speciale STEVEN SODERBERGH
LA MISERIA DELLA CONDIZIONE UMANA
di MIRCO GALIE'

 

In un articolo apparso nel n. 403 di "Cineforum" dedicato al premiato TRAFFIC, l'autore si rammarcava di certo atteggiamento di scarsa fiducia da parte della critica nei confronti del talento registico di Steven Soderbergh, previamente alla inattesa rivelazione del suo ultimo lavoro. Il risultato indiscutibilmente alto raggiunto con TRAFFIC viene accolto come una piacevole sorpresa che regala un nuovo nome al novero dei registi di culto, ma impone la curiosità di scandagliare la produzione precendente del nostro autore alla ricerca di quelle vibrazioni stilistiche e metastilistiche che trovano in TRAFFIC una compiuta maturazione formale. Infatti già nel felice esordio di SESSO, BUGIE E VIDEOTAPE (Sex, Lies and Videotape, 1989), che gli è valso la Palma d'oro a Cannes sotto la presidenza di Wenders, sono evidenti aspetti che denotano un gusto alieno alla standardizzazione merciforme di certo cinema di maniera. Soderbergh svela la tendenza a pilotare un cinema che scavi negli spazi infelici delle miserie umane, nelle atmosfere opache dell'universo interiore, nell'inquietudine abbacinante e senza soluzione del groviglio di sentimenti e pulsioni erotiche.

Alla voracità spudorata di John e Cynthia, che vivono la sessualità senza inibizioni morali di sorta e con apparente soddisfazione, si contrappunta il pesante torpore sessuale di Graham e Ann, idealisticamente orientati verso una sensibilità sottile, una ricerca introspettiva più attenta, ma imprigionati in una fissità sentimentale conturbante. L'obiettivo della vidocamera diventa un centro di attrazione gravitazionale che risucchia con ferocia intime confessioni portando a nudo le pulsioni più nascoste dell'anima e della passione. Graham se ne serve come un espediente di eccitazione vouyeristica e al tempo stesso come una barriera che assicura il suo esercizio autoerotico dall'impatto fisico con l'esterno. Ma questo stesso strumento viene a mediare per Graham ed Ann un processo catartico che scoperchia la melma sottostante alla loro impotenza: l'irrigidimento passionale si scopre conseguente ad un sguardo speculativo verso l'interno, ad un percorso nelle profondità maleodoranti del desiderio, analogo a quello compituo dal Bill di EYES WIDE SHUT, ma di cui Soderbergh sviluppa narrativamente soltanto gli esiti finali e il percorso di decostruzione. Infatti nella versione di Kubrick la narrazione si dipana nel racconto di un itinerario discendente verso la terribilità e l'orrore ed evolve nella "retrazione dello sguardo", nell' "arresto dell'azzardo visivo", nella "chiusura o ri-chiusura degli occhi" come procedimento risolutivo necessario alla valorizzazione del sentimento. Al conrario l'operazione introspettiva e alienante di Graham è precedente alla descrizione filmica e viene recuperata alla memoria nella confessione finale del personaggio e, tra la percezione dell'orrore e la catarsi dell'epilogo mediata dal video, Soderbergh frappone una fase di latenza nella quale i personaggi paiono ancorati a soluzioni inconsistenti, rinchiusi in un equilibrio pulsionale artificioso e fittizio, votato al distacco e alla frattura, che essi stessi hanno edificato come reazione improvvisata all'orrore ma che porta le forme di un respiro strozzato e da cui emana un senso di soffocante incompiutezza.

