24.MO TORINO FILM FESTIVAL

 

10/18:11:2006

TORINO

di Davide GHERARDI e Marco GROSOLI

 

Report #1
Eccomi sbarcato in grembo alla solita opprimente architettura sabauda, infine persino piacevole una volta che ti sei abituato alla sensazione di percorrere una città progettata per persone alte tre metri. Un clima ancora tiepido, iniezioni d’aria primaverile. Getto un’occhiata alla situazione logistica del Festival, prima novità: una nuova multisala in funzione, il Cinema Ambrosio, sporto sull’arteria del Corso Vittorio Emanuele II. Strano posto quello, in bilico tra un cocktail-bar anni ’80 per dentisti di Miami Beach e la sala d’attesa di un aeroporto…
Ma comincio a scorrere il programma del festival e già so che il taccuino di un grafomane qui ha da riempirsi compulsivamente; gli occhi del cinefilo, pure. L’edizione 2006 si presenta particolarmente ricca, variegata.
Innanzitutto gli appuntamenti “mondani” includono la presentazione della seconda “stagione” della serie americana horror (già assunta al culto) “Masters of Horror 2”, con la taumaturgica presenza dal vivo di Dario Argento e John Landis; la scorsa edizione questa serie ci ha riservato delle notevoli emozioni, sopratutto grazie alla visione dell’acuto pamphlet politico di Joe Dante, "Homecoming", dove il mito dello zombie, l’eterno ritratto scoperto di Dorian Gray o cattiva coscienza collettiva sulla guerra, veniva piegato all’invettiva contro la presenza militare in Iraq.
Anche questo anno ci aspettiamo delle grandi cose, dai “signori dell’orrore”…


Nell’ambito dell’importante retrospettiva dedicata a Robert Aldrich sarà presente la figlia in sala, per parlare dell’iniziativa che ha visto la famiglia del regista collaborare con l’organizzazione, mettendo a disposizione un “folto archivio” privato.
Il grande maestro Claude Chabrol, richiamato dalla programmazione delle seconda parte della lunga retrospettiva a lui dedicata, si sottoporrà ad un dialogo “socratico” con il logorroico ed arruffatissimo Enrico Grezzi (speriamo che questi non lo metta (tra parentesi) (come) (suole) (fare) (nei) (suoi) (scritti). Poi il regista Walter Hill sarà presente in occasione della sua ultima fatica: Broken Trail, (id.2006) ed il leggendario caratterista western Ernest Borgnine, in compagnia dell’amico Keith Carradine, presenterà un film molto citato ma pressoché invisibile di Aldrich, L’imperatore del Nord, 1973.

Le retrospettive collaterali come sempre costituiscono l’occasione per la sostanziazione del festival stesso. Quest’anno sono da segnalare la retrospettiva dedicata a Joaquin Jordá, catalano, figura chiave del cinema europeo contemporaneo e recentemente scomparso, l’omaggio al cineasta ferocemente sperimentale Piero Bargellini, e l’evento speciale dedicato ai film restaurati in 8mm della famiglia di celebri circensi Togni.



Questa mattina ho avuto modo di apprezzare Monos come becky, 1999, docu-fiction imperniato sulla ricostruzione del profilo del controverso neurologo Nobel Egas Moniz, ideatore del procedimento dell’asportazione chirurgica del lobo frontale allo scopo del contenimento dei malati mentali troppo aggressivi. Il film è interpretato da un attore che ha subito una lobotomia secondo moderne procedure moderne, e coinvolge i pazienti di un istituto psichiatrico. Vengono citate le tappe del percorso del neurologo. Emerge una figura limacciosa, tra smanie di onnipotenza, e grandeur umanistica. La camera segue i bordi frastagliati di un continuo sconfinamento della vita degli attori e disegna con intelligenza l’affresco di una potente indagine sui confini tra malattia e norma, terapia e autoanalisi…

 


BROKEN TRAIL

USA 2006, 184'

