Festival noir di Courmayeur
Domenica 10 dicembre 2000
da Courmayeur Elena SAN PIETRO
NOWHERE TO HIDE
di Lee Myung-Se
con Park Joong-Hoon, Ahn sung-Ki e Choo ji-Woo
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NOWHERE TO HIDE è un action movie coreano che punta tutto sull'impatto
visivo dell'immagine in movimento. La sceneggiatura, i temi e la trama
sono ridotti all'osso e sono riassumibili in una parola: l'inseguimento.
Il detective protagonista del film (l'ispettore Woo) definisce il suo
mestiere con queste parole: "I detective catturano, qualunque cosa comporti"
ed in quest'affermazione da bullo si condensano gli elementi più importanti
del film. Mi spiego meglio. Woo è un poliziotto sgangherato, drogato di
lavoro, non ha una vita privata e la sua casa sembra un centro sociale
malandato. L'ispettore è ancora sufficientemente giovane per crogiolarsi
in una serie ininterrotta di goliardate con gli altri agenti, altrettanto
giovani. Il commissariato di polizia sembra una confraternita universitaria,
dove la violenza abbonda come linguaggio universalmente riconosciuto dai
maschietti. Gli interrogatori sono così poco ortodossi che la centrale
di polizia sembra un luogo surreale e grottesco. Eppure Myung-Se afferma
di aver vissuto a fianco dei poliziotti per diverso tempo prima di scrivere
il film. Come Lucarelli (leggi
intervista su KMX). Non so se adorare la finzione cinematografica
o pensare che la Corea sia un paese di sadici pazzi! Lo stesso Woo è una
piacevole caricatura dei duri del cinema come Bruce Lee (gli occhi a mandorla
son sempre quelli). Ed in effetti l'ispettore è veramente una caricatura
in omaggio ad un personaggio del cinema: il suo cappello sbrindellato
ed inseparabile, la camminata da pugile, la mascella sporgente ricordano
la fisionomia del grande regista John Woo, made in Hong Kong. L'ispettore
protagonista è interpretato da Park Joong-Hoon, uno degli attori più popolari
in Corea. Per loro sarà una stella comica, ma a noi non dice molto, perciò,
per avere un'idea, immaginatevi un Jim Carrey con gli occhi a mandorla
e la stessa faccia di gomma, versatile, trascinante, carismatico, autoironico,
completamente idiota. In questo Park incarna lo spirito dei fumetti manga,
dalla parte dei personaggi brutti e sfigati. Il nostro Woo è impegnato,
per tutta la durata del film, in un inseguimento che potrebbe protrarsi
all'infinito come un loop, un inseguimento molto poco cervellotico e strategico
dal momento che il povero Park corre per tre quarti del film. Nelle parti
restanti picchia qualcuno. Il cattivo di turno è un affascinante uomo
ombra, dall'impermeabile rigorosamente nero; come Mister X, riesce sempre
a scomparire nei labirinti di vecchi quartieri coreani. Misterioso ed
inafferrabile, il fuggitivo è interpretato da un veterano del cinema coreano,
Ahn Sung-Ki (come sono complicati questi nomi!). Il regista confessa di
averlo chiamato ad indossare i panni di un criminale per screditare l'immagine
di uomo gentile e sensibile che il pubblico aveva dai suoi precedenti
film. Ma dal momento che un po' di tenerezza non guasta mai, soprattutto
in un regista che si era dedicato a commedie romantiche, l'unico personaggio
femminile è incarnato dalla dolce Choo Ji-Woo, famosa fotomodella coreana.
Una sorta di Alessia Merz orientale con meno curve e, forse, più cervello.
