NON HO SONNO
di Dario Argento
con Max Von Sydow, Stefano Dionisi, Chiara Caselli,
Gabriele Lavia e Rossella Falk
recensione di
Mirco GALIE'
Trama del film: una serie di cruentissimi omicidi vengono ricondotti ad
un nano, autore di numerosi delitti compiuti diciassette anni addietro
e ritenuto morto in seguito all'identificazione di un piccolo cadavere
reso irriconoscibile dai colpi di pistola. Parallelamente al commissario
di polizia, sul caso lavorano l'ex commissario che a suo tempo aveva inchiodato
il colpevole ed il giovane figlio di una delle prime vittime del nano.
Ovviamente l'assassino semina tracce che lasciano sottintendere una logica
perversa ai suoi gesti omicidi. Ovviamente il ragazzo è belloccio, sveglio,
coraggioso, sprezzante delle lusinghe di una vita agiata, con tutto il
fascino sessantottino dell'eroe che vive appagato di se stesso ai bordi
di una società borghese codina; ovviamente il commissario che conduce
le indagini ufficiali è presuntuoso, antipatico ed inetto; ovviamente
l'aiutante del protagonista, il pensionato che già diciassette anni prima
aveva dato prova del suo genio speculativo risolvendo, almeno apparentemente,
il caso, è simpatico, brillante, saggio e vanta anche una discreta propensione
all'ironia cimentandosi in coloriti duetti col suo pennuto. Ovviamente
non manca la vicenda rosa con tanto di scena di sesso girata dalla fine
abilità di un regista con una innata vocazione per i maciullamenti ed
il cattivo gusto. Ovviamente la ragazza, intonata ad un modello di delicatezza
poetica classicheggiante, è conquistata dal nostro protagonista e per
lui scarica senza turbamenti di coscienza un promesso sposo ovviamente
brutto, "stronzo" e insensibile al suo desiderio di tenerezza. Ovviamente
l'aiutante del protagonista nello svolgimento dell'indagine ricompone
i pezzi del mosaico e scopre che l'omicida esegue i suoi delitti secondo
le strofe di una filastrocca alquanto truce, dopodiché viene ucciso, ma
muore coraggiosamente senza patetiche urla e senza cali di autocontrollo
(anzi con una risata) verso i tre quarti del film lasciando in eredità
importanti indizi per la risoluzione del caso, affinché non si pensi che
il suo talento e il suo impegno siano stati spesi invano. Ovviamente gli
indizi vengono raccolti e correttamente interpretati dal nostro eroe,
che arriverà a svelare l'arcano: con un colpo di scena finale in due battute
in cui gli attori si esibiscono in virtuosismi drammatici e lo smascherato
colpevole esibisce il suo geniale repertorio di simulazioni vocali, si
scopre che il nano è stato accusato ingiustamente ed il vero autore dei
crimini è l'amico ricco del protagonista che si è valso dell'inconsapevole
aiuto di un povero barbone, alcolizzato ma onesto, ed è stato sostenuto
dalla debolezza di un padre, alto borghese tutto d'un pezzo, che ha tentato
di coprirne le efferatezze fino al sacrificio della propria vita e della
propria dignità.
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La sceneggiatura, di cui sopra abbiamo avuto modo di apprezzare l'accattivante
originalità, è soltanto la degna impalcatura sulla quale il regista dipana
tutto lo splendore del suo presunto "talento visionario". Un treno che
corre ansioso sotto un cielo terrificante squarciato da un fulmine in
una notte piovosa; una prostituta che per un assurdo gioco del caso si
imbatte nella collezione di coltellacci e negli inquietanti segreti di
un "ineducato" cliente dalla voce tenebrosa e cinque minuti dopo corre
lungo i vagoni di un inter-city inspiegabilmente vuoto nel disperato tentativo
di sottrarsi all'inesorabile sentenza di morte dell'assassino, salito
sul treno in corsa forse grazie a doti di teletrasporto; la collega prostituta
che viene messa definitivamente a tacere in uno squallido e buio parcheggio
sotto gli occhi di un viscido delinquentello di periferia che poi tenta
di fare il furbo con l'assassino ma paga con la vita la sua presunzione.
Impedibili poi gli ammazzamenti, i volti martoriati a colpi di strumenti
musicali, sbattuti contro le pareti di una scalinata, schiacciati contro
finestrini percorsi da spatolate di sangue, le tempie infilzate da penne
stilografiche, le teste mozzate che rovinano al suolo, le bocche affondate
in pozzanghere di liquidi organici, orrori mostrati con la truculenta
enfasi di primi piani insistenti, con la sfacciata invadenza di una macchina
da presa che freme nel vomitarsi dentro le carni squartate, i fiotti di
sangue gorgoglianti e le corde vocali che vibrano nello spasimo di urla
raccapriccianti.
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Il "maestro del brivido" torna a tormentarci con il suo stile dondolante
tra lo splatter e il buffonesco trascurando gli insegnamenti di chi, come
lo Shyamalan de IL SESTO SENSO (per non scomodare il Kubrick di SHINING),
ha dimostrato che è possibile spalancare le porte dell'incubo e sprigionare
onde di penetrante inquietudine semplicemente valendosi della forza allusiva
di una silenziosa attesa che sa di quiete prima della tempesta, l'abbacinante
potenza di lente carrellate di cinepresa e piani-sequenza, l'agghiacciante
irruzione di un'istantanea che pulsa senza preavviso nella linearità dell'ordinario,
la mostruosa degenerazione di immagini che identificano il conforto e
la sicurezza del quotidiano. Il ritmo a tratti incalzante del montaggio
è sostenuto da sinfonie aggressive eseguite dai Goblin, ma il ricorso
all'abilità creativa dei musicisti di PROFONDO ROSSO non vale ad elevare
il livello di un film che pretende di fondare il suo improbabile carisma
nel disgusto di effettacci di bassa macelleria e, come se non bastasse,
mostra pure imperdonabili cali di tono nelle pecche di una recitazione
tutt'altro che ortodossa.
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Il cinema può essere una cosa seria anche se Argento non lo ha ancora
capito e benché da un thriller non si pretenda certo la fascinazione lirica
e la generosità comunicativa di un'opera d'arte di serie A, all'interno
del carattere suo proprio è doveroso ricercare almeno il valore di un
linguaggio efficace, plasmato secondo gli esiti di una ricerca formale
che rifuggendo la banaliTà e la faciloneria di una terribilità materica
artificiosa, tenti di proiettarsi verso registri di più ampio respiro
e riesca nell'intento di penetrare l'immaginario dello spettatore piuttosto
che incidere con effetti rivoltanti sul suo metabolismo digestivo.
IL VOTO DI KINEMATRIX: 19/30
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