LA SOTTILE LINEA ROSSA
di Terrence Malick
con Sean Penn, Nick Nolte, Ben Chaplin e Woody Harrelson


 

recensione di
Mirco GALIE'

THE THIN RED LINE, il capolavoro cinematografico tratto dall'omonimo romanzo di James Jones, segna il ritorno alla regia di un grande autore a vent'anni di distanza dal suo ultimo lavoro (I GIORNI DEL CIELO, 1978). Il fervore intellettuale e la spiritualità del regista-filosofo Terrence Malick si mostrano in tutta la loro raffinatezza in un film nel quale la vicenda bellica dell'assalto americano a Guadalcanal Ë soltanto un dispensabile espediente narrativo per compiere un viaggio totalmente introiettato negli spazi dell'Essere, una ricerca verso il termine ultimo "dell'Esistere" dell'uomo e delle cose, tanto affannosa quanto foriera dell'angoscioso presentimento di pervenire al non-luogo dove la sottile linea rossa che separa la guerra dalla pace, l'odio dall'amore, la virtù dal peccato, l'Essere dal Nulla, svanisce con l'indifferenza di un coccodrillo che affonda lentamente nella torbida acqua di un fiume.
Gli sguardi su cieli di foglie trafitte da raggi di luce, su uccelli variopinti, su fili d'erba fruscianti sotto le carezze di un vento enigmatico e inquietante, su foglie che si rattrappiscono al contatto con la mano dell'uomo, mostrano una natura sublime, meravigliosa e terribile, animata da un afflato divino, assunta a simbolo e rappresentazione di un Essere Unico e multiforme: "siamo tutti volti di uno stesso essere, un essere con infinite forme", a cui appartiene ogni verità insieme con il suo contrario: "il buio dalla luce è il frutto di una sola mente, il tratto di un unico volto". Ad esso appartiene il Male, in esso dimora quella necessità devastatrice i cui boati scuotono le membra straziate di un uccello in una patetica e disperata contorsione; i cui colpi proiettano schizzi di sangue sui fili d'erba della collina; la cui assurda violenza esplode in bagliori di fuoco e cosparge il creato di urla, lacrime e morte. "C'è una forza vendicativa nella Natura, perché la Natura lotta contro se stessa, perché la Terra combatte contro il Mare?". Ma ad esso, all'Uno, appartiene anche l'amore, quella soavità dello spirito che riscalda il cuore, quel sogno che ci aspetta "dall'altra parte, su quelle colline blu" per cullarci con la dolcezza di un grembo materno, per inebriarci del suo odore celeste, ma che non disdegna di disvelare il suo potenziale cinismo, come accade al soldato abbandonato dalla donna amata.
"Chi sei tu per vivere sotto tutte queste forme?", interroga la voce fuori campo mentre l'occhio meccanico della cinepresa contempla la ieratica bellezza della foresta; un uomo tra gli uomini, un organismo vivente tra le belve e le foglie, una forma tra le molteplici, infinite manifestazioni dell'Uno, ma irrimediabilmente costretto nella percezione della propria solitudine. Il soldato erra tra i cadaveri dopo la battaglia e di fronte al volto del nemico sconfitto Ë assalito dalla agghiacciante coscienza della propria alterità rispetto al fratello: "Chi sei tu per me? Niente". Un distanza sproporzionata separa le due vite e in mezzo ad esse un abisso buio inghiotte ogni certezza. Non più vittima né carnefice, non più innocente né colpevole, ma tutti partecipi di una necessità assoluta, di una determinazione divina e inappellabile. Un indigeno incrocia una fila di soldati in perlustrazione tra gli alberi della foresta ostentando tutta la indifferente sufficienza di una Natura che si compiace nel frantumare le presuntuose costruzioni della razionalità e ricaccia l'uomo entro i veri limiti dei suoi circuiti neuronali.
La ricerca del perché svela il suo fallimento, il miraggio della conquista metafisica delle cose si dissolve nella relatività di ogni teorema, l'architettura della morale si sgretola e svanisce in una distesa desertica. Ciò che rimane è soltanto la nostalgia di uno stato primigenio, di un modo di sentire infantile e selvaggio che forse può vivere e nutrirsi soltanto al di fuori delle sovrastrutture della civiltà e lontano dalla pretesa di forzare in una logica la dialettica dell'interiorità; "l'uomo può fare una cosa sola: crearsi un'isola attorno, una situazione che sia sua". I bambini e gli indigeni della foresta abitano forse quel "mondo nuovo" di cui Witt (Jim Caviezel) Ë interprete, un mondo dove l'uomo è in conciliazione con il proprio esistere e dove immanenza Ë l'unica vera ragione delle cose. Ma alle certezze consolatorie di Witt fa da contraltare la amara disillusione del Maggiore Welsh (Sean Penn), per il quale "non esiste un altro mondo al di fuori di questo", ma che dietro la maschera di cinismo nichilista nasconde un desiderio inappagato di dialogo con l'Assoluto: "se non devo incontrarti in questa vita, che almeno senta la tua mancanza".
Un'opera densa di riflessione, di cultura e spiritualità, nella quale la linearità del racconto è sacrificata al potere allusivo delle immagini e la filosofia esistenzialista di Martin Heidegger, di cui Malick è studioso e traduttore, si stempera in visioni, voci e suoni dall'irresistibile potenza estetica; favolosa la fotografia, mirabile la sceneggiatura, di magistrale delicatezza ed eleganza i movimenti della macchina da presa, magniloquenti i silenzi. assolutamente improponibile il confronto col suo coetaneo SALVATE IL SOLDATO RYAN, simile nell'ambientazione ma terribilmente distante per cifra artistica e soluzioni stilistiche. Non stupisce che, nonostante l'aura di cult-movie con cui è stato pubblicizzato e tutti i pettegolezzi su una presunta autoriduzione del compenso da parte del cast che ne hanno preceduto l'uscita, il capolavoro di Malick non sia stato consacrato al mercato del cinema con un premio oscar: parliamo di Arte, non di film per tutti.


IL VOTO DI KINEMATRIX: 30/30