di Walter Hill


Agli inizi del secolo, ovviamente nell'Ovest degli Stati Uniti cinque ragazze cinesi vengono vendute come prostitute a un commerciante statunitense. Il loro percorso si incrocia con quello di Tom e del vecchio zio Print, che tentano di rifarsi una vita trasportando cavalli per una grossa somma di denaro.
Non è certo una novità che Hill sia incapace di rassegnarsi alla "morte" del western. Per fortuna. E per fortuna stavolta la sua testardaggine nel voler far rivivere un mondo già passato non incappa nelle impasse di, poniamo, "Ancora vivo".
"Broken Trail" è un film esplicitamente, sfacciatamente, limpidamente televisivo (d'altronde quella è la destinazione originaria del progetto). Nella prima parte, in verità, "finge" di voler/poter tornare a una strutturazione cinematografica tradizionale (non ci azzardiamo a dire "classica", perché nel caso di Hill la cosa è complicata), e lo fa con una trovata delle sue, ovvero tirando in ballo il classico "vero", la tragedia nelle sue forme pure: è pur sempre lui che in "Guerrieri della notte" ha nascosto dietro a un genere post-classico come quello violento-metropolitano l'"Anabasi" di Senofonte. Ecco, qui incrementa la portata drammatica aggiungendo nientemento che il "coro" delle cinque cinesi che saltuariamente intervengono con i loro interrogativi su ciò che intorno a loro "le agisce" senza che, per via della lingua, non possano capirci granché.
Poi però con la seconda parte arriva un interprete connazionale e il film chiarisce meglio le sue carte. Le vedute paesaggistiche, tinte di una splendida e riappacificata luminosità (anche quando nevica), si fanno sempre più frequenti, il ritmo si ammorbidisce, l'azione non prova nemmeno ad essere centrale, l'inseguimento dell'avanzo di galera contro il manipolo di outsider si palesa un fantoccio narrativo, buono solo a tenere insieme l'emergere dei caratteri e delle loro storie, nonostante la prima parte terminasse con un accenno a una possibile deviazione del film verso il filone "genesi tragica del capitalismo" stile "I cancelli del cielo". Invece no, tant'è che Tom "diventa grande" quasi per caso e la sua liberazione dall'inettitudine verso la figura paterna (che Thomas Haden Church esprime attraverso una geniale reincarnazione di Warren Oates, che era appunto nato per questo tipo di parti) avviene sparando alle spalle del nemico (e salvando la vita dello zio) in una scena che quasi non ha preparazione, che viene sbrogliata in due minuti per passare ad altro: tutto il contrario dunque della sparatoria finale di "Open range" di Costner, per esempio.
A Hill interessa di più indugiare sullo "spirito dell'epoca", sull'aria delle praterie e sulla sensazione di 300 cavalli al galoppo - ma tutto questo non per farne una banale cartolina. Si tratta piuttosto, come Print ripete tutte le volte che muore qualcuno (che è poi ciò che davvero scandisce il tempo del film, più che l'azione), del fatto che "viaggiamo attraversando l'eternità", e nulla come la semplice transitorietà di questi elementi naturali è in grado di dircelo. Hill, insomma, si arrende ala televisione e alla "mancanza di tempo lineare" del suo flusso eterno, statico, e anziché mimare quell'eternità con l'imbalsamazione delle forme (come in "Ancora vivo") sospende (o quasi) la narrazione e si concentra sulla tonalità soffusa di tutto ciò che rimane. Solo in questo modo la malinconia del personaggio di Print, che invade la scena nella seconda parte diventandone il perno, riesce a non diventare stucchevole né gratuita. Disillusione senza rassegnazione, né cinismo.

Voto: 26/30
 

 


Report #2
Torino, 12:11:2006

Squarci di Piero Bargellini…
Un cineasta cosiddetto underground, una vita intensa, che inseguiva un’idea di cinema come visione, come lo sbocciare di una dimensione di alterazione della pupilla, affiorare di rivelazioni entro la sincope dei salti, interruzioni, di senso, uno che cercava il cinema con un “misero” 8 mm, 16 mm; ed i corpi di questi suoi film lacerati, feriti ai limiti dell’intellegibile da decomposizioni chimiche, lacerazioni del corpo pellicolare, sovraesposizioni, e tutte la altre torture che lo sperimento inseguito inseguiva, hanno il sapore, oggi, di una presenza attuale, di una testimonianza affiorata dal sonno, dalla sabbia di un oblio, che tutti conosciamo.
 


Dopo aver visto Dante no es únicamente severo… di Joaquín Jordá, Jacinto Esteva Grewe.

Un film che è stato collocato all’epicentro di una nuova generazione di cineasti catalani. Come è stato detto nel corso della presentazione Jordá è un tassello importante per la conoscenza del cinema europeo moderno e contemporaneo. E dopo aver visto Dante ne sono pienamente convinto: film basato sul concetto della divagazione, alla Godard, di cui recupera, rasentando a volte l’orbita epigonale, tic e stilemi, ma soprattutto i materiali significanti; attori “giusti”, movimenti di camera “a pendolo”, disponibilità a rompere la trasparenza narrativa, etc…
Cosa avviene? Ci sono un uomo ed una donna (tra cui Enrique Irazoqui, che girerà poi il Vangelo di Pasolini) che mettono in scena un discorso amoroso che non conduce da nessuna parte, avvitandosi a spirale. Il vero protagonista è la regia: assoluta, dittatoriale. Il film termina con un’operazione chirurgica diretta all’occhio di una bellissima modella (che imbocca retrospettivamente il senso di diverse violente immissioni dell’immagine di occhio operato).
Metafora fin troppo scoperta.
Ma allora scoperta. Rimbaud, cito a memoria: “ho preso la bellezza sulle ginocchia, e l’ho ingiuriata”…

