SULMONA CINEMA FILMFESTIVAL 24.MA EDIZIONE
06/11:11:2006 SULMONA |
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Dedicato alle opere e prime e seconde prodotte in Italia nel corso dell’anno e a rassegne collaterali di estremo interesse, cinematografico ma anche storico e politico, il Festival di Sulmona, anche se discretamente “anziano”, rimane abbastanza sconosciuto ed estraneo rispetto alle vetrine mainstream del cinema italiano.
Non si tratta di un caso né di una limitazione imposta: i sulmonesi amano identificarsi con personaggi e culture differenti dai circuiti politici e commerciali egemonici. Le figure che patrocinano simbolicamente il Festival sono le stesse con cui la città intera si identifica: innanzitutto, Ovidio (cui sono intitolati i premi e una sezione del Festival), il poeta latino che nacque qui nel 43 a.C. e fu autore dello scandaloso "Ars Amandi", che gli costò l’esilio forzato sul Mar Nero per ordine di Augusto, e delle straordinariamente attuali "Metamorfosi"; il papa Celestino V, che qui si ritirò volontariamente, divenendo un controverso simbolo della denuncia della corruzione della Chiesa; l’anarchico Carlo Tresca, sulmonese, emigrato negli Stati Uniti per sfuggire alla repressione nel suo paese, perseguitato dalla giustizia americana negli anni Venti in quanto promotore della rivista “Il Martello” ed infine assassinato da sicari della mafia assoldati da mandanti probabilmente fascisti nel 1943 sulle strade di New York (al concittadino rivoluzionario era dedicata quest’anno la Sezione intitolata “Anarchia e rivolta”) .
Una tradizione di orgoglio e ribellione che tutta la città condivide, come dimostrano la rivolta contadina nel 1929, in piena era fascista, e i moti di “Iamm’ Mo’”, del 2 e 3 febbraio del 1957: in quest’ultima occasione i cittadini sulmonesi lottarono fieramente contro le forze dell’ordine inviate da Roma per sedare le proteste seguite alla decisione di trasferire altrove il Distretto Militare, provvedimento percepito dal popolo, ma anche dalla borghesia locale, come il segno manifesto del disinteresse del Governo nei confronti di una zona economicamente depressa e disgregata dalla piaga dell’emigrazione. La rivolta diede un qualche impulso allo sviluppo industriale della località peligna, ma soprattutto trova il suo valore più duraturo nella capacità di costituire una memoria storica della vita materiale e delle speranze di chi abita questo paese, piccolo (neanche tanto, dato che si tratta della quarta città per popolazione della regione) ma orgoglioso. Per ricordare questo episodio e sollecitare la partecipazione collettiva alla preparazione delle celebrazioni del cinquantennale che cadrà l’anno prossimo, Patrizio Lavarone e Paolo D’Amato hanno presentato, nella sala gremita di bambini, adulti ed anziani, il breve video IAMM’ MO’. RICORDI DI UNA RI-VOLTA, che contiene interviste interessanti, ma anche divertenti, di chi prese parte a quelle due lontane giornate. La città di Sulmona, insomma, è un luogo attraente di per sé e la cornice naturale, le montagne abruzzesi ad un passo dal Parco Nazionale, potrebbe essere il primo motivo che a spingere a dare un’occhiata al Festival: il paessaggio e l’aria purissima che si respira valgono davvero un viaggio. Non parliamo poi del cibo, senza dimenticare i confetti, tradizione locale di antiche origini…
Veniamo ora al Concorso, che ha visto vincere ex-aequo due film diversi ma ugualmente importanti nel dare forma alla possibilità di espressione attraverso il mezzo del video. Così, da un lato, LA RIEDUCAZIONE, del collettivo Amanda Flor, racconta le vicende di un laureato alle prese con la realtà del lavoro nei cantieri, un film diseguale ed incerto che merita però il premio per l’intrapendenza produttiva di un gruppo di amici, dalle facce post-pasoliniane (?), che grazie alle tecnologie digitali e alla passione per il cinema, anche quello alto dei Dardenne, Dumont e Bresson (pur senza riuscire a dimostrare ancora a livello stilistico queste influenze), riescono a rivelare con ironie e crudezza autentiche l’alienazione degli studenti universitari e la durezza del lavoro in nero; dall’altra parte, invece, PRIMAVERA IN KURDISTAN, di Stefano Savona, è innanzitutto un reportage che mescola esperienze quotidiane e Storia, documentando il viaggio di un gruppo di miliziani curdi del PKK verso la frontiera turca, alla ricerca del riscatto del proprio popolo e del sacrificio personale delle proprie vite. Le secche didascalie finali, che rivelano la morte di quasi tutti i ragazzi mostrati nel film e l’abbandono dell’esercito di liberazione da parte di molti altri, non aggiungono se non la semplicità della tragedia della guerra e la realtà dell’ideologia in cui credono i protagonisti del film, generosi e ingenui come tutti i giovani che cercano di affrontare di petto problemi di portata storica come la secolare oppressione dell’etnia curda: il documentario di Savona, pur stretto fra la rigidità di un’organizzazione rivoluzionaria militarizzata e le pressioni della produzione (il canale francese Arte, che ha imposto al regista alcune scelte formali legate alla destinazione televisiva), mostra un coraggio straordinario nel fare del cinema un modo di vivere ed essere davvero, si legga senza facile disincanto, in prima linea.
