BROTHER
di Takeshi Kitano
recensione di
Andrea DE CANDIDO
Kitano, nel contesto mondiale del cinema, è assolutamente senza
uguali. Sia come personaggio che come attore: con lo pseudonimo di Beat
Takeshi, Kitano ha infatti preso parte non solo alle proprie opere, ma
anche a film di cassetta come Johnny Mnemonic (1995) di Robert Longo,
pellicole d'essai (l'ultima è Gohatto di Nagisa Oshima), nonché
a produzioni-spazzatura per la televisione nipponica (note anche in Italia
come "Mai dire Banzai!"). In Giappone, poi, il suo stile comico
è popolarissimo. Oltre a ciò, comunque, Kitano è
- almeno a nostro avviso - anche il più grande ed originale tra
gli autori cinematografici la cui maturità coincide pressappoco
con l'ultimo decennio; un regista che, per limitarci al caso di Hana-bi
(1997) - tacendo di Sonatine (1993) - ha saputo immaginare e rendere concreta
un'originale estetica della violenza quando era ancora di grido la rivoluzione
Pulp Fiction.
Le vicende narrate da Kitano sono praticamente tutte variazioni - con
l'eccezione dell'assurdo Getting Any? (1994), visto in Italia pochi anni
orsono grazie alla personale itinerante dedicata al regista dal Bergamo
Film Meeting - sulla struttura dello "yakuza-movie", uno dei
generi cinematografici più popolari in Giappone; nonostante ciò
ognuna di esse si distingue per uno spiccato indice di innovazione visiva
e narrativa. Il citato Hana-bi rimane tutt'oggi un grandioso esempio di
equilibrio tra esplosioni improvvise di violenza sfrenata, pause di ironia
naif e fasi di chiara poesia per lo schermo (l'utilizzo dei quadri dipinti
dallo stesso Kitano). Le due ore de L'estate di Kikujiro (1999) corrono
invece senza incertezze sul baratro del comodo sentimentalismo e della
comicità più facile con esiti quanto meno rari. E ora con
Brother - a Venezia fuori concorso, per esplicita scelta dell'autore -
Kitano ha portato il suo gangster della Yakuza negli USA, in una città
che identifichiamo con Los Angeles solo grazie alle didascalie, tanto
è lontana dallo stereotipo hollywoodiano. Non per questo Yamamoto
(naturalmente Beat Takeshi), dimentica i suoi principi di guerriero, prossimi
a quelli di un samurai. Prima di tutto la fedeltà al fratello yakuza,
e poi il sacrificio di sé in ragione della causa, qualsiasi essa
sia (qui si tratta di prendere possesso del locale mercato della droga).
Da queste premesse Kitano ha scelto di approfondire ulteriormente la sua
poetica della violenza; una violenza che qui è difatti letta non
unicamente nell'accezione attiva, di aggressione verso il prossimo, ma
pure in quanto equo e necessario strumento di autopunizione. Il suicidio,
allora - diversamente da quanto accade in Hana-bi - non può avere
carattere liberatorio: è all'opposto saturo di una brutalità
ricercata e apertamente esibita in segno di pentimento. Ecco perché
l'impietosa messa in scena di un harakiri - certamente tra le cose più
brutali mai viste in un film non horror - non va vista come mero e gratuito
spettacolo barbaro. Per un gangster della Yakuza scegliere la violenza
è un qualcosa di ineluttabile, da accettare e così - come
in un noir di Melville o, di recente, in Ghost Dog di Jarmush - anche
la morte per mano altrui è solo uno degli eventi possibili, anzi
pressoché necessario, del quale è casomai concesso scegliere
modo e momento.
Se Kikujiro puntava molto su di una comicità quasi slapstick, la
leggerezza che questo garantiva pare assente in Brother: ciò, tuttavia,
non è completamente esatto. Pur senza tenere conto di momenti il
cui cinismo spinge la comicità a livelli decisamente alti (i "suggerimenti"
di Kitano ad una delle sue vittime), ci sembra infatti che l'ironia attraversi
il film come una presenza costante ma sottintesa, intrappolata nel viso
di Yamamoto e, più in generale, in una visione nichilistica dell'esistenza,
in nome della quale, non esistono cose realmente importanti, al di là,
forse, dell'amicizia: perché, dunque, perdere la calma?
Molto sarebbe ancora da dire sul contatto tra Kitano e il gangster-movie
americano, su alcune delle sue stereotipie narrative traslate oltreoceano
o a proposito di invenzioni come un lunghissimo piano sequenza, in chiusura,
fatto praticamente di una sola parola. Ci sarà certamente tempo
per farlo.
IL VOTO DI KINEMATRIX: 30/30
|