LA
FURA DELS BAUS - Macbeth in 3D
LA FURA DELS BAUS elaborò un dogma in tre punti, che è rimasto tale a distanza di vent’anni e che, dei dogmi, possiede inalterate le peculiarità innovative e i rischi di cadere presto nella maniera: 1] occupare e alterare fisicamente qualunque spazio architettonico; 2] unire arti plastiche, musica e teatro; 3] coinvolgere il pubblico a 360 gradi, o, meglio, “in 3D”. Pep Gatell e compagni volevano dar vita ad una corporazione artigianale moderna [ sic ], che si basasse sulla creazione collettiva, a sua volta originata dal caos e dalla frizione artistica tra i componenti e che di tale complesso processo riportasse specchio fedele durante gli spettacoli per il pubblico, caratterizzati da una tecnica di montaggio delle varie sezioni ispirate dai vari componenti/ autori. Opera aperta per eccellenza, caos organizzato, riprese subito i dettami, più o meno scritti, di tutto ciò che andava sotto il nome di performance o happening, in particolar modo attingendo all’esperienza di FLUXUS, spostando peraltro l’attenzione sulla componente videoartistica –lì rappresentata da Nam June Paik- e sul ruolo sempre più importante della musica, eseguita dal vivo. Ecco allora che l’accumulo di citazioni e riferimenti, per quanto letti in chiave neo-tribale, selvaggia e, appunto, radicalmente tridimensionale [ fuori da approcci da arte concettuale ], fece parlare presto di postmodernità della FURA. Ogni tanto facevano, e fanno, capolino ricordi anche della Body Art, ma privati della violenza rituale –e della coerenza intellettuale- delle azioni di un Herman Nitsch o di un Rudolph Schwarzkogler. L’uso di sangue animale, presente anche nell’ OBS-UN MACBETH IN 3D ALLA CATALANA presentato a Ravenna, è pura scenografia, ormai, e serve, semmai, a traghettare verso le generazioni più giovani il messaggio di una cultura passata. Il teatro digitale della FURA, nella doppia accezione legata all’ essere basato sul tatto/ contatto tra attori e pubblico e sulle tecnologie digitali, abbatte lo schermo invisibile tra palcoscenico e platea, rendendo lo spazio scenico un continuum che elimina i posti a sedere e intende coinvolgere tutti i sensi nella fruizione di quello che Gatell & soci chiamano anche teatro ancestrale dei riti e dei misteri, dove la gente letteralmente combatte [ o lo faceva vent’anni fa ?] e si autodifende in un corpo a corpo estremo, adrenalinico, furioso. L’ultimo spettacolo della
FURA, visto a Ravenna il 5 luglio, vive le contraddizioni di una rivoluzione
diventata manifesto statico, testo concepito e scritto da Gatell,
ma interpretato da attori-performers che, per ovvio ricambio generazionale,
non hanno condiviso gli inizi con il leader della compagnia e, quindi,
ci fanno sentire tutto il distacco interpretativo che ne deriva. Qualcuno
potrebbe pensare, nel caso di una non-recitazione come quella del gruppo
catalano, tutta basata sulla movimentazione dei corpi in sintonia e sincronia
con la musica battente e gli spostamenti delle macchine teatrali [ veri
e propri castelli di travi reticolari, montate a comporre dei tank
su ruote, con ombrelli rotanti e cabina di guida ], che sia impossibile
notare, in mezzo al gesticolare veloce e alle urla degli attori, il dettaglio
di tale carente partecipazione al senso del testo, dell’operazione intera
o proprio della filosofia del FURA: eppure è proprio così! Venti o dieci
anni fa gli spettacoli saranno stati sicuramente qualcosa di estremo e
di radicalmente coerente con il momento storico, mentre ora, esportati
ovunque, da Israele agli Stati Uniti, dall’ Italia alla Polonia, sono
più il prodotto di una violenza preconfezionata, ancora molto bello da
vedere, ma paradossalmente troppo sicuro, garantito e protetto, per gli
stessi spettatori, per poter far gridare alla grande arte scenica.
Dicevamo dell’ uso dei monitor, guardati attraverso lenti che consentono la visione in 3-D: anche qui, siamo dalle parti di qualcosa di non-necessario, laddove poi tutti vorrebbero la realtà vera e il contatto. Tolti gli schermi, il quiz televisivo, lo spogliarello e magari anche certa musica poco selezionata, eliminati quindi gli orpelli, lo spettacolo potrebbe essere ancora interessante e coinvolgere veramente: il problema è che, da queste parti, l’idea di rinuncia pare essere un controsenso, ma sarebbe auspicabile quando si comincia a intuire una certa stanchezza complessiva. Anche perché, se l’intenzione era di rimanere fedeli al dogma in 3 punti, bisogna rilevare che solo il primo –l’occupazione dello spazio architettonico- è stato rispettato, mentre il pubblico, come si diceva, NON è stato coinvolto più di tanto e non si è messa in atto alcuna fusione di teatro [che non c’era] e musica [anche troppa] o arti plastiche […]. La struttura a blocchi dello show, infine, non consente di cogliere i raccordi narrativi, per un minimo di intuibilità del testo, e fa apparire il tutto come un mega-montaggio di videoclip dal vero. In definitiva, siamo di fronte al classico gesto artistico che viene voglia di difendere di fronte ai commenti scandalizzati dei bacchettoni, ma che, in privato, si smonta senza pietà. Perché vorremmo sempre che le rivoluzioni estetiche avvenissero DALL’INTERNO della tradizione, ribaltando e distruggendo i canoni dopo averli esperiti e digeriti alla fine di faticosi processi creativi, mentre qui, come spesso accade, la contrapposizione è preconcetta e infantile, negando in blocco un mondo e pretendendo di reinventarne un altro senza basi, senza radici, si chiamino, queste, Shakespeare o Fluxus! Ma,
forse, siamo noi che sbagliamo, perché Pep Gatell potrebbe dirci che LA
FURA DELS BAUS non ha pretese di questo tipo e vuole rimanere [ ma per
quanto ancora? ] un semplice collettivo di giovani creativi. |