IL DIO NERO DELLA VERITA'
John CARPENTER
e il cinema come indagine scientifica
di Gabriele FRANCIONI
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Noi che viviamo sotto stelle collassate e buchi neri, cominciamo a conoscere
il significato della parola "orrore". Non è qualcosa al di fuori di noi,
non appartiene a ciò che può essere rimosso. Come non poteva essere rimossa
l'arte di Edgar Allan Poe, così non si può continuare a tacere la grandezza
di Georges Franju, Brian Yuzna, John Carpenter. Artisti e scopritori di
verità. Le "culture ufficiali" fanno a meno delle voci stonate, sapendole
potenziali "cassandre" di ere dal destino imploso, piuttosto che "meraviglioso
e progressivo". John Carpenter è il Poe e l'H P Lovecraft del buio che
si avvicina dalle periferie ridotte a campo di battaglia . Sacerdote antimetropolitano
del disincanto, pittore e poeta (chi altrimenti sarebbe stato quando non
esisteva il dolly?), chiede che si parli dei suoi film quasi fossero libri/quadri/persino
trattatelli scientifici.
"L'ho incontrato quindici anni fa: era come svuotato. Non capiva, non
sentiva, anche nel senso più rudimentale, né gioia né dolore, né male
né bene, né caldo né freddo. Spaventoso. Un bambino di sei anni con la
faccia atona, bianca…completamente spenta. E gli occhi neri. Gli occhi
del diavolo" (HALLOWEEN , 1978).
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Immaginatevi distesi sul divano mentre guardate Kinematrix. E' notte fonda
e tutto sembra normale. Poi avete la sensazione che qualcuno sia alla
porta, ma non ne avete sentito i passi. Guardate dallo spioncino: lo sguardo
fisso di uno sconosciuto e' lì da ore. Siete soli, nel condominio buio/svuotato/inospitale.
Potrebbe essere la vostra personale forma di (co)scienza che il mondo
è male. Il momento della rivelazione. Come quando il giovane studente
del Kentucky andò in visita al manicomio della sua città e vide negli
occhi di un ragazzino la potenza ottusa di forze sconosciute, occhi che
lo fissavano con la voglia di portare morte, avendo ucciso già molte volte.
John Carpenter, lo studente, entrò bruscamente in una realtà inaspettata.
Il male esisteva come istanza di tutti i giorni: violenza razziale di
uno stato del Sud, prevaricazione familiare, un amore finito, i passi
dell'assassino…Decise che voleva capire quando e come questa DIMENSIONE
PARALLELA avesse origine nella nostra quotidianità chiaroscurale.
"Voglio chiedere a John : ,dove nasce questa tua angoscia, dove prendi
spunto per le storie che scrivi…..dove ha origine, per te, il male?" (Dario
Argento , in conferenza al Torino Film Festival, 1999).
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Carpenter non si perse d'animo. Il disagio che provava andava attraversato,
lavorato, trasformato. Un disagio che non poteva più essere sanato nell'ebbrezza
dell'immaginazione, ma INDAGATO E RAPPRESENTATO. Per cui guardò il male
negli occhi e intraprese la "via analitica dell'arte" ("L'autentico immaginario
è SEMPRE analitico"), piuttosto che quella "empatica". Sapeva che ormai,
dopo che la scienza aveva tolto il velo al vero, solo gli artisti -poeti/pittori/registi-
erano rimasti a voler indagare questi aspri territori. Lo esaltava l'idea
che l'arte potesse, dovesse raccontare la verità raccogliendo il testimone,
appunto, dalla scienza. Pose la realtà di tutti i giorni sotto il suo
controllo: quello della cinepresa, che gli permetteva una definizione
precisa del campo d'indagine: i centimetri quadrati colti dall' obbiettivo.
Dentro di esso, la piramide visiva è come un riflettore che svela e ordina
al tempo stesso le apparenze fenomeniche partendo dal punto fisso dell'occhio
dell'artista-osservatore. Ecco allora l'inizio di un percorso molto coerente
attraverso i quartieri dell'inconosciuto.
"Da coloro che insistono con la teoria che i buoni saranno premiati
e i cattivi puniti, agli scienziati del 1930 che elaborarono, con loro
orrore, una teoria che dice che non tutto può essere dimostrato, noi abbiamo
cercato di mettere ordine nell'universo ma abbiamo scoperto che, anche
se esiste un ordine, non è affatto quello che avevamo in mente! La causa
provoca l'effetto, la frutta marcisce, l'acqua scorre verso valle, il
contrario non accade mai: nulla di tutto ciò è vero! Lasciate credere
agli altri che questa sia l'unica realtà, perché la nostra logica crolla
a livello subatomico tra FANTASMI E OMBRE……………….." (PRINCE OF DARKNESS,
1988).
