnipotenza si trastulla con le "buone cose di pessimo gusto" di
gozzaniana memoria, con le foto degli attori di Hollywood, con lo studio
della fauna ittica al microscopio, con la superficie nel senso più ampio del
termine. Per questo il momento in cui più lo vediamo impegnato in
un'attività di sintesi, ovvero la scrittura, è estenuata, sempre interrotta,
ostacolata dalle visioni (straordiaria l'allucinazione in digitale del
bombrdamento della città coi pesci volanti), dai ricordi, dalle esitazioni.
Tutto si sfalda, e come Hirohito siamo condannati a un'ottusa innocenza,
annaspiamo sulla superficie alla ricerca di nemmeno si sa cosa, di un attimo
di bellezza forse: e quindi il momento dell'arrivo degli americani si
blocca, gli viene invitato il centro dell'inquadratura e della nostra
attenzione in favore di un imprevedibile uccello del paradiso che si trova
lì nel cortile. L'apocalisse ha se non altro il merito di regalarci
l'umanità, e perfino l'ex-dio Hirohito può così trasformarsi in Charlie
Chaplin.
Voto: 29/30
TIAN BIAN YI DUO YUN / THE WAYWARD CLOUD
di Tsai Ming-Liang
Francia/Taiwan, 2004, 112´
Fuori Concorso
L'eterno protagonista dei film di Tsai,
Hsiao-Kang, ora attore pornografico, incontra la ragazza amata a distanza in
Che ora è laggiù. La
situazione si ribalta, e la loro vicinanza diventa assoluta, pornografica
anch'essa.
Intanto, a Taiwan c'è una grave siccità.
La nuvola capricciosa ricorda
the Hole per essere sovente
interrotto da compiaciutamente assurdi siparietti musicali. Ma va molto
oltre. La sfacciata gratuità di questi numeri si lega con l'assoluta,
insistita gratuità di molte delle azioni dei personaggi, e soprattutto con
la peculiare gratuità del pornografico. Ovvero: è da sempre connaturata al
porno una certa idea di spreco (e infatti Hsiao-Kang gira filmini porno dove
l'attrazione principale è il fatto che gli attori vengono bagnati con
l'acqua che data la siccità che intanto dilaga a Taiwan diventa un bene di
lusso - ugualmente, la collega giapponese viene filmata che si masturba con
una bottiglietta d'acqua), l'idea che i corpi impiegati siano una specie di
surplus di loro stessi, un supporto visibile quanto superfluo dell'atto che
inscenano, il quale è invece invisibile e irrappresentabile anche quando
tecnicamente si vede tutto (per esempio, la scena iniziale con l'assurda
masturbazione dell'anguria che sostituisce la vagina). Quindi Tsai per tutto
il film sembra galleggiare impunito e ridacchiante nella gratuità,
costruendoci su un filmino simpatico e per pubblici radical standard. Alla
fine però "si redime", stravolge il proprio assunto e supera il proprio
stesso cinema. La protagonista trova l'attrice giapponese morta: ecco che il
corpo diventa davvero un supporto superfluo, non ci si scherza più sopra,
diventa davvero qualcosa di inaffrontabile. Ma la troupe di Hsiao-Kang la
utilizza per un filmino necrofilo: metafora perfetta del film fino a quel
momento, compiacentesi dell'improponibilità del proprio sguardo rispetto al
proprio oggetto.
Quest'improponibilità sembra manifestarsi direttamente nel disgusto della
protagonista che spia la scena da una finestrella. Sembra, ma non è, perché,
solo guardando, la ragazza viene, e Hsiao-Kang viene anche lui, appena dopo
essere balzato fuori dalla morta per approfittare del sesso orale con la
compagna dalla finestrella. Lunga inquadratura di lei con gli occhi
attaccati al pube di lui: il corpo non è più il resto superfluo e
masturbatorio dello sguardo, ma, proprio perché irriducibile allo sguardo, è
lo sguardo stesso che diventa corpo. Il corpo, tramite il proprio eccesso,
si rende inaffrontabile, portando così a coincidere per puro paradosso corpo
e sguardo. Il corpo non è più ciò che sta oltre lo sguardo ma è lo sguardo
stesso. La differenza assoluta, cioè la morte, elimina la differenza tra
corpo e sguardo, elimina l'eccesso reciproco che li separava.
