IL MESTIERE DELLE ARMI
di Ermanno Olmi
con Hristo Jivkov, Dessy Tenekedjieva,
Sandra Ceccarelli e Sergio Grammatico
recensione di
Andrea DE CANDIDO
Quello di Ermanno Olmi è un cinema difficile, e non tanto nella scelta
delle tematiche, ma per come si presenta allo spettatore. Il primo impatto
con IL MESTIERE DELLE ARMI non è infatti dei più agevoli: la voce fuori
(ma in parte in) campo è quella di Pietro Aretino, la vicenda è ambientata
negli ultimi mesi del 1526 ed anche il linguaggio è coerente al contesto
scelto. Non è semplice, poi, anche in ragione del momento storico in cui
il regista ha scelto di collocare la finzione filmica: è il momento di
trapasso tra il tardo Medioevo e il Rinascimento, Carlo V e i suoi mercenari
intendono conquistare Roma, e a difesa del Papa c'è l'armata pontificia
con a capo Giovanni De' Medici. Un'ambientazione e un quadro storico non
molto richiesti, almeno di recente, dal cinema, forse anche in ragione
di una loro scontata ed eccessiva distanza da un pubblico, che potrebbe
quasi averne soggezione.
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Per Olmi, tuttavia, questa è l'occasione per raccontare soprattutto la
vita emblematica di un uomo: un grande uomo, la cui grandezza non gli
ha permesso però di vincere i grandi passi della Storia. Giovanni de'
Medici - viene detto spesso - è un grandissimo combattente, un maestro
nell'arte della guerra, un uomo di cui qualcuno critica perfino l'eccessiva
"passione" per il combattimento: quell'amore che lo spinge a cercare sempre
lo scontro, anche di notte e se nevica. E' un valoroso, ma qualcuno è
più furbo di lui, e l'abilità di Olmi è proprio nel preparare con cura
lo scontro tra le armate, nell'arricchire le sue spettacolari inquadrature
di armi, cavalli e grandi spazi, nell'alzare la tensione per tre quarti
del film per poi renderla vana quando, a battaglia appena iniziata, un
colpo di cannone ferisce a morte Giovanni. L'onore non ha più senso, o
almeno ha assunto altri parametri: la lealtà e il rispetto del nemico
sono ormai un segno di debolezza.
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Non abbiamo rovinato "la sorpresa" parlando della morte di Giovanni in
battaglia, perché ciò è noto già nei primissimi secondi del film. Olmi
ha scelto infatti una costruzione a macro-flashback, partendo dalle esequie
del cavaliere per chiudere il cerchio nel finale: si tratta di un'operazione
simile, ad esempio, a quella dell'OTELLO di Welles, dove i funerali del
Moro venivano anteposti al resto del racconto. Così facendo Olmi sottrae
a chi guarda l'attesa degli eventi: Giovanni è morto il 30 novembre del
1526; detto questo la narrazione può riprendere da dieci giorni prima.
L'attenzione allora si concentra esclusivamente sul perché di quella fine,
sui dolori e sulle pulsioni dell'uomo Giovanni de' Medici, sul suo amore
per le donne (davvero efficace il montaggio alternato sul dolore e il
ricordo d'amore verso la fine) e sulle ragioni profonde della fine di
una ragione di vita e del pensiero di un secolo. E Olmi - quasi per limitarsi
a testimoniare - non muove mai la m.d.p., tiene e le inquadrature e ne
riduce il numero, sceglie il movimento "interno" al quadro, fosse anche
quello di un volto. Solo quando vuole davvero che lo spettatore colga
il sentire di Giovanni, inserisce qualche zoomata a cogliere paralleli
e antitesi tra il suo volto e i soggetti dipinti sulle parenti della stanza
in cui è rinchiuso.
IL VOTO DI KINEMATRIX: 28/30
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