MOSTRA DEL NUOVO CINEMA
PESARO 2000

 

La "Mostra del Nuovo Cinema" di Pesaro edizione 2000 si presentava con un intento assolutamente preciso: differenziarsi dalle precedenti per la rinnovata attenzione riservata alla "spettacolarità" di eventi altrimenti troppo spesso riservati ad un pubblico di nicchia.
Da qui la scelta di presentare una serie di prime nazionali nella centralissima Piazza del Popolo, a due passi dal Teatro Sperimentale, che è ormai sede tradizionale delle proiezioni principali.
L'idea ha funzionato, peraltro, soprattutto le prime sere e in occasione dell'omaggio "gassmaniano" del 1° luglio (proiezione de L'ARMATA BRANCALEONE di Monicelli), mentre per film come SPLENDOR di Gregg Araki, LAVAGNE della Makhmalbaf o CENTER STAGE-ACTRESS di Stanley Kwan non abbiamo contato moltissimi spettatori (un caso a parte è stato il concerto dei "No Smoking" di Emir Kusturica, da ormai due anni musicista in pianta stabile).
La Mostra continua a non suscitare consensi (come peraltro il Rossini Opera Festival) presso la gente del luogo, al punto che i due maggiori eventi pesaresi si configurano come una sorta di "innesto" forzato nel tessuto cittadino. Se ne discute da anni, anche se il problema non sembra avere soluzione, poiché Pesaro non è Bologna, ma neanche Urbino, mancando del serbatoio universitario di studenti attenti alle novità e agli stimoli di culture in evoluzione. Non è un caso che, durante le manifestazioni, il centro città si riempia di "turisti della cultura" provenienti da tutto il mondo e dal resto d'Italia, mentre i locali stazionano regolarmente sui viali del lungomare.
E non crediamo che ciò dipenda dalla organizzazione romana del festival, che, anzi, si avvale della collaborazione, sul posto, di Pierpaolo Loffreda (critico cinematografico di "Cineforum" e curatore di rassegne locali), cui è stato affidato un interessantissimo spazio di presentazione dei lavori a tema prodotti, in forma di cortometraggi, da studenti del liceo. L'esperimento va ripetuto e, possibilmente, allargato ad un numero maggiore di istituti.
Come se ciò non bastasse, il neo-direttore Giovanni Spagnoletti aveva pensato ad una serie di "feste in spiaggia" che potessero coinvolgere anche i… non addetti ai lavori: esperimento fallito, causa anche la distanza dei luoghi scelti dalla Piazza e dallo Sperimentale.

A parziale discolpa dei "detrattori" della Mostra, va anche detto che, a livello di contenuti, ci si sia - invece - allontanati dalle posizioni "di dialogo" col pubblico che avevano caratterizzato, ad esempio, l'edizione del 1999, durante la quale la retrospettiva di ARTHUR PENN aveva costantemente riempito le sale, consentendo la riscoperta di un formidabile protagonista della Nuova Hollywood degli anni '60 e '70 da parte di un pubblico di giovani attentissimi a quel periodo della storia americana (e non).
Se la personale di STANLEY KWAN rimarrà una perla nella storia della Mostra, le retrospettive su JACQUES DOILLON e MATHIAS MULLER potevano perlomeno risultare un po' più contenute in quanto a spazio ad esse riservato, mentre avremmo gradito più film nella sezione CINEMA DEL METISSAGE e, magari, una scelta talvolta più attenta del materiale selezionato.
Quattro "sezioni" a tema sono, francamente, troppe per una rassegna di queste dimensioni: due sole consentirebbero un approfondimento maggiore e una minore dispersione.