DIGITAL SHORT FILMS BY THREE FILMMAKERS 2005
di Apichatpong Weerasethakul, Tsukamoto Shinya e Song Il-gon
Corea del Sud, 2005, 108´
Detours
Tre episodi da un regista cult giapponese, un
giovane tailandese di eccellenti speranze e un coreano discontinuo.
Proprio quest'ultimo è quello che desta più perplessita. Il suo
cortometraggio è ambientato in una baita montana dove due amici bevono
insieme, la notte di capodanno. Varie storie si intrecceranno, quella di un
ex monaco buddista che passa di lì, quella della ragazza di uno dei due che,
così sembra, si è suicidata, e altre, intrecciate in modo da rendere
indecidibile quale segmento appartenga al "gogno" e quale alla "realtà".
Song desta qualche sospetto di accademia: mezz'ora e passa di
pianosequenza, ok, è ammirevole, però il gioco di indecidibilità tra sogno e
realtà (ipersottolineato oltre che dalla spezzettatura dei segmenti anche da
vistose marche fotografiche) è piuttosto rigido. È tutto troppo scritto, un
po' troppo tacciabile di teatralità. Però certo, tecnicamente tanto di
cappello.
Weerasethekul invece gira un film nel
film dentro l'ambiente tipico del suo cinema fino ad ora: la foresta
(fittissima). Ma non è un giochino postmoderno, anzi: Weerasethekul cerca di
scavalcare lo svelamento postmoderno dell'apparato finzionale lavorando di
puro occhio, trovando coordinate figurative di folgorante immediatezza. Uno
sguardo dove distanza significa innocenza, un'innocenza anteriore e
impermeabile alle ciniche lusinghe del metacinema. Che pure è presente, ma è
come surclassato dalla statuaria passione figurativa delle inquadrature.
Tsukamoto firma un autentico capolavoro.
Un uomo apre gli occhi e si ritrova imprigionato in un labirintico cunicolo
dove escono lame chiodi e altre trappole poco piacevoli. A un certo punto,
gli balena un vago ricordo del modo esterno, un vago ricordo visivo di una
figura femminile...
Impossibile non pensare a Carmelo Bene. L'unico altro cinema oltre al suo
che (come questo corto esemplifica alla perfezione) come diceva Deleuze fa
del
cinema una prigione del corpo, che lo frammenta incessantemente, e che fa
dello sguardo il sintomo doloroso dell'estraneità tra corpo del soggetto e
mondo esterno (infatti all'origine di tutto, come attesta il finale c'è
l'incontro tra il soggetto e il suo Altro, ovvero, come sottoscriverebbe
Bene, la donna). Un'estraneità che obbliga il corpo a scindersi
nell'imprendibilità della voce. Appunto, a un certo punto Tsukamoto nel
cunicolo si ferma, fa prendere il sopravvento alla voce dopo le mille
atrocità subite, e irrompono dal nulla immagini totalmente slegate da quel
set specifico (dunque prive di un "corpo" come la voce), e tutto questo
ricorda molto da vicino l'instancabile lavorio sull'asincronismo vocale di
Carmelo Bene. Un impossibile dialogo a due che è tra le cose più
sorprendenti del cinema di oggi.
Voto: 27/30
MUSHI TACHI NO LE / HOUSE OF BUGS
di Kurosawa Kiyoshi
Giappone, 2005, 51´
Detours
Una coppia di coniugi confidano ognuno a un
amico di sesso opposto una serie di preoccupazioni nei riguardi del
compagno/a. Ma le due versioni non combaciano.