 

 

 

PAVILION SANSHO-UO

Giappone 2006, 98'

di Tominaga Masanori

In Concorso


Kinjiro è una salamandra di più di 150 anni: il suo "debutto in società" lo fece, giovanissima, in una delle esposizioni universali del secolo XIX. Una danarosa fondazione è da decenni preposta alla sua salvaguardia. Tobishima è un giovane radiologo incaricato dalla mafia di scoprire l'autenticità della salamandra. Ma si innamora della figlia della titolare della fondazione.
Ma c'è qualcosa di più strano di questa trama, ed è l'approccio stilistico del film. Non certo perché Pavilion sansho-uo sia una delle mille scatenate bizzarrie camp giapponesi pieni di trovate stilistiche sopra le righe cui siamo ormai abituati. No: Pavilion sansho-uo comincia con toni posatissimi e addirittura seriosi, e tra madri finte e padri che non ci sono cominciamo a figurarci un affresco iperletterario che stia per intrecciare un kammerspiel famigliare a metafore anfibie (la salamandra...) sul cosmo, borioso e pesante.
Poi però le incrinature verso la commedia si moltiplicano, e la regia, piuttosto funzionale con i suoi lenti movimenti di macchina di calibrata funzionalità, accoglie mille fessure e altrettante aperture verso l'assurdo. Il bello però è che il tono mantiene lo stesso la sua solidità impassibile ed evita sempre accuratamente di sbracare nel grottesco. Anche quando a metà film senza alcuna ragione il protagonista vende tutto e pur di aiutare la ragazzina di cui è innamorato si atteggia a reincarnazione di Salvatore Giuliano, con tanto di picciotti con coppola e lupara, Tominaga "ne prende atto" e fa continuare il film come quasi niente fosse.
Insomma, Tominaga è bravo (fino al leziosismo) a condurci in una discesa nell'irreale che non potrebbe essere meno traumatica, anzi pressoché impercettibile. Abbiamo così una compunta voce over che dopo aver fatto finta di condurci nelle intricate spire della storia scantona tranquillamente nel delirio, e in flashback e forward improvvisi, per poi farsi da parte nell'istante seguente. Come la colonna sonora, che frequentemente da un secondo all'altro si interrompe bruscamente e inaspettatamente, il film si fa apprezzare perché è fatto tutto da scuciture del tessuto che si rimarginano istantaneamente, e riesce così ad essere stralunato senza averne nemmeno l'aria.

Voto: 26/30
 



Report #3
Torino, 12:11:2006

Circo Togni Home Movies
La pelle incespata di uno strano rettile. Delle mani cruente lo stanno scorticando. Forse. Oppure è avvolto ad una bobina, che lo srotola. Le squame iridate. O forse è la superficie di un essere marino primordiale, dal guscio affiltto di mucillagini ed incrostazioni corrosive. Disorientamento. Poi sovviene la musica, si stacca dal silenzio con un rombo sordo che si ripercuote e rimbomba entro i gradi più liminari della gamma auditiva, mimando quella forma informe: la sussume. E’ come un indovinello senza chiave. Finché dall’impossibile cruciverba d’immagini masticate o lacerate espode qualcosa: denotazione di fauci ferine. La testa animale viene riassorbita dalla scia impetuosa di colori cauterizzati. Tutto finisce, mentre il flusso musicale asseconda e dirige lo sguardo. Compare un uomo, è prestante, è sorridente, è il forzuto di un circo, perché entra senza timore in una gabbia, impone senza battere ciglio degli esercizi ad una tigre, e flette i suoi muscoli. Poi il tendone: un cielo lunare di garza solcato dai corpi nervosi di acrobati che si esercitano al trapezio. Il forzuto, un po’ Douglas Fairbanks, un po’ Valentino, gioca con un bambino, certo suo figlio; nel campo visivo entra una donna, fa l’occhiolino; certo sua moglie. Lo scenario è ben chiaro ora: il Circo, tradotto da una vulgata visiva che ne è l’affidabile terreno comune. Ma questo non è un film comune, è un reperto intimo, contiene vertigini, bestie e sorrisi rivolti ad amici, amanti, famigliari. La musica scheletrica cresce, instilla pozzanghere di echi spettrali in cui nuota qualcosa, un tormento ossessivo, che sfocia in un geyser di white noise; germina inseguendo le immagini. Compare una scritta: “Circo Togni, Darix”. La vita nei carrozzoni si snoda per percorsi lontani, compaiono strade e piazze affollate di città straniere. Darix accoglie una processione di gente all’interno del suo circo. Nel frattempo un weekend di surreale “normalità”, i pachidermi che fanno il bagno mentre la mamma si rosola al sole. Vedo la routine, i tirocini degli acrobati, dei giocolieri, un viaggio in areo, un viaggio in nave, un elefante imbracato che viene calato dall’alto mentre scalcia. Infine la lunga trasversata delle montagne, le Alpi?, di un intero caravanserraglio (mi viene spiegato all’orecchio che si tratta di una strategia pubblitaria, emulare l’impresa di Annibale ripercorrendone il tragitto). Tornano le luci spazzando via quei volti di eroi già così dolcemente famigliari. Seconda parte: il“carosello” ambientato in un circo, dove un ispettore da operetta dà la caccia all’assassino e smaschera il clown Bongo, che aveva svuotato del mercurio giroscopico l’asta della trapezista. Infine tenta di venderci della brillantina. I Togni ne avevano conservata una copia per farci su quattro risate… Non ne avevano bisogno comunque, facevano già una vita magnifica….

