L'UOMO SENZA OMBRA
di Paul Verhoeven
con Kevin Bacon, Elisabeth Shue e William Devane
recensione di
Andrea DE CANDIDO
Come spesso accade, i quesiti che seguono alle scoperte scientifiche
sono, in realtà, nient'altro che nuove versioni o aggiornamenti dei medesimi
dubbi che seguono l'uomo dagli inizi della civiltà.
Fino a che punto, ad esempio, il timore di una condanna è più forte ed
efficace dell'effettiva adesione alle regole del diritto umano? Potrebbe
essere formulato anche in questi termini l'interrogativo alla base dell'ultimo
film di Verhoeven, L'UOMO SENZA OMBRA perché, una volta smarriti gli obiettivi
del proprio progetto, il dottor Sebastian Cane (Kevin Bacon), divenuto
invisibile, giunge a credersi onnipotente e dunque immune a qualunque
regola. Il primo desiderio da realizzare? Naturalmente un sogno voyeuristico:
è così che il neo-uomo invisibile si introduce nell'appartamento
di una splendida dirimpettaia. Ma non si limita a spiarla.
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Un tema talmente sfruttato, quello dell'uomo invisibile, da costituire
in pratica una sorta di filone, le cui origini si identificano con THE
INVISIBLE MAN (1933) di James Whale per giungere, in anni recenti, ad
un Carpenter minore come LE AVVENTURE DI UN UOMO INVISIBILE (1992). Tuttavia
Paul Verhoeven, in passato, aveva diretto pellicole mai troppo lontane
dai canoni del film di genere ma, nei casi più felici, forti dell'introduzione
di accorgimenti sufficienti ad elevarne il livello rispetto all'eccessiva
omologazione chiesta dalle majors. In particolare ROBOCOP, con la scusa
dello scheletro thriller, poneva in modo inedito il non originalissimo
quesito del rapporto uomo/macchina, puntando decisamente sul ruolo chiave
della sensibilità umana residua. Per questa ed altre ragioni era lecito
fidarsi ed aspettarsi molto da lui.
Eppure, ne L'UOMO SENZA OMBRA, il taglio del regista di BASIC INSTINCT
sembra piuttosto sfumato, nonostante il soggetto non fosse privo di aperture.
Oltre infatti all'episodio citato, non sono molte di più le spinte
che guidano l'agire di Cane, se non la vendetta per una storia d'amore
conclusa e la generica brama di potere. Carpenter, nel citato film su
commissione, aveva ad esempio puntato molto sulla profonda solitudine
esistenziale del proprio protagonista. Qui l'altra faccia dell'invisibilità
pare quasi non esistere, se non nell'impossibilità di specchiarsi
o di uscire tranquillamente dal posto di lavoro. Alla negazione di un
contatto con il proprio corpo o, per dirne una, all'inevitabile crisi
di ogni rapporto sentimentale non si fa cenno. Il personaggio di Kevin
Bacon pare solamente impazzire, schiavo non tanto di qualche effetto collaterale
ma soprattutto della smania di potere, che lo spinge oltre ogni limite.
Ma tutto si ferma qui. O meglio: ci sono gli effetti speciali, ma perché
sprecare la possibilità di un racconto più complesso (la mente
corre a MATRIX) in nome dell'appeal garantito da miracoli digitali mai
visti prima ma, lasciati soli, piuttosto freddi? Ormai il pubblico si
aspetta anche più di ciò che i geni della Industrial Light & Magic o altri
loro colleghi possono dare: ci si può anche stupire, ma dura poco. E il
rammarico è ancora più grande alla luce di quanto detto sopra sull'opera
di Verhoeven.
Chiusa la prima parte, poi, il film diventa un comune action-thriller
nel quale, come sempre, i protagonisti non riescono a vedere l'assassino
o il nemico in genere finché questi non si avventa su di loro; il fatto
è che questa volta il cattivo è realmente impossibile da
vedere. L'ultima mezz'ora, piuttosto scontata nell'evoluzione e nella
messa in scena, avrebbe potuto tranquillamente essere diretta da un Dominic
Sena qualunque o dal John McTiernan in crisi che abbiamo visto dirigere
IL 13° GUERRIERO. Un peccato, peraltro spesso noioso.
IL VOTO DI KINEMATRIX: 25/30
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