Kurosawa per questa parentesi video abbandona le rarefazioni estreme del suo
cinema, accelera il montaggio, e affida tutto a un'impervia e audace
costruzione strutturale. Infatti, ciò che rende interessante questo
esperimento è che le visualizzazioni di ciò che dicono i due (perversamente
intricate l'una dentro l'altra) non sono semplicemente divergenti, ma
altresì convergono, e lo fanno nel modo più strano: ovvero ci sono un paio
di passaggi che si ripetono in ambo le versioni identici, è letteralmente la
medesima scena ripetuta al montaggio così com'è. Un'invenzione intelligente
che prepara coerentemente il campo alla riconciliazione finale: le due
"perversioni" diverse dei coniugi si scambieranno, l'uno prenderà il posto e
la visione dell'altra e viceversa.
Voto: 27/30
DOMINION: PREQUEL TO THE EXORCIST
di Paul Schrader
USA, 2005, 117´
Americana
Padre Merrin, l'esorcista più famoso del mondo,
prima di divenire tale era un archeologo spretato che decide di riprendere i
voti per fronteggiare il diavolo in persona, sprigionatasi in una misteriosa
cappella paleocristiana spuntata in africa fuori dalla sabbia.
Ci si aspettavano grandi cose da un testo denso di temi schraderiani, ma il
risultato non è così entusiasmante. Solo a tratti si scorge quella che era
destinata ad essere la chiave moral-figurativa del film: se il nazismo ("Non
c'è più poesia dopo Auschwitz" si è detto), incarnazione del male radicale,
ha sradicato le tenui frontiere tra il bene e il male rendendo quest'ultimo
inevitabile (Padre Merrin costretto a sacrificare innocenti per il bene di
altri), il nuovo discrimine sarà, a livello puramente formale-iconografico,
tra l'ambiguità assoluta dell'immagine sacra (le vittime del diavolo uccise
e sistemate in modo da riprodurre temi classici dell'iconografia cristiano,
tipo il martirio di San Sebastiano) e il segno puro, vuoto,
dell'armamentario cristiano tradizionale con cui Merrin ricaccia il diavolo.
Più l'immagine acquista consistenza, più si avvicina al male: questo il
segreto della bidimensionalità dell'arte palocristiana già rilevata da
Schrader nel suo celebre libro "Lo stile trascendentale" e citata in questo
film in svariati elementi architettonici. Forse per questo Schrader sceglie
uno stile anodino, senza nerbo. O forse è semplicemente un problema
strutturale del film. Che pure si guarda volentieri, ma ci si aspettava più
polso da cotanto regista.
Voto: 26/30
GRIZZLY MAN
di Werner Herzog
USA/Canada, 2005, 103'
Americana
Timmy Treadwell era un giovane appassionato
ambientalista che per svariati mesi all'anno studiava gli orsi in alaska a
incredibile e pericolosissima vicinanza con loro. Ha sempre saputo che prima
o poi uno di loro l'avrebbe mangiato, e così è stato. Timmy ci ha lasciato
centinaia di ore di filmati che Herzog ha rimontato con interviste a chi gli
stava vicino e altro.
Ennesimo capolavoro del regista che più di ogni altro ha saputo lavorare sui
personaggi titanici, eccessivi - e più di ogni altro ha sempre lavorato
sulla relazione tra tali personaggi e la propria smisurata ambizione. Herzog
si confronta in questo film con un suo alter ego, con un'ossessione molto
simile alla sua per il contatto con l'onnipotente Natura, senza contare che
gli elogi che muove al suo istinto registico (saper aspettare che la natura
si produca nelle meraviglie del caso...) sono i cardini del suo stesso
cinema.