L'esito finale apparentemente felice, con il superamento della paura e l'abbattimento del muro comunicativo, reca il retrogusto amaro della soluzione ambigua, efficace ma non definitiva, l'odore acre di una nuova impalcatura di cartapesta destinata al tracollo, il presentimento triste di uno smascheramento non ancora manifesto ma inesorabilmente avviato. Il pessimismo sotterraneo che contraddistingue la sua particolare visione ricompare in DELITTI E SEGRETI (Kafka, 1991), in una veste parzialmente edulcorata da un'operazione un po' blasfema ma sicuramente originale: l'allegoria metafisica del "Castello" kafkiano viene trasposta con un tocco di lucida maestria nella sceneggiatura di un thriller elegante e suggestivo e la reinterpretazione narrativa delle intuizioni kafkiane non finisce per denaturarne la potenza simbolica. Il Castello che Soderbergh ci mostra, una imponente struttura architettonica pregna di umori sinistri e arredata con rozzi marchingegni tritacervello, pecca forse di uno schematismo simbolico un po' troppo di maniera ma è coerente con la scelta programmatica della citazione di stile (scenografie espressioniste, figure deformi e bieche che ricordano FREAKS, ecc.) e del tributo (Murnau non è nominato a caso) e sebbene si legga come uno strumento di appiattimento delle coscenze, e quindi metafora dell'alienazione sociale, recupera un suo significato più profondamente esistenzialista nelle scene conclusive del film. Infatti dopo l'evitabile calo nella risoluzione positiva del caso, la sconfitta dei cattivi e la distruzione del castello, il plot narrativo si concede ad un registro di allusioni più sottili ed ambiguamente pessimiste nello scambio di battute con l'investigatore ("oggi credevo che qualcosa sarebbe cambiato" - ". e perchè dovrebbe essere cambiato?") e nella lettera al padre citata nell'epilogo ("Carissimo papà, ho sempre creduto che fosse meglio conoscere la verità che vivere nell'ignoranza. Ora scoprirò se avevo ragione. Non posso più negare di essere parte del mondo che mi circonda, nè posso negare, nonostante le nostre differenze di vedute, di essere tuo figlio. Quindi spero soltanto che queste tardive e forse insignificanti intuizioni possano dare ad entrambi qualche piccola certezza e rendere il nostro vivere e il nostro morire più lievi"). Torna l'ambiguità della soluzione esistenziale: lo slancio speculativo si risolve nell'impatto con un potere sproporzionato e approda nell'equilibrio precario fondato sulla "forse insignificante intuizione" di un nuovo comandamento: accettare la contraddizione come formula dell'ordine che governa il mondo, nella speranza di vivere allegeriti della soffocante esigenza di comprenderne il mistero.
La sperimentazione linguistica di Soderbergh mette a segno un altro colpo con IL PICCOLO GRANDE AARON (King of the Hill, 1993), una gradevole storiella dove i tratti fiabeschi si impregnano di malumore languido e di rassegnazione. i colori caldi, i toni composti e la tenera goffaggine dei personaggi raccontano una commedia dolce, poeticamente inverosimile, compassionevole ma non retorica, che cova sotto la fluente levità della favola per bambini il senso di una commossa impotenza esistenziale. Nelle opere successive la solidale partecipazione alle miserie dell'uomo e del mondo si fa sottesa a formule narrative più tradizionali e più facilmente fruibili per un pubblico meno esigente, con risultati forse più soddisfacenti sul piano commerciale ma di certo meno dignitosi su quello della ricerca estetica.
TORBIDE OSSESSIONI (Underneath, 1995) mette in scena un thriller cupo e introverso che richiama le atmosfere del film d'esordio. La forma narrativa è quella del cinema commerciale, ma un senso di lugubre pesantezza permea le scene ed avviluppa personaggi che sembrano albergare quella contraddizione tra la colpa morale e la condanna predeterminata al peccato ormai denotativa del cinema di Soderbergh.

In OUT OF SIGHT (1998) e soprattutto nell'L'INGLESE (The Limey, 1999) l'elaborazione stilistica e narrrativa sopravanzano la riflessione intellettuale, anche se con risultati che si fanno apprezzare sul piano formale.
ERIN BROCKOVICH rappresenta forse una parentesi più triste nella filmografia di Soderbergh, che raggiunge qui quella lassezza intellettuale e quella faciloneria buonista molto apprezzate per la candidatura all'oscar. sebbene il film si regga un su un ritmo ed uno stile narrativi che concedono al racconto una godibile fluidità, sembra il prodotto ben vendibile di un predicatore da parrocchietta e la pretesa di denuncia sociale, facile e scontata, è secondaria alla melodrammatizzazione in pieno stile hollywoodiano di una storiella che vorrebbe solleticare la curiosità pettegola del pubblico sfruttando la seduzione del fatto di cronaca reale; non a caso il film è introdotto da una pretenzionsa precisazione: "questo film è tratto da una storia vera".
TRAFFIC è una performance particolarmente felice dove torna in modo più esplicito la visione del "male" come materia intricata in maglie complesse, difficili da individuare e da dirimere. Soderbergh affronta un tema sociale importante, quale il fenomeno del narcotraffico, rifuggendo la facile retorica di additare colpevoli e vittime, ma impostando un discorso assai più critico e profondo, nel quale, senza la pretesa di definire sentenze e proporre soluzioni definitive, si riconosce come nella trama degli intrecci criminosi vengano spesso a confondersi interessi personali e familiari, e come la potente fascinazione delle gioie artificiali indotte dall'uso di droga, sia drammaticamente alimentata dal malessere che permea la realtà di una impalcatura socio-culturale dove l'efficienza e la produttività sono elette a valori cardine e l'umanità naturale dei flussi emozionali è ridotta a debolezza. L'analisi è lucida e mostra la complessità di un problema che affonda le sue radici nell'idea antropologica e ancor più avanti filosofica della degenerazione, forse inevitabile, che l'evoluzione ed il progresso si trascinano dietro.


IL LAVORO SULLO STILE

Nella filmografia di Soderbergh sembra si possa individuare una trasformazione del coinvolgimento speculativo che da un quasi lirico accanimento introspettivo si converte in una sorta di compiacimento autoironico. I personaggi dei suoi racconti sono per lo più caratterizzati da una goffaggine triste, non moralmente direzionati verso gli stilemi drammatici dell'eroismo o della malvagità, ma piuttosto carichi di una umanità verosimile e credibile, talvolta vittime di una sorta di cinismo esistenziale anche laddove fanno la parte dei cattivi (ad esempio il padre di Aaron). Mentre in SESSO, BUGIE E VIDEOTAPE e DELITTI E SEGRETI Soderbergh tenta una analisi introspettiva ed esistenziale profonda e compiuta, esplicitata negli elementi della storia, nelle opere successive fino a L'INGLESE il suo pessimismo rimane condensato in una stilizzazione che tende a decostruire gli stilemi drammatici del genere.