Il Premio alla Regia è andato a L’ORCHESTRA DI PIAZZA VITTORIO, di Agostino Ferrente, che riesce effettivamente a raccontare in maniera accattivante ed ironica, evitando anch’esso la trappola di un eccessivo autocompiacimento, la vicenda a lieto fine della nascita del gruppo di musicisti del titolo. Lo stesso regista e Mario Tronco, membro della Piccola Orchestra Avion Travel e efficacissimo “mattatore” della pellicola, hanno lavorato insieme al collettivo Apollo 11 di Roma per anni, a partire dal 2001, per riuscire a mettere insieme un numero elevato di musicisti internazionali e proporre un’esperienza di integrazione culturale ma soprattutto sociale fra persone di origine diversissima. Il film vanta una buonissima tecnica di ripresa, di montaggio (di Jacopo Quadri) e di messa in scena, giocando esplicitamente fra il puro reportage e momenti quasi “docu-fiction”. L’orchestra di Piazza Vittorio è già nelle sale romane e sarò distribuito da Mikado.
Il Premio come Migliore Attore è andato alla coppia Pippo Delbono - Bobò, conosciuti e apprezzati da critica e pubblico per il loro lavoro teatrale, per il film GRIDO, diretto dallo stesso Delbono (e montato ancora dal bravo Jacopo Quadri), alla sua seconda regia dopo Terra, premiato anch’esso a Sulmona, come Miglior Film, nel 2003. Il film mostra forse una crescita nella personalità del regista e attore come autore cinematografico, raccontando con accenti lirici la propria esperienza autobiografica e il rapporto con Bobò, da lui “trasportato” dagli ambienti opprimenti di un manicomio alla ribalta del teatro e del cinema. Il Premio alla Migliore Attrice è andato a Valentina Carnelutti, per JIMMY DELLA COLLINA, diretto Enrico Pau e tratto dall’omonimo racconto di Massimo Carlotto, dedicato alla vita travagliata di un ragazzo sardo, costretto a passare dal carcere minorile ad una comunità di rieducazione. La Carnelutti si è guadagnata il premio grazie ad una sola scena, anzi, ad un piano sequenza, in cui con una tecnica e un’ispirazione notevoli riesce a raccontare l’esperienza tragica di una patricida in maniera toccante ma non retorica. Davvero una (folgorante) prova d’attrice. L’ultimo film degno di estremo interesse, nel concorso, ma rimasto senza premi, è INATTESO, di Domenico Distilo, dedicato con “rigore e coerenza”, oltre che notevole spessore politico e filosofico, alla questione drammatica dei richiedenti asilo politico in Italia, costretti, per la follia delle legislazioni italiane, a vivere in stazioni abbandonate e a lavorare come schiavi negli ormai tristemente famosi campi di pomodori, a causa dell’interdizione ad avere “vantaggi economici” dalla loro permanenza nel nostro paese. Come se lavorare e vivere del proprio lavoro fosse un lusso e non, sempre, un obbligo a cui la necessità di sopravvivere ci costringe tutti. Il documentario, dall’elaborata messa in scena e dall’estremo, ed estremista (a ragione), partito preso estetico