Come già testimoniava tra l'altro il suo sconvolgente documentario su Kinski
(qui citato espressamente quando Treadwell si riprende in un furibondo "overacting"
di svariati minuti con mille "fuck" lanciati contro tutto e tutti), la
ricerca dell'estremo ha come limite inevitabile il Medesimo, lo Stesso:
l'infinitamente lontano non può che coincidere con l'infinitamente vicino,
ciò che sta proprio qui. In definitiva, Herzog stesso, lanciato verso i suoi
doppi-simili, in un percorso che sembrava culminare con inski e invece trova
qui uno sviluppo ulteriore, perché Timmy rispetto a Kinski è anche
segnatamente diverso da Herzog, il quale dunque dopo essersi
vertiginosamente avvicinato al proprio oggetto se ne scopre lontano. Come
Timmy il cui contatto vicinissimo con la natura lo porta alla distruzione,
varcare il confine porta alla morte, per questo Herzog dopo essere
"diventato" l'uomo degli orsi, si tiene infine al di qua del confine, dice "Timmy
credeva ingenuamente nell'armonia della natura, io no, io credo che tutto
sia retto solo dal caos", la disarmonia si riproduce impietosa tra soggetto
e oggetto nel momento stesso della loro apparente fusione. Nel momento,
cioè, in cui Herzog fa suo il cinema istintivo e geniale di Treadwell, si
appropria del materiale che ha girato, scompare dietro i video dell'ammiratissimo
uomo degli orsi, scatta la separazione virtuale tra i due. E le immagini, da
presa diretta sull'onnipotente divengono traccia impotente di ciò che sta
senza rimedio al di là del confine, emanazione memoriale dall'oltretomba,
come l'orologio (cui tanto spazio Herzog concede nel suo film) superstite
della voracità dell'orso che ha fatto strage di Timmy.
Voto: 30/30
NO DIRECTION HOME: BOB DYLAN
di Martin Scorsese
USA, 2005, 201´
Questo documentario sugli esordi di Dylan fino a
dopo l'incidente in moto del '66, comprende un momento topico della recente
storia Americana: la gigantesca manifestazione a Washington del '63. Dylan
c'era, ma sappiamo che c'era anche Forrest Gump. E non è un caso. Il
ritratto del cantante che viene fuori dalle interviste, dai materiali di
repertorio, dagli spezzoni live eccetera, certo risente molto del
postindividualismo degli eroi scorsesiani, ma ha anche molto della vuotezza
sublime dell'antieroe di Zemeckis. Tutto converge in questo film in
direzione dello stralunato candore, dell'aria innocente di estraneità
rivendicata dal personaggio-Dylan nei decenni. Bandiera della contestazione
senza che ne avesse mai avuto l'aria che gliene fregasse qualcosa, arrivato
al successo così, come per caso. Soprattutto, Scorsese si sofferma in modo
interminabile sulle sue numerose influenze (di cui Woody Guthrie è solo la
punta dell'iceberg), come a confermare il personaggio quale ricettacolo
vuoto e vorace di impulsi dall'esterno, in maniera ancora curiosamente
analoga a Gump. Tutto questo senza particolari ambizioni autoriali, se non
con l'usuale, apprezzabile fiducia concitata nell'affastellarsi bulimico dei
materiali (cosa che ha non poco a che vedere con lo stile dei suoi film "di
finzione") già manifestata fra l'altro nel documentario sul blues.
OMAGGIO A ROGERIO SGANZERLA
Seconda parte dell'omaggio a questo regista
brasiliano, dalla filmografia disparata e difficilmente recuperabile,
wellesianamente disposta in mille rivoli e dalla collocazione sempre
incerta, in progress. Il che calza a pennello a uno come Sganzerla
ossessionato da Welles, come dimostra uno dei corti presentati quest'anno (Il
linguaggio di Orson Welles).
Sem Essa Aranha, uno dei due
lungometraggi presenti, confrontava un elementare teorema politico sul
Brasile direttamente sul campo, sviluppandosi con pianisequenza in presa
diretta girati sì nelle favelas ma non in senso pomposamente
documentaristico, quanto per il gusto della sovrapposizione dissonante tra
la messa in scena e la realtà cui, con volontario attrito, si riferisce. Un
cinema vitale, scatenato, liberissimo, e tuttavia di immediata, istintiva
plasticità figurativa. Lo stesso vale per
Copacabana mon amour, l'altro
lungometraggio, e in sostanza per gli altri film del periodo
Bel Air, ovvero di quei pochi
mesi in cui lui e Bressane nel 1970 formarono l'omonima casa di produzione
indipendente che partorì 4-5 film in 2-3 mesi, documentati dal montaggio di
spezzoni A miss e o dinosauro.