Spagnoletti va, quindi, ringraziato soprattutto per aver portato a Pesaro (e non solo metaforicamente) Stanley Kwan, che ha partecipato appassionatamente alla presentazione della sua opera, come già ci era capitato di veder fare ad altri autori di Hong Kong, ad esempio, al recente "Far East Film Festival" di Udine (vedasi il pezzo su JOHNNY TO).
Quella dell'ex-colonia inglese è una cinematografia straordinariamente vitale e stimolante, anche per via della nascita continua di nuovi talenti e la varietà stilistica e contenutistica.
Hou Hsiao-hsien, Johnny To (THE MISSION, RUNNING OUT OF TIME), Ringo Lam (VICTIM), Tsui Hark, Wong Kar-wai, John Woo, Riley IP (il bellissimo METADE FUMACA visto a Udine), Stanley Kwan sono autori diversissimi tra loro, ma tutti perfettamente in grado di coniugare avanguardia e commercialità "intelligente", approccio intellettualistico e resa immediata dei sentimenti.
Un mix unico non rintracciabile altrove e, forse, specchio fedele di un melting pot culturale ricchissimo (di differenti matrici etniche, di idee e di denaro). Senza dimenticare che con il budget di un blockbuster americano da quelle parti girano almeno quattro film e in tempi velocissimi.
Kwan, in questo panorama, sembra essere diventato l'Almodovar d'Oriente, almeno per l'attenzione riservata all'approfondimento psicologico dell'universo femminile e, in parte, per la grande ricchezza del decor e la cura nella composizione dell'immagine.
Alcune opere di folgorante bellezza - CENTER STAGE-ACTRESS (1991) e RED ROSE, WHITE ROSE (1995) - usano il melodramma per veicolare un'intuizione più "cerebrale" delle psicologie complesse delle protagoniste, tutte protese verso una "liberazione" da ruoli codificati in epoca feudale.
Questa "apertura" dell'animo femminile orientale viene osservata lungo un arco temporale ampio e dettagliato, che attraversa passaggi epocali come la rivoluzione culturale, fino ad arrivare alle inquietudini delle giovani degli anni '80 e '90.
Un cinema sensuale e controllato al tempo stesso, quello di Kwan (si veda la programmatica contrapposizione della donna-rosso e della donna-bianco nello splendido RED ROSE…), dove regia/luci/costumi/movimenti della m.d.p. sono messi al servizio di un'operazione che mira a raccontare un'epifania dei sentimenti priva di accelerazioni improvvise, ma inarrestabile e assoluta. Vediamo star come Maggie Cheung e Joan Chen all'apice della loro forza espressiva, forse perché messe nelle condizioni di esprimere nel gesto e con la parola la loro condizione di "crossover" viventi, espressioni di un doppio intimo e pubblico che altrove (alcune produzioni occidentali dove erano protagoniste) non potevano esprimere.
E' quindi Hong-Kong stessa che parla, tramite i loro "corpi" recitanti, della propria dolorosa natura duplice, ma affascinante in quanto tale.
Prima e dopo questi folgoranti capolavori (visivamente ed emozionalmente tra le cose più belle viste negli ultimi anni), due diversissime opere sulla crisi generazionale dei trenta/quarantenni ad inizio anni '80 e alla fine del Millennio: LOVE UNTO WASTE (1986) e THE ISLAND TAPES (1999).
La prima ancora stilisticamente incerta e lentissima nei ritmi di regia (ma rinvigorita dalla presenza di Chow Yun Fat agli esordi); la seconda più attenta alla lezione wong karwaiana.

Difficile dire di Jacques Doillon, presentato come l'unico autore francese "cui non sia mai stata dedicata una retrospettiva, nemmeno in patria".
Non vorremmo che tali premesse suonassero come una frettolosa (e masochistica) condanna, ma l'impressione ricevuta dalla visione di opere quali LA PIRATE" (1984) o LE PETIT CRIMINEL (1990) è quella di un cinema assai incerto, indeciso se sposare la "regola" o la "deregulation", l'impasse di una recitazione teatrale o l'improvvisazione sul set, i grandi attori o i bambini presi per strada. E siccome spesso le due "anime" sono compresenti all'interno di un unico testo, l'effetto è quantomeno di disorientamento, perché cogliamo la programmatica "non voglia" del regista di far interagire i due differenti piani, lasciando che si giustappongano spesso con esiti imbarazzanti. Le accelerazioni improvvise dei tempi recitativi o gli scarti altrettanto repentini all'interno dello sviluppo narrativo sono spesso casuali e lasciano l'impressione di un cinema affezionato a stilemi, in parte, da nouvelle vague, ma incapace di abbracciarne completamente i contenuti e poco supportato da un sicuro talento registico e narrativo.
Importantissimo, comunque, l'impegno di CINECINEMAS nel sostenere alcune tra queste retrospettive (come quella eccezionale di GEORGES FRANJU dell'edizione precedente).