L’associazione "Homemovies" gestisce e cura l’Archivio Nazionale del Film di Famiglia, avamposto etico dedicato alla salvaguardia e alla valorizzazione dei filmati famigliari, diari visivi e realizzazioni intime, come possibile fonte futura di preziose testimonianze storica. Un giorno i gestori vengono contattati dalla leggendaria famiglia circense dei Togni. Dentro un carrozzone, esposto ad ogni intemperie, giace scempiato, forse in maniera irrimediabile, il patrimonio degli 8mm di famiglia. In collaborazione con il laboratorio di restauro “La camera ottica” dell’Università di Udine nasce il progetto di recuperare le pellicole superstiti, dal contenuto di sicuro interesse. L’impresa riesce e viene quindi deciso di mostrare un ri-montaggio dei film recuperati nella Sezione “Latitudini” del Festival di Torino con l’accompagnamento di una sonorizzazione estemporanea di Stefano Pilia. Il risultato è un’ibridazione notevole, l’incontro “aurale” sospeso tra immagini che contengono squarci di rara bellezza e l’esecuzione, irripetibile ed ispirata, di Pilia.

 

 

 


MANORO

Filippine 2006, 75'

di Brillante Mendoza

In Concorso


Jonalyn è una ragazzina che insegna agli abitanti di sperduti villaggi filippini a scrivere. Un compito particolarmente importante in vista delle elezioni presidenziali, in occasione delle quali tenta di raggiungere (insieme al padre) il nonno, che abita piuttosto lontano, per far sì che anche lui possa votare. Ma il nonno preferisce andare a caccia di cinghiali.
Manoro è un esempio di particolare "felicità" d'uso della telecamerina digitale, usata con notevole versatilità espressiva per rendere il meno "legnosa" possibile la sovrapposizione di fiction e documentario. Sovrapposizione inevitabile in casi come questo, in cui gran parte delle intenzioni e della credibilità del progetto si reggono sull'affidabilità documentaria del resoconto sull'ambiente in questione. E in questo senso funziona piuttosto bene, il contesto "rural-forestale" dell'entroterra filippino è dipinto con un'efficacia e un'immediatezza di tutto rispetto.
L'azione e la descrizione del contesto sono intrecciate strette fino a frantumarsi a vicenda, e i limiti angusti della "singola scena" o sequenza debordano verso un accumulo annaspante di dettagli strappati all'una e all'altra.
Una caoticità ricercata che però non è incoerenza e non sacrifica la leggibilità che viene ad assumere l'insieme come il singolo dettaglio. L'articolazione dei dati raccolti dalla telecamera, poi, lascia sufficientemente aperto il dissidio tra "ruvidità" ingovernabile dell'oggetto in questione (un intero mondo sociale "sommerso") e rielaborazione linguistica: basti pensare alla lunga parentesi centrale in cui Jonalyn e il padre attraversano a piedi (spesso a piedi nudi) la foresta, una pausa narrativa (non succede nulla, solo una lunga marcia) integralmente votata alla difficoltà delle condizioni in cui si trovano i due. Proprio come Jonalyn, Manoro rincorre un'alfabetizzazione del reale perdente in partenza, ma non inutile. Lo sguardo esibisce la propria difficoltà a farsi strada in un ambiente concretissimo, compatto e sovrastante, che ha sempre l'ultima parola. Ma non per questo si arrende.

Voto: 26/30
 

 

Torino, 15:11:2006, in corso..