Dopo questo periodo delirante, Sganzerla ha fatto (a parte le cose
wellesiane viste a Torino l'anno scorso) soprattutto film su commissione,
magari di qualche ente culturale, a scopo divulgativo (Viagem...,
America), sempre audacemente lanciati in una cura estrema del
rapporto tra il soggetto del film e i materiali più direttamente filmici
come la luce o il paesaggio. Alcuni possono deludere (Perigo
negro, Deuses no juruà che usa il video in modo un po' maldestro), ma
sono sempre ammirevoli per la loro ambizione eccedente di molto il progetto
in sé (appunto spesso commissionati). Spesso trattano di un personaggio (wellesianamente)
eccessivo verso cui il regista vicino: è il caso di
Informaçao Koellreuter,
omaggio all'omonimo importatore in Brasile della dodecafonia musicale, che
illustra e traspone filmicamente, con immagini anziché suoni, l'idea
(dodecafonica) di prolungamento della libera combinatoria di strutture al di
là dei limiti della presunta armonia.
Oppure, di Umbanda no Brasil,
dove l'intervista ravvicinata all'esperto del soprannaturale popolare
parareligioso Mata e Silva si fonde alle riprese di riti sciamanici
"doppiati" da una macchina da presa che si lancia in percorsi visivi
autonomi.
EBOLUSYON NG ISANG PAMILYANG PILIPINO / EVOLUTION OF A FILIPINO FAMILY
di Lav Diaz
Filippine, 2004, 643´
Focus Filippine
Film del genere convincono che i festival
servono ancora a qualcosa. A far diventare un caso mondiale (prima a
Toronto, poi a Rotterdam, a Torino e altrove) la storica impresa
cinematografica di un cineasta che impiega 10 anni a costruire questo film
epocale, bellissimo che dura quasi 11 ore.
Sedici anni in bianco e nero, dal 1971 al 1987, di storia di una famiglia
filippina, e della parallela Storia con esse maiuscola: ovvero,
dall'insediamento del dittatore Marcos alle manifestazioni popolari che
hanno portato al premierato al suo posto Cory Aquino.
Annoso e spinosissimo problema: come portare la
Storia sul grande schermo? Come intrecciarla con la storia minuscola? Lav
Diaz sceglie di disperderla in livelli apertamente divergenti. Il film è
suddivisibile, pur con una certa arbitrarietà, in quattro "strati" marcati
esplicitamente da differenze figurative forti. Il "presente" diegetico
situabile verso la fine dei sedici anni, girato in digitale con un respiro
temporale profondo, un'immersione totale nel mondo rurale filippino
raffigurato con un'occhio compositivo miracoloso, pressoché fordiano (alcune
scene, come la morte della nonna durante l'aratura , sembra quasi vengano da
Furore), un'attenzione e
un'aderenza sconfinata e profonda verso l'ambiente che descrive. Il
"passato" riferentesi ai primi anni dell'intervallo trattato, un bianco e
nero contrastatissimo, ultraespressionista, bagliori di luce dolorosamente
sottratti al buio, montaggio concitato, vario, di lirismo sincopato,
elaborato. I materiali di repertorio della scottante attualità coeva. E
infine l'elemento più apparentemente bizzarro: la visualizzazione delle
registrazioni dei programmi radiofonici ascoltati dai protagonisti,
principalmente radiodrammi, ma anche interviste a Lino Brocka, regista
impegnato a fondo politicamente tra gli anni 70 e 80.
Proprio i melodrammi radiofonici ci forniscono
una chiave importante. Il film di fatto abbonda di elementi melodrammatici
classici: il giovane Reynaldo è un orfano costretto a una fuga senza fine,
la madre adottiva tutt'a un tratto diventa cieca, suo fratello Kadyo è un
bravo ragazzo che va in carcere per aver rubato armi "per una giusta causa"
e anche dopo non riuscirà a uscire dal circolo di violenza cui è condannato.
