IN PIAZZA MERCATO A NAPOLI RIVIVE IL
GIORDANO BRUNO DI GIANCARLO ZAGNI.
"IL FUOCO DEL SOLE", UNA RAPPRESENTAZIONE UNICA
CON 150 TRA ATTORI E FIGURANTI.
CON MASSIMO GHINI E GIANNY MUSY.


servizio di
Sandra SALVATO

Un pensiero. Così naturale e ovvio che per questo dovette necessariamente passare dalla parte del torto, quel torto, che pur essendo ragione, difese a spada tratta fino all'ultimo spiro soffocato dalla fiamma laida di un pubblico supplizio. A 401 anni dal rogo Giordano Bruno, nato Filippo nel 1543 a Nola, continua a far ardere il fuoco dell'intelletto e, contro chi vi abdicò per prima come la Santa Madre Chiesa, vengono riaperte a distanza di anni, le carceri della memoria. La ritrova, non senza affanno, Piazza Mercato a Napoli, che con Masaniello si guadagna un posto nel girone dei luoghi funesti.
Tuttavia il patimento non ha luogo, esattamente come il teatro che si cerca intorno per ritrovarsi al di là della sola intenzione artistica. In questa direzione, segnata dalla partecipazione popolare alla rappresentazione scenica e percorsa a latere nel senso della fedeltà alla coerenza di pensiero e d'azione, si è mosso senza dubbio Giancarlo Zagni.
Attirato dalla sceneggiatura cinematografica di Serge Filipppini e Yves Gasser, il fianco storico di Luchino Visconti, firma nell'anno giubilare, la sceneggiatura in xxx quadri della vita e della morte secondo libera interpretazione dell'ex monaco domenicano divenuto eretico per volere dell'inquisizione, e la intitola Il fuoco del sole. (Tre Lune ed., 2000).
Zagni, autore e regista dello spettacolo insieme al figlio Daniel, trova il coraggio di sottolineare l'accanimento ingiustificato e bigotto di un periodo, quello controriformistico, che si affaccia al presente coagulando, sotto taluni aspetti, le stesse ansie e rancori. Quel 10 Marzo 2001, il formicolio d'attori, più di cinquanta a dire il vero, stava al proscenio naturale di Piazza Mercato come le tinte accese delle diaspore intellettuali a cavallo del 17° secolo, stavano, si squadernavano nella risposta del regista di origine emiliana. L'avvicendamento per quadri della tregenda bruniana, ha permesso al pubblico, chiamato ad assistervi rigorosamente in piedi, di sfumare il mito per abitare invece gli infiniti mondi del filosofo secondo propria coscienza. Zagni ha recuperato quella parte di teatro grotowskiano cui lo spettatore-avventore partecipa con voyeurismo e che ci riconduce per analogia al Principe Costante, quadro, che se pur in ritardo di un paio di secoli rispetto all'epoca di Giordano, oppone la stessa strenua e severa coerenza alla paura mistificante nata in seno alla società clerico-militarista. La questione panteistica mescola luoghi e opinioni, sapientemente rivisitati per l'occasione dall'estro creativo dello scenografo Andrea Crisanti. Il codice cromatico usato per sfondo e costumi, quest'ultimi di Sergio Palmieri, ci parla dei tanti, ma non infiniti mondi ai quali Giordano, con il volto di Massimo Ghini, accede per ulissiaca viandanza. Da Roma a Parigi, da Londra a Venezia, il pretestuoso allestimento completato a Cinecittà, si snoda sui passi di un teatro per la verità poco agito ma parossisticamente animoso dal punto di vista intellettuale. Il tema sonoro penetra la via mentis fino a sottolinearne l'ostinata caparbietà ed accoglie al contempo l'inquieta risposta d'amore al vero "fuoco del sole", Morgana Morosini. Musica per l'anima e per chiunque si senta astratto interlocutore del pensiero bruniano. E' Gabriel Zagni, l'altro fedele depositario delle derivazioni artistiche familiari, a firmare tali motivi sonori, tracce di cui non vorremmo perdere il gusto dell'ascolto.
Rispettate anche le tempistiche di scena, gli attori principali si convertono al piacere della presenza simultanea sul palco di una settantina di figuranti. Sono: Gianni Musy - veramente superlativo nel ruolo di Sisto Lucca -, Paolo Todisco, una giovanissima Elisabetta Dursi e l'intensa se pur fugace Marisa Mantovani.
Tutto quello che Giancarlo Zagni ha voluto per il suo teatro in piazza - che ricordiamo essere stato promosso da tutte le istituzioni campane, prodotto dal Nuovo Teatro Nuovo di Napoli e infine comprato dalla Rai -, è l'ascesa dell'umana scienza, della naturalità dell'humus in cui attecchisce, della "realtà dell'io" che si riscatta dalla finzione. Come echi di un passaggio di Kantor, il regista non applica il testo, ma lo comunica, perché la comunicazione - come Tadeusz Kantor sosteneva - < è una conseguenza assoluta dell'opera d'arte>.