Nel PICCOLO GRANDE AARON i personaggi non sono le icone di un codice morale solidamente preconfezionato come accade nelle fiabe tradizionali. Allo stesso modo nei polizieschi, soprattutto OUT OF SIGHT e L'INGLESE, l'enfasi delle scene di violenza e dei nodi narrativi è demolita da espedienti tecnici che ne alleggeriscono il carico drammatico. In OUT OF SIGHT le due tracce narrative che si sovrappongono, quella della love-story e quella dell'inseguimento poliziesco, conservano sempre una leggerezza di tocco ed un sapore lievemente noir, ma sono sviluppate secondo un registro che attinge vagamente alle forme della commedia paradossale e sgangherata e finiscono così per indebolirsi a vicenda in un intorpidimento gradevole e autoironico.
Nell'INGLESE molte scene di violenza vengono raccontate con la medesima sensibilità: ad esempio l'irruzione nel magazzino e l'eliminiazione degli scagnozzi di Valentine all'inizio del film, oppure l'uccisione dell'agente di sicurezza alla festa di Valentine, ripresa sullo sfondo dell'inquadratura dietro le spalle del padrone di casa. Il ritmo non conosce accelerazioni drastiche, non è mai forzatamente sostenuto, ma gradevolmente rilassato e nello scorrere dei fotogrammi e delle azioni spesso si incorre in rallentamenti o stop frame che debilitano il pathos della scena piuttosto che enfatizzare l'azione. La forza di Soderbergh nei film più commerciali è di mostrare di non prendersi sul serio. L'eccezione che conferma la regola la troviamo nella figura di Erin Brokovich, definita secondo i canoni della volgare epica americana, forzatamente tesa ad esaltare la determinazione morale e le doti di temerarietà, ma che ci rende un personaggio odioso per la sua grossolana sfrontatezza, la sua irritante chiassosità e il suo insopportabile cattivo gusto.
Ad allegerire il pathos contribuisce, anche in ERIN BROCKOVICH, l'originale utilizzo del sonoro che risulta impostato su toni sommessi, che viene a creare una sorta di substrato vellutato su cui si adagia delicatamente una narrazione scorrevole e dicreta, lontano dalla esasperazione melodrammatica invadente e spocchiosa che contamina grossa parte del cinema e sembra ormai divenuta regola di stile.

Di particolare interesse è il lavoro che Soderbergh compie sulla frammentazione temporale: in OUT OF SIGHT e soprattutto ne L'INGLESE e TRAFFIC il plot narrativo è assemblato secondo una scansione temporale sgagherata, attraverso ricombinazioni casuali apparentemente aliene da una logica narrativa: proiezioni prolettiche, "clonazione" di sequenze e fleshback spiazzanti. L'incoerenza programmatica si espande ne L'INGLESE alla desincronizzazione o totale dissociazione tra l'immagine ed il parlato: primi piani di volti immobili cui è sovrapposta la voce fuori campo del personaggio inquadrato: parole dette prima dell'istante documentato dall'immagine, oppure dopo, oppure solo liberamente associate. Degno di nota è anche l'abile ricorso alla tecnica del falso raccordo. Curiose infrazioni tecniche che solo i virtuosi del montaggio possono permettersi e che, turbando l'armonia percettiva del tempo e dello spazio, hanno un effetto spiazzante sullo spettatore.
Non meno importante è l'uso del colore: il BIANCO E NERO di DELITTI e SEGRETI, i toni acidi di SESSO, BUGIE e VIDEOTAPES, le luci caldissime del PICCOLO GRANDE AARON, i verdi de L'INGLESE, per arrivare alla suggestiva elaborazione cromatica di TRAFFIC, in cui il giallo ardente del deserto messicano, passando per l'esplosione dei luoghi solari della California, vira nelle nelle tinte opposte della scala croomatica allorchè si arriva ai palazzi del potere o ai nidi della borghesia capitalista.. Soderbergh si sollazza a sperimentare nuove soluzioni estetiche lavorando in modo originale sul montaggio, elaborando vezzi stilistici che contravvengono alle regole tecniche più tradizionali ma esibiscono un tocco che denota maestria e sapienza registica e soprattutto cercando, tranne in alcuni perdonabili casi, di asservire la ricerca formale alla proposizione di sensibilità poetica e di riflessione intelletuale: dichiara di essere appassionato del cinemaeuropeo anni settanta, di Godard e della nouvelle vague.
Soderbergh è un autore che indubbiamente alza la media e su cui si può ben contare per un riscatto del mercato cinematografico. L'oscar non faccia disperare, talvolta succede anche ai migliori.


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