Il controcanto radiofonico, proprio in virtù della sua presenza concreta
rappresentata dalle riprese degli attori che recitano davanti ai microfoni,
indica chiaramente la più pregnante sostanza drammatica di
Evolutions of a filipino family,
il mood che abita alle sue radici, affinché il film possa, invece di
svilupparlo in senso tradizionalmente drammaturgico, disperderlo. Perché
disperderlo? Perché preoccuparsi di costruire un nucleo tragico se poi va
disperso? Perché a Diaz non interessa comunicare il tragico, mira
direttamente alla sua esperienza.
Conduce lo spettatore per mano a seguire la
lancinante, lunghissima morte di Kadyo accoltellato che si trascina aon
affanno per metri e metri e minuti e minuti. Rende il nucleo tragico, la
visione pessimista (perché critica e rivoluzionaria) della Storia al cuore
del progetto (infatti l'epilogo del film è la scena in cui la vera madre di
Reynaldo lo abbandona appena nato: suggello finale, assoluto della
negatività del destino), tutt'uno con l'esperienza del tempo. Seppellisce il
melodramma dentro il pulsare del tempo. Rende il tempo l'incarnazione
dell'entropia centrifuga generale della struttura del progetto (i quattro
strati divergenti) e del contenuto stesso del plot (anziché riunirsi, le
diramazioni della famiglia protagonista si separano a propria volta, tra
morti e fughe di personaggi e incarcerazioni).
Solo questo movimento di caduta tragica accomuna storia e Storia; quando si
uniscono, cioè nello strato al passato girato con luce contrastata, ci sono
solo confusi e piccoli bagliori nel buio totale, nulla di più lontano
dall'"azione dei personaggi", da una loro influenza attiva: i due livelli
rimangono separati.
Ma quest'opera monumentale non è un elogio della rassegnazione. Nessun
personaggio si arrende: il giovane cercatore d'oro scomparso trova il
coraggio di assassinare tutti i suoi nemici, Reynaldo continua a viaggiare,
le due sorelle, scomparsa la terza, e la nonna che si prendeva cura di loro,
si dicono che qualunque scossone accada loro continueranno a vivere. La voce
di un personaggio (mentre sullo schermo scorre una splendida soggettiva in
movimento - la soggettiva è una figura stilistica usata spesso nei momenti
chiave di questa pellicola, per incollare lo spettatore a ciò che si
racconta senza la seduzione delle false e tiepide sirene
dell'"identificazione", anzi buttandolo contro la realtà) dice "ti
continuerò a cercare" riferito a uno dei tanti personaggi scomparsi del
film. Il contrario della tipica rassegnazione filippina che Diaz rimprovera
ai connazionali nelle interviste.
La prima e forse unica cosa da fare è guardare, guardare all'altezza della
terra, ai ritmi di quella vita come il tempo (che è in sé tragico, come il
film cerca di evidenziare in tutti questi modi) li dispone, i ritmi del
lavoro, della quotidianità seguita nel suo dispiegarsi più minuto,
interrotti (senza soluzioni drammaturgicamente lineari) da questo o
quell'evento drammatico che vi si mescola senza preavviso. Guardare
all'altezza della terra: pochi film come questo lo fanno con altrettanta
sconvolgente efficacia.
Voto: 30/30 e lode
RETROSPETTIVA CLAUDE CHABROL
Da sempre si dice che i numi tutelari di Chabrol
siano Lang e Hitchcock. E bisogna continuare a dirlo, perché è ancora vero,
anche negli ultimi film, anche dopo quasi 50 anni dal suo esordio.