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Questo "orrore" ha pertanto origine da un problema della scienza. C'è
un quadro di TURNER, "Pioggia, vapore e velocita", dove un treno va come
freccia del moderno: ma non si capisce DOVE vada. Così si sente l'uomo,
dopo che, ad esempio, la fisica quantistica (di cui era appassionato HP
Lovecraft e che interessa anche C.) ne ha minato le certezze. Da BACONE/CARTESIO/KANT
(perdonate lo sconfinamento….), passando per HEIDEGGER e fino a NIETZSCHE,
la filosofia aveva dapprima sostenuto le sorti progressive del mondo caricato
sulle spalle delle scoperte scientifiche, quindi si era ritirata nei recessi
del dubbio. Il troppo sapere desertifica i territori della superstizione,
dei dogmi, del pregiudizio (e questo è bene), ma ci libera anche di quelle
quotidiane menzogne e illusioni che da sole ci permettono di sopravvivere
(e questo è male). Più sappiamo e meno sappiamo vivere: nell'istante in
cui l'innocenza può dirsi persa, si determina un abbassamento del nostro
tenore vitale.
"In FRANCIA sono un "auteur"; in GERMANIA un "regista"; in INGHILTERRA
un filmaker di film horror; in America semplicemente un buono a nulla"
(John Carpenter).
Negli Stati Uniti, puritani da sempre e ottimisti contro ogni logica,
chi sceglie di fare arte per raccontare lo stato delle cose "sub specie
" di precarietà, insinuando il Dubbio o stilando l'elenco fosco dei mondi
paralleli, viene messo all'indice. Capitò a Poe e Lovecraft, è successo
a John Carpenter, ultimo esponente di culture "basse" e del cosiddetto
cinema "di genere", buono per un consumo seriale che assicuri l'incasso.
Ripeto: la sua è grande Arte, a partire dalla passione per l'aspetto tecnico
(LOVE for the CRAFT: guarda che coincidenza…) appreso all' USC californiana.
C. è regista, responsabile dello script e quasi sempre del soggetto, compositore
delle musiche-queste sì seriali- dei suoi film, per cui è scontato definirlo
AUTEUR alla maniera dei francesi, che un secolo fa avevano già riconosciuto
la grandezza di Edgar Allan Poe, altrimenti ritenuto un giullare deviante
nella madrepatria. Carpenter, inoltre, possiede uno stile. Uno sguardo.
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"In Halloween mi interessava ribaltare il punto di vista del male:
l'occhio della cinepresa è quello di chi uccide. Questo crea uno spiazzamento,
poiché si è portati automaticamente a immedesimarsi in chi di solito deve
essere temuto. Mi incuriosisce vedere le cose da più punti di vista, perché
ormai non c'è più nulla di certo…………" (J.C.).
Carpenter usa la macchina da presa come un microscopio: ha bisogno
d'inquadrare con chiarezza I suoi atomi e molecole "filmici". Sa che le
"altre dimensioni", le rivelazioni del male (anche banale), hanno nascita
improvvisa. Davanti alla MDP si crea un'atmosfera satura: TENSIONE E ATTESA
DELLA RIVELAZIONE. Ecco gli spazi vuoti di una Los Angeles usata come
creta ogni volta riplasmata, spazi e distese dove l'assenza di tutto (non
c'è nessuno oltre alle piccole truppe di protagonisti dinamicamente tesi
a farsi unico punto di accumulo e scarico della tensione), non è semplicemente
funzionale a uno schema da "thriller", ma concentra la nostra attenzione
e quella carpenteriana solo sulle molecole e gli atomi che interessano.
