LA STRATEGIA NELLA STRATEGIA...
di Valentina Petrini

Il Roma Film Festival ripercorre la storia cinematografica di Bernardo Bertolucci dall'esordio ai giorni nostri. Conservare la memoria è lo scopo principale di questa retrospettiva ed ecco perché la nostra attenzione si sofferma soprattutto sul Bertolucci degli anni '70. IO BALLO DA SOLA, L'ASSEDIO, L'ULTIMO IMPERATORE O IL THE NEL DESERTO sono titoli che appartengono alla recente storia cinematografica ovvero dall'87 al '99.
LA STRATEGIA DEL RAGNO, invece, è un titolo molto meno conosciuto. Datato 1972, è sicuramente uno dei film più caratterizzanti la psicologia di questo regista. E' questo uno di quei film che non sarà mai possibile vedere in prima serata: misterioso al punto da somigliare ad una terapia psicoanalitica. LA STRATEGIA DEL RAGNO (proiettato il 13 dicembre dal Roma Film Festival) si ispira ad un racconto di Borges, dal titolo Tema del traditore e dell'eroe. Da Borges Bertolucci, però, trae solo la struttura del racconto per narrare la vicenda di un "figlio" che, divenuto uomo, torna sulle tracce di un padre mai conosciuto.
A portarlo a Tara, paese paterno, è una donna di nome Draifa: una misteriosa amante che spinge Athos ad indagare sulla morte di suo padre, ucciso trent'anni prima a teatro mentre davano il "Rigoletto".
E così Athos inconsciamente torna nel regno dei morti, dove la gente del posto, (rigorosamente anziani), vive nel ricordo di questo eroe antifascista ucciso per mano nemica. Un film complesso dove tutto è simbolo di qualcosa.
I nomi per esempio: Tara è il paese simbolo dell'inconscio e soprattutto Tara è VIA COL VENTO, è il "…domani è un altro giorno!". E ancora: Athos e Draifa non sembrano nomi di pura finzione, anche se parlare di finzione in un film di Bertolucci è come parlare di normalità: "La finzione vampireggia la realtà" (citazione di Bertolucci da intervista a Filmcritica).

Athos arriva a Tara e la prima cosa che vede è il busto in marmo di suo padre nella piazza del paese con sotto scritto: Athos Magnani, eroe antifascista ucciso…
La gente lo guarda e nota in lui una somiglianza spaventosa.
Così a poco a poco Athos si accorge di come nel tempo la figura paterna fosse diventata mitica per il paese e non solo, fonte di sopravvivenza per un posto dimenticato da Dio.
Arriverà, però, il momento della verità: chi fu l'assassino di suo padre! Un fascista? Uno dei suoi tre più intimi amici? O chi altro…
La sacralità di questo eroe antifascista verrà, alla fine del film, distrutta dal suo stesso figlio, che in un momento d'ira profanerà la tomba paterna e poi finalmente scoprirà la mano omicida.
Quasi per assurdo è il padre l'unico colpevole della storia, colui che tradisce i compagni rivelando alla polizia il piano per assassinare Mussolini in una sua visita al teatro di Tara.
Quando quegli stessi compagni traditi lo scoprono, ad Athos Magnani non resta che fare della sua colpa una virtù. Da qui una sola scelta: morire.

Anche la morte in questo film, però, non è solo morte. Athos è un traditore, ma basta poco perché si trasformi in eroe. La strategia è presto delineata: saranno i tre compagni ad ucciderlo la sera della prima del "Rigoletto" e faranno, poi, ricadere la colpa su una mano fascista. Così anche Tara, paese-confine, avrà contribuito alla resistenza. Così anche Tara avrà il suo eroe, avrà una storia da tramandare con orgoglio.
Eppure quando tutto sembra ormai chiaro, quando lo spettatore, immerso in questo scenario teatrale, crede di aver completato il suo puzzle, ecco che è come se mancasse ancora qualcosa. Semplice: la strategia è fatta per confondere, per far si che ogni personaggio abbia un suo doppio, per avvolgere tutto in un alone di mistero.
Dunque, in una strategia, neanche la verità ha il sapore della verità. Così si spiega anche la fine del film. Athos è alla stazione che aspetta che passi il treno: ma quel treno ha un ritardo sempre maggiore, quasi a voler significare l'impossibilità di partire. Inoltre l'erba sui binari è alta: di li è ormai tanto tempo che non passano più treni.

"…si rende conto che forse, una volta entrati nel regno dei morti, è difficile uscirne. E questo è un piacevolissimo terrore, il terrore delle prime sedute di psicoanalisi, quando dopo un mese o due, si comincia ad entrare nel vivo dei rapporti dell'adolescenza o della primissima infanzia, e si sente che si sta entrando in qualcosa di molto oscuro, di terribile, ma ci si entra dentro, senza sapere se se ne uscirà". (Bertolucci)