“Troverai,
Lettor carissimo, la presente Commedia diversa moltissimo dall’altre mie che
lette avrai finora”. Goldoni, apprestandosi a scrivere il suo “Servitore di
due padroni”, presentava profeticamente lo spettacolo andato in scena allo
Stabile sotto la direzione di Antonio Latella.
Diverso moltissimo dal canovaccio originale, ha saputo però mantenere solide
le radici della poetica di fondo: il teatro non è Teatro se non viene
intinto nel libro del Mondo, nella contemporanea realtà sociale,
nell’osservazione degli uomini nella loro quotidianità. Le baruffe
goldoniane vengono conservate, trattenute, assorbite e risputate nella
nostra marcia attualità. Ken Ponzio trascrive un servitore moderno, porta a
Teatro il nostro Mondo, intriso di ironia tragica, dove per pensare è
necessario accendere la televisione, dove, fra lacrime struggenti, si
singhiozzano successi pop anni Novanta, dove, sotto ai riflettori a
intermittenza delle discoteche, si cela un’insanabile irrequietezza. Un
Mondo che rompe con il passato, che si discosta dalla tradizione per
ribaltarne (o cancellarne?) la morale.
Arlecchino, summa di tutte le maschere, diviene traghettatore in questo
viaggio di rivoluzione. Come una larva, veste di bianco, il non-colore,
negazione di una purezza ormai persa sotto a innumerevoli inganni. La
prospettiva centrale del frons scenae, felice scelta di Annelisa Zaccheria,
accentua le ombre sui pannelli, automi d’ispirazione platonica che invitano
a un mondo altro, a una verità irraggiungibile di cui viene restituita allo
spettatore disorientato solamente una proiezione distorta, anamorfica,
emblema di un arcano incomprensibile. Tutto ciò che sfila in scena tende
alla risoluzione dell’enigma, tutto è sibillino, ogni tagliente battuta
avanza verso il punctum optimum, il punto che sveli l’epifania del
significato originale. Il gioco delle parti viene mantenuto maniacalmente
identico fino allo sfinimento, fino alla cruda lacerazione della scenografia
e del personaggio di Beatrice. La decostruzione della scena a opera degli
attori è, infatti, l’inizio della comprensione, del cruento disvelamento del
mistero. è l'inizio
del climax finale dove la demolizione, letterale, di tutto ciò che sembrava
certo diventa l’ultimo indizio per riuscire a decifrare l’immagine completa:
l’unica chiave di lettura ammessa nel nostro Mondo è la menzogna. L’equivoco
goldoniano si vela qui di toni negativi, spietati, macabri se confrontati
con le caleidoscopiche cromie di scena. Attraverso
l’ossessiva ripetizione del lazzo della mosca, lo spettatore, sempre più
incredulo, viene trascinato vorticosamente nel dubbio: se il Teatro è mimesi
della realtà del nostro Mondo, che viene qui assunto come finzione, quale
diventa (o meglio, esiste?) il limite tra Mondo e Teatro, tra ciò che è vero
e ciò che inganna? è
ancora possibile respirare in questo brutale Teatrino del Mondo? L’ultima
speranza ancora accesa è l’unica candela soleriana in scena. Si spegne.28/30 |