Non mancano i travestimenti, da entrambe le parti, così da potenziare
l'effetto carnevalesco dei personaggi. E non manca neanche una pioggia
torrenziale che fa tanto noir, ma che serve anche a creare uno spazio,
fatto di righe verticali molto precise, "un ottimo mezzo per mostrare
come il movimento sia essenzialmente fatto d'immobilità. L'immobilità
contiene i movimenti che aspettano di essere liberati". Ma il tema dell'inseguimento
non è utile solo a definire i personaggi, che peraltro sono delle macchiette
abbastanza piatte, perché l'inseguimento è uno degli elementi ricorrenti
nel cinema di tutti i tempi, l'inseguimento è movimento ed il movimento
è ciò che distingue il cinema da tutte le altre forme d'espressione. Infatti
Myung-Se ha voluto risalire all'essenza dell'immagine cinematografica
e rendere un tributo al movimento "all'energia cinetica" che poi è "la
natura primitiva dell'essere umano". In particolare il regista afferma:
"Nei quadri di Monet, per esempio, il soggetto non è la ninfea - questo
l'aveva già capito Baricco - quel fiore galleggiante è semplicemente l'oggetto
su cui far cadere la luce che si vuole dipingere. Vediamo il suo riflesso
nell'acqua ed il risultato è ciò che definiamo pittorico. Con questo
film volevo riuscire a mostrare quello che possiamo definire filmico.
La storia ed i personaggi non sono il fulcro del film, lo è il movimento.
Il movimento compenetra gli altri elementi per creare l'azione cinetica".
Questo ci rincuora, perché dal punto di vista della storia, il film è
un fallimento. D'altronde Myung-Se è un regista molto preciso che, per
studiare la natura del movimento, è andato ad osservare dei microcosmi
come la danza, l'attività degli animali e lo sport. Questo, invece, l'aveva
già fatto Degas. Il risultato è una pellicola dal ritmo velocissimo, un
infarto visivo di sicuro effetto sul pubblico, tanto da essere acclamato
al recente Sundance Film Festival. Il talentuoso cineasta alterna una
serie di pezzi di bravura che potrebbero benissimo venire scorporati e
presentati come corti esemplari agli studenti che vogliono far carriera
ad Hollywood. Non saprei descrivere con precisione le scene, né i movimenti
di macchina, perché erano troppo veloci per rendersene conto. L'impressione
generale è quella di un videogioco tipo Mortal Combat, ma ad altissima
definizione. Il movimento è svelato, sezionato, spinto alla massima velocità
e rallentato fino al fermofotogramma. L'autore si diverte a manipolare
il tempo e lo spazio: le rovine sono un set ricorrente in quanto luoghi
senza tempo. Le scene di lotta ed inseguimento sono sicuramente
un terreno ideale per questo tipo di ricerca. Il ritmo incalzante delle
immagini è scandito da una sorta di heavy metal coreano che viene sparato
a massimo volume. Myung-Si fa del suo film un manifesto della Korean New
Wave, quel movimento di giovani cineasti che, dalla fine degli anni 80,
stannno facendo impazzire la critica coreana ed internazionale sia per
la loro energia innovativa, sia per l'aperta rottura nei confronti del
cinema classico. NOWHERE TO HIDE è un film dichiaratamente sperimentale,
che intende provocare ed aggredire le forme classiche quanto un'orda di
neo-punk impasticcati. Dispiace che sia altrettanto privo di contenuti,
perché l'energia c'è, ed anche un'abilità registica ai limiti del virtuosismo.
Il regista si è scritto una sceneggiatura povera perché aveva fretta di
andare a girare sul set, di prendere tra le mani quella deliziosa piccola
bomba che può diventare la macchina da presa tra mani capaci. E comunque,
dei riferimenti al cinema del passato ci sono, dal più recente filone
pulp, ad un prodigioso duello sulla scalinata che ricorda tanto Ejzenstejn.
Degas aveva espresso l'idea del movimento in modo più poetico ed il FIGHT
CLUB aveva parlato di violenza attraverso una struttura altrettanto anti-convenzionale
e potente dal punto di vista visivo, ma decisamente più complessa sul
piano della sceneggiatura e dei contenuti. Non mi stancherò mai di dire
che non conta solo l'involucro, per quanto non sia sempre necessario fare
film intelligenti ed altamente riflessivi. In fin dei conti, però, il
povero Myung-Se non aveva queste pretese, il suo messaggio è la potenza
stessa dell'immagine in movimento.
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