Tematicamente i riferimenti si sprecano. Lang: la vendetta, il feuilleton,
il destino, il complotto stratificato. Hitchcock: l'omicidio, il matrimonio,
il regista-dio onnipotente, la finta misoginia, l'instabilità del concetto
di colpa. E così via fino alle minuzie, come l'ossessione chabroliana per la
gastronomia, raffinatamente hitchcockiana. Stilisticamente, diciamo
approssimativamente che la spazialità langhiana della messa in scena, la
disposizione degli elementi in una spiccata rigidità significante, viene
disciolta hitchcockianamente in movimenti di macchina ambiguamente allusivi,
sempre in bilico tra l'allusione significante e un malizioso, subdolo
naturalismo, tra la predisposizione e il caso. Scioglie il gioco
hitchcockiano dei punti di vista soggettivo e oggettivo in un'unica
indefinizione spaziale, un tappeto mobile sui cui galleggiano gli indizi che
andranno a comporre (o fare finta di comporre) il quadro del racconto,
evidenziando l'ambiguità del loro status, in cui l'allusione implicita e la
manipolazione esplicita dello spettatore si confondono - Certo, una
confusione di stampo hitchcockiana ma condotta attraverso strumenti
langhiani (perché spazializzati uniformemente). Insomma la sua filmografia è
una indefessa combinatoria di tutti questi elementi, un'esplorazione mai
doma di tutte le possibili combinazioni di essi, condite con temi più
riconoscibilmente chabroliani come la provincia o la borghesia. Esplorazione
sempre appassionante, mai piatta o prevedibile. Chabrol ama confrontare un
personaggio langhiano e uno hitchcockiano (come accade anche nell'ultimo
La damigella d'onore, uno
calcolatore e uno ipocrita (Il
tagliagole o Stephane),
il manipolatore e il manipolato (I
fantasmi del cappellaio, I bellimbusti, I cugini), e puntualmente
sconvolge, scambia o ribalta le carte in tavola.
Le geometrie langhiane del complotto trovano al loro limite estremo la
gratuità: la razionalità totale dell'architetto Lang scopre al proprio cuore
un fondo nero, irrazionale. In
Profezia di un delitto Rochefort organizza un intricato piano omicida
(senza uccidere di persona) così per gioco, in
All'ombra del delitto il
livido melodramma di inizio film si trasforma imprevedibilmente in un fascio
di percorsi sconnessi e senza influenza reciproca, un motore narrativo che
sceglie di girare a vuoto per puro gusto della sorpresa e dello spiazzamento.
Tutti i suoi film spionistici (il ciclo della
tigre, Criminal story, Sterminate
gruppo zero) esasperano le contorsioni perverse del feuilleton
spionistico fino ad arrivare a una grande leggerezza ludica. Il demiurgo
aristocratico di I bellimbusti
rovina meticolosamente vite e amori per vendicarsi di una puerile bravata
adolescenziale. Anzi: Chabrol si diverte soprattutto ad affossare quelli che
possono essere le incarnazioni di qualche principio organizzativo del suo
caos non appena li fa maliziosamente venire a galla. In questo senso
l'autore francese, incarnandosi come regista in personaggi del genere, tende
più volte a sparire (dietro la storia, dietro a qualche automatismo
autoriale - Chabrol ama il cinema americano classico e l'automatismo
perfetto della sua macchina espressiva...): il protagonista di Ucciderò
un uomo, con quel suo bloc-notes che gli serve a tenere il suo piano
sotto controllo, ritorce la vendetta infine contro sé stesso, contro la
falsità del proprio sentirsi estraneo ai peccati altrui, e decide di sparire
in mare; in Dieci incredibili giorni
Michel Piccoli detective improvvisato espia l'hybris di aver risolto il
giallo in cui era implicato inventandosi una fantomatica coresponsabilità. E
così via: ogni tentativo di emergere con forza al di sopra del quadro di
forze del plot tende sempre a essere ricacciato nel deflusso infinito di
variabili in cui si agitano le storie di Chabrol.
Ma è proprio questa impossibilità della totalizzazione (se non beffarda come
per la statua finale di La damigella
d'onore) a impedire a qualunque tentativo di analisi su questo corpus
di chiudersi. I percorsi praticabili dentro l'intrico infinito che Chabrol
compone di anno in anno, di film in film, si estende ben oltre questi
esempi, lasciati aperti e irrisolti in modo curiosamente coerente con la
sostanza pratica dell'universo chabroliano.
Torino, 20:11:05 |