IL GLADIATORE
di Ridley Scott
con Russel Crowe, Richard Harris,
Oliver Reed e Joaquin Phoenix
recensione di
Roberto RICCO'
Già vincitore di 5 premi oscar, THE GLADIATOR ritorna sugli schermi italiani
per ricevere l'ennesimo omaggio di pubblico, allo stesso modo del gladiatore
del titolo, Massimo, che riceve il tripudio della folla e dei potenti.
A proposito di ciò, ci sia consentita, in apertura, una piccola parentesi
storica. Così come i gladiatori del Colosseo lottano, sotto lo sguardo
del Principe Commodo, in pretestuose ricostruzioni di battaglie famose,
il film di Ridley Scott propone una ricostruzione storica a tratti fedele
alla verità storica, a tratti un po' romanzata, ma in fondo abbastanza
libera da non essere la pedissequa ricostruzione del passato. Un esempio,
in negativo, può essere rappresentato dalla caratterizzazione del personaggio
di Commodo, il quale è tratteggiato come sostanzialmente vigliacco, mentre
nella realtà combatteva abitualmente nell'arena contro i gladiatori, e
non soltanto come si vede nel finale western style, allorché fronteggia
l'eroe Massimo. Commodo, inoltre, fu posto sul trono dal padre Marco Aurelio,
non dovette uccidere il suo predecessore. Per finire, il suo principato
durò più anni di quello che emerge dal film.
Oltre alle licenze storiche, un po' lacunosa sembra la conoscenza del
concetto di aldilà presso i tardoantichi, almeno da quanto emerge da una
battuta della sequenza iniziale, pronunciata in terra germanica al momento
della battaglia contro i ribelli: "Al mio segnale scatenate l'inferno",
che non può riferirsi credibilmente al concetto di inferno proprio dei
romani pagani, luogo desolato e freddo e sede di Plutone, non certo avvolto
dalle fiamme che di li a poco i legionari appiccheranno al bosco con le
loro macchine da guerra (le fiamme appartengono semmai alla visione cristiana
apocrifa da cui si sviluppa l'iconografia medioevale). Perplessità sorgono
dalla leggerezza con cui viene affrontato il problema della lingua: come
accade nei telefilm di STAR TREK in cui tutti gli alieni parlavano l'inglese,
tutti i personaggi del GLADIATORE si capiscono perfettamente (forse gli
schiavi sapevano il latino già dalla nascita?). Chiusa la parentesi.
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Detto ciò, cinematograficamente parlando il film si presenta come l'ennesima
variazione, col supporto del digitale, del genere storico-mitologico,
nato con sfoggio di sfarzo nell'epoca del muto (si pensi che il personaggio
di Maciste fu inventato addirittura da Gabriele D'annunzio) e sviluppatosi
in una profusione di mezzi tipicamente hollywoodiani con i kolossal
degli anni '50-'60, per poi terminare nella tarda filiazione italiana
di Cinecittà del genere peplum, inaugurata dalla pellicola LE FATICHE
DI ERCOLE (1958) di Pietro Francisci. IL GLADIATORE torna sulla storia
già affrontata da LA CADUTA DELL'IMPERO ROMANO (1964) di Anthony Mann,
ed ha affinità di trama con lo SPARTACUS (1960) di Kubrick; si situa,
crediamo, tra il kolossal ed il semplice film storico-mitologico, dal
momento che non si può misurare un film solo in termini di costi. Per
quanto riguarda il peplum, poi, non vi sono certo, nel film di
Ridley Scott, gli elementi per identificarlo con il genere dei culturisti
dai muscoli oliati e delle provocanti regine! In ogni caso è presto, crediamo,
per stabilire se ci troviamo di fronte ad una rinascita dell'attenzione
per l'antichità, se non dimentichiamo la lezione della rapida ondata western
degli anni '90 (consideriamo a questo proposito solo l'ambientazione).
Ma per quanto attiene alla qualità della singola pellicola, parlare di
"rinascita", dunque di rinnovamento, non è un'affermazione lontana dalla
realtà. Il film di Scott è infatti una grande produzione, sicuramente
al di sopra della media di titoli analoghi. IL GLADIATORE mostra un'attenzione
"filologica" all'ambientazione, più corretta che in passato, un uso meno
"gratuito" e faraonico della scenografia e dei costumi, pur nel dispendio
di mezzi digitali. E a proposito del computer, la ricostruzione tardo-imperiale
della città caput mundi è sicuramente efficace (sospendiamo il
giudizio sulla correttezza archeologica dell'operazione). Ciò che eventualmente
lascia perplessi è, come sempre in questi casi, la visibilità del trucco
laddove, per definizione, dovrebbe essere nascosto; difetto non imputabile
a mancanze dei tecnici o ad arretratezze della tecnologia, ma - crediamo
- a un'insufficiente unità dell'opera, o di coesione tra le varie fasi
produttive, cioè tra il lavoro degli fx makers e quello del direttore
della fotografia. Eppure proprio il computer, paradossalmente, in alcune
sequenze tenta di venire in soccorso della fotografia, modificando l'equilibrio
cromatico in chiave drammatica nelle vedute di Roma, come nella tetra
sfilata del seguito di Commodo, da poco insediato sul trono. Ma la mancanza
di unità delle immagini emerge allora tanto più forte, perché le scene
appaiono come separate le une dalle altre. Nelle stesse sequenze romane
si possono alternare fredde e lugubri vedute del palazzo senatoriale in
cui prevalgono il bianco ed il nero (con preferenza per quest'ultimo che
denuncia la negatività di Commodo), fortemente contrastati, le ciprie
e le violente punte di colori primari, con le soleggiate vedute paesistiche
improntate ai toni ocra (gialli e rossastri). Nelle "visioni", forse -
da un punto di vista visivo - giustificabili singolarmente ma non nell'insieme,
si va - ad esempio - da una veduta alla Friedrich, peraltro bellissima,
con cipressi scossi dal vento che attorniano la porta dell'aldilà - in
guisa di tomba patrizia -, a scene che sembrano spezzoni di spot di automobili,
con la campagna idilliaca dai colori manipolati e virati al blu. E' come
se si fossero sperimentati varie pellicole, diversi filtri, diversi tipi
di illuminazione, senza un preciso disegno unificante.
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Lascia così un po' perplesso l'oscar conquistato come miglior film - se
le qualità visive di un'opera non sono secondarie - mentre non stupisce
affatto il premio per gli effetti speciali.
Non secondaria a determinare l'interesse della pellicola, risulta a nostro
avviso la diversa attenzione rivolta all'antichità o tarda antichità romana,
che segna la distanza dai tempi, ad esempio, di un BEN HUR (1959). Benché
questa osservazione possa sembrare scontata, si pensi che non sono molte
le pellicole che da quegli anni si sono rivolte a quel periodo storico
(e saltiamo volutamente il capitolo peplum, che ha riferimenti culturali
sicuramente più "bassi") e che pertanto un confronto diretto appare inevitabile.
Gli interpreti? Sono sempre all'altezza del duro compito di confrontarsi
coi mostri sacri che comparivano nei "classici" hollywoodiani. Così ammiriamo
- e rimpiangiamo - Oliver Reed nei panni di Proximo, liberto ex gladiatore,
scomparso prima dell'uscita del film, alla cui memoria IL GLADIATORE è
dedicato. Dal canto suo, Russel Crowe convince nel ruolo del generale
ispanico, ex contadino, se non altro per la prestanza fisica e la fiera
maschera che mostra quasi invariabilmente per tutto il film. L'anziano
Richard Harris è un'affascinante figura di vegliardo come può esserlo
un più famoso Max Von Sydow.
Il massimo della spettacolarità è raggiunto nelle scene di lotta nell'arena,
più ancora che nella battaglia d'apertura tra Romani e barbari germanici,
per quanto le coreografie marziali risultino un po' confuse, giocate molto
sul macro, sul dettaglio e troppo spezzate da un montaggio iperveloce.
Complessivamente IL GLADIATORE è un film abbastanza divertente, sufficientemente
spettacolare, sforzantesi di essere credibile nei confronti della storia
e della cultura antica, pur rimanendo, per intenti e risultati, sostanzialmente
un prodotto spettacolare, senza ambizioni da opera di alto valore culturale.
Più da vedere per valutare le ultime derive della spettacolarità e per
verificare che cosa sono capaci di inventarsi gli Americani.
IL VOTO DI KINEMATRIX: 23/30
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