Qualcosa sempre succede. E siccome è il regista ad aver posto la "materia",
che prima non esisteva, sotto il " vetrino", vuol dire che l'essere delle
cose non ha consistenza oggettiva, se non in funzione del loro essere
state pensate. Una volta al cinema, nel buio della sala-laboratorio, si
ricrea la condizione di quando il Carpenter-scienziato gira : oggetti-molecole
dietro un trasparente, osservati da occhi. Guardiamo lo schermo guardandovi
dentro. Parlerei quindi di stile piuttosto che di stilizzazione, perché
nello sguardo "puro" di C. non c'è gratuità estetizzante. Non avrai mai
una corsa spedita in sella ad uno "zoom", mai una recitazione sopra le
righe. In Carpenter la drammaturgia è sempre costruita sull'attesa, ma
ha anche nell'attesa la sua ultima ragion d'essere, poiché, come un grande
bordo bianco attorno al testo scritto, essa è lo "spazio del tempo" dove
disporre i sottintesi e collocare il "messaggio" criptato. E' lo spazio
delle analisi che già contengono la forza "negativa" delle conclusioni,
espresse in forma diversa da queste: è il male già presente prima della
sua agnizione. Nella produzione di genere, quasi tutto il pre e il post
è da buttare: la struttura poggia sui pochi punti di "concentrazione/esplosione"
dell'azione e, spesso, non si tiene. Carpenter è "solido", pieno, denso,
saldamente fermo su chiarissimi e diffusi punti d'appoggio. Come nella
Hollywood delle origini ( gli spazi tra le scene madri curatissimi anche
come "storia", per tenere sveglio lo spettatore in attesa di quelle scene
madri, che erano poche per colpa della produzione spartana), siamo dalle
parti di un cinema povero di mezzi ma straordinariamente ricco di idee.
[Sembra che le due cose (opulenza produttiva/intreccio plausibile) non
"possano" (o debbano) convivere nei prodotti che puntano all'incasso:
quasi che gli effetti speciali -INDEPENDENCE DAY, ARMAGEDDON, THE HAUNTING-
intesi come banda dei suoni e visiva, abbiano ucciso lo script e la "banda"
del pensiero, dell'idea].
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Ne "La Cosa", ad esempio, la scena del cane in fase di mutazione è un
gioiello crudele: ma l' "intorno" aveva già costruito prima -"a strati"-
una materia "tesa" in maniera insopportabile. Ecco perché in Carpenter
non esiste accelerazione. Latitano i movimenti improvvisi (persino i carrelli
sono una rarità). Frequenti, invece, le panoramiche, che disegnano paesaggi
"senz'anima" (la cittadina costiera di Antonio Bay in FOG, la Los Angeles
di PRECINT che anticipa SUBURBIA di Penelope Spheeris e le sommosse del
1992, il New Mexico col sole nero-seppia di VAMPIRES). Non a caso i suoi
film più "cinetici" sono anche i meno riconoscibili come "tipici" (guardatevi
BIG TROUBLE IN LITTLE CHINA,1986). Altrove il movimento è una bellissima
pennellata continua, giustificata da un idea forte: ecco allora il surf
di FUGA DA LOS ANGELES tra le macerie di Beverly Hills, che abbatte un
altro dei miti californiani, già visitato da altro cinema. Prestissimo
la messinscena si riduce a: i corpi degli attori principali (pochi) vagano
entro spazi vuoti e malsani, inospitali e silenziosi. Una serie di segmenti
sonori elementari (sequenza ripetuta di poche note, scritte e suonate
da C. stesso) fanno da punteggiatura all'immagine-frase. La contaminazione
avviene anche a livello di "characters" (personaggi). Stando entro spazi
esigui ed emotivamente "compressi" (la chiesa di PRINCE OF DARKNESS; il
distretto di polizia in PRECINT 13; il rifugio di THE THING), quasi per
una sorta di "osmosi", i ruoli si confondono e il cattivo e il buono giocano
la partita a posti invertiti. Sono come molecole che si uniscono. Il male
presente, poniamo, in uno solo di loro, si trasmette agli altri per contiguita'
fisica. Trova sempre immediate "consonanze". Non v'è dubbio che C. sia
alfiere di un pessimismo senza molte oasi incontaminate. Per quanto innamorato
di John Wayne e del cinema fordiano, il regista non vuole eroi assoluti
nei suoi film. Molti hanno parlato di "western continuo" per la sua opera,
tanto è chiaro il riferimento a un' epopea in cui, comunque, bene e male
contrapposti sono quella materia sotto il vetrino. Ma pochi hanno depurato
lo stile come Carpenter e liberato la scena da masse inutili di comparse
e da un accumulo cinetico prodotto dall'azione, che trova la sua giustificazione
nel sottofondo machista di molta produzione da "mito della frontiera".
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C. è assolutamente apolitico, al punto da ammettere candidamente la sua
estraneità alle culture alternative del flower-power (e dire che si era
iscritto all'Università della South California nel 1968…). Accade che,
nello stesso film, FUGA DA LOS ANGELES, attacchi le degenerazioni di opposte
culture, come l'opulenza da quartieri alti di una Beverly Hills ridotta
in pezzi e il presunto terrorismo di uno pseudo Guevara in versione trash.
Ma, in pieno tunnel reaganiano ( THEY LIVE, 1990), intuì il contenuto
"pornografico", irrappresentabile degli anni Ottanta, scegliendo di "scarnificare"
la corporeità edonistica dello yuppie con l'intuizione abbagliante delle
lenti "vedi-attraverso": scheletri-manager attraversavano in bianco e
nero l'ennesima versione della città degli angeli (un po' la Saint Victoire
di Cezanne…), qui ripresa nei quartieri più depressi, ormai ad un'ora
dalla rivolta di South Central. E, ancora, FUGA DA NEW YORK parla di punks
in rivolta insieme ai neri appena all'inizio dell'era reaganiana.
"Quella notte la casa mi deprimeva più del solito (…), quando vidi,
ocredetti di vedere tra i depositi biancastri delle muff , la "FORMA"
molto precisa che avevo notato più volte da ragazzo (…). Vicino al camino,
sulla macchia antropomorf, si alzò "LA COSA": era un vapore leggero, malaticcio,
appena luminoso…" (H P Lovecraft).
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Che quello di C. sia un messaggio antipositivistico, lo si nota dall'accoppiamento
insistito tra FALLIMENTO DELLA TECNICA e SPEGNIMENTO/ESAURIMENTO DELLE
ENERGIE NATURALI (E VITALI ). Tra il "buio" dei Raimi o dei Craven (espediente
narrativo di genere)e la notte acida di "1997"-anticipatrice di BLADE
RUNNER- non v'è punto di contatto, poiché la seconda descrive (tra aeroplani
in caduta e blackout globali), il cortocircuito di un armamentario tecnico-militare
bruciatosi nel tentativo di controllo e sfruttamento delle fonti di energia,
ancor più dell'evidente metafora sociologica (manhattan luogo di detenzione).
L'impasse della tecnica era anche in DARK STAR, polare rispetto al 2001
di Kubrick. Geniale l'innalzamento del muro attorno all'isola, antitesi
radicale al confine/orizzonte aperto dei pionieri, e monumento ad una
verticalità solo New Yorkese che C. dice di odiare. Sarà, ma il losangelino
"doc", quando anni dopo ritorna sul tema, si sposta sull'altra costa e
spegne il sole californiano con l'incatramata notte della guerriglia urbana
(FUGA DA LOS ANGELES). Momento topico: il "doppio" virtuale di JENA PLISSKEN
che, invece, con una sola "cliccata", SPEGNE IL MONDO (le sue energie
artificiali ) e lo riporta al grado zero. Di cosa ?della volontà di potenza.
Ma anche -in linea con tutto ciò che si è detto- allo zero assoluto della
IPERVISIBILITA' DELLE COSE come oggetti controllabili, individuabili,
in definitiva sottoponibili all'osservazione spietata del microscopio
del "sistema".
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Una materia troppo indagata diviene troppo visibile (e viceversa), così
come "visibili" siamo noi agli occhi del satellite, di internet, dei sistemi
bancari, per cui ogni gesto e respiro affogano nelle banche dati dei grandi
fratelli. Se siamo dei FILE ammassati uno sull' altro, può liberarci il
solo e salutare "inciampo" di un blackout o di una mano che prema il tasto
di "ARRESTA IL SISTEMA" E INIZI LA FESTA DELLA RIVOLUZIONE. (In qualche
modo si parla di queste cose in LA MORTE DEL SOLE di Manlio Sgalambro,Adelphi).
E' accaduto qualcosa di irreversibile. La consumazione di energia porta
ad una disgregazione che non può arrestarsi. Il senso, la percezione della
realtà ne vengono segnati per sempre. Sappiamo ma non sappiamo più vivere,
soprattutto perché ci manca "l'energia" per farlo. C. non sembra immaginare
prospettive per QUESTO mondo e pensa bene di ambientare il prossimo film
su Marte (ancora: la ricerca di nuove fonti primarie da consumare). Totale
disincanto, totale lucidità. La rappresentazione della fase terminale
di questo "lutto scientifico", avviene nella raffigurazione del nero totale
prodotto dallo spegnimento plisskeniano. La visione "primaria" l'abbiamo
qui, alla fine di tutto: il dio nero della verità, la parola senza rughe,
notturna e abbagliante nel suo abbacinante NULLA. Immaginiamoci una pellicola
virata sulla tonalità cromatica definitiva, accompagnata dal commento
della fine del mondo sussurrato dalla la voce di O Welles.
"Ma allora lei non crede più a niente…?"
"Già……..". ( da IN THE MOUTH OF MADNESS, 1994)
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