8° FESTIVAL INTERNAZIONALE DELLE DONNE
LA SAISON DES HOMMES di Moufida Tlatli
recensione di
Elena SAN PIETRO
LA SAISON DES HOMMES è un'opera piuttosto interessante per un occidentale.
Non stupisce che abbia vinto il primo premio visto che si tratta di un
lungometraggio impegnato, in linea con le scelte ideologiche del festival:
mostrare l¹oppressione a cui sono soggette le donne con un occhio particolare
verso le altre culture. Il film faceva parte della selezione Un Certain
Regard all'ultimo festival di Cannes.
La condizione delle donne mussulmane è particolarmente dibattuta, basti
pensare al successo de IL CERCHIO. In questo caso Moufida piazza la cinepresa
immezzo ad una famiglia allargata di donne tunisine e ne segue le vicissitudini
come se fosse una di loro. Sono donne moderne, forti, ragionevolmente
ricche e colte, non hanno l'obbligo snervante del velo, anzi, le più giovani
scelgono pantaloni e maglietta; nel contesto generale del film questo
spiace un po', perché si rendono irriconoscibili dal branco delle adolescenti
che vestono all¹americana; diversamente da queste le donne nordafricane
sono considerate tanto più belle quanto più in carne e femminili, una
femminilità antica, da Mille e Una Notte: morbide stoffe che avvolgono
i corpi secondo usanze per noi scomodissime ed impraticabili, gioielli
dalla foggia ricca e complessa, secondo il gusto arabo, veli multicolore
fermati in vita per impreziosire le vesti. Più di austere mussulmane che
castigano la loro bellezza, queste donne sembrano le legittime eredi delle
odalische e la loro comunità sembra un harem pieno di pace ed armonia,
dove le donne si aiutano l'un l'altra e si considerano tutte sorelle,
dove si condividono gli stessi dolori, dove la maternità è vissuta come
un avvenimento collettivo, una gioia ed una responsabilità comuni. Il
quadro è ancora più affascinante se consideriamo lo sfondo: l'isola di
Djerba, un paradiso di luce e palme, circondato dal mare, dove le automobili
sono rare e le vibrazioni dei tamburi si mischiano con i canti di preghiera
nell¹aria del crepuscolo. Eppure ogni harem ha dei padroni, che sia una
dolce prigione come ce lo dipinge Ozpetek in HAREM SUARE', oppure una
versione comunitaria, come in questo caso. In primo luogo si deve rispetto
ed obbedienza alle più anziane, tanto più se sono legate agli uomini da
rapporti di preferenza o parentela. In definitiva gli uomini sono i veri
padroni e forse le donne di Djerba godono di una tale libertà proprio
perché mariti, padri e fratelli sono lontani: la maggior parte di loro
lavora a Tunisi, dove hanno piccoli negozi di tappetti o di altre mercanzie.
Alle donne, nonostante le lamentose richieste, non è permesso seguirli,
la loro casa è a Djerba e a Tunisi non saprebbero dove sistemare la numerosa
famiglia cui devono badare. Così le donne aspettano, facendo quadrato
intorno alle più coraggiose e alle più amorevoli per sopportare la solitudine
e la paura dell¹abbandono. Dopo undici mesi i lavoratori hanno accumulato
un bel gruzzoletto e si concedono un mese di vacanza per riabbracciare
le proprie famiglie e, di norma, rimettere incinta le mogli che nel frattempo
hanno partorito. E' la saison des hommes, ed è l'unica grande festa per
le donne: i preparativi durano per settimane, mogli e figlie si agghindano,
si spalmano vicendevolmente unguenti profumati e si decorano il corpo
con l¹henné. L'immagine più bella del film ritrae proprio cinque donne
che, dopo esserrsi tinte i capelli con l'henné, vanno a sciaquarsi nel
mare: stanno in circolo, tenendosi per mano ed indossano lunghe tuniche
colorate. Al loro arrivo gli uomini sono accolti con grida di gioia, secondo
l'usanza berbera, vengono lavati da mani amorevoli e serviti con un pasto
luculliano. Ma la festa dura poco ed un mese passa in fretta.
Aicha, la protagonista, trova il coraggio di partire per Tunisi e rompere
la tradizione. La condizione che le aveva imposto il marito era un figlio
maschio, ma quando finalmente, al terzo tentativo, nasce un maschio si
scopre che il bambino è autistico, una triste negazione di una cultura
patriarcale che vede nel maschio l¹unica vera realizzazione di una famiglia.
Così Aicha decide di tornare a Djerba, dove il bambino, nella sua misteriosa
fragilità, può vivere in un ambiente più tranquillo, protetto dalle braccia
instancabili delle donne.
In una società di questo tipo la maternità è percepita come l¹unico strumento
di potere della donna, la conferma della sua femminilità e della sua identità;
perciò una donna del gruppo, una giovane ancora più sola delle altre dal
momento che suo marito, dopo la prima notte di nozze, non è mai più ritornato,
afferma: "Nel mio ventre non c¹è vita, c¹è solo grasso ed il gorgoglio
dei miei intestini".
Il destino proibitivo delle donne di Djerba spinge le più giovani a rinunciare
al matrimonio ed a formare una famiglia di cui non si sentono di portare
il peso. A Djerba le donne non sono tenute a lavorare per incrementare
l'attività del marito: Aicha tesse tappetti, ma va contro le tradizioni
visto che solo l'uomo può mantenere la donna. A Djerba, se una ragazza
viene violentata, deve nascondersi e non parlarne con nessuno. Ma a Djerba
ci sono anche delle donne che parlano il linguaggio dell'amore, della
compassione, che sanno ascoltare e condividere, sorelle per sangue o per
destino, che conoscono il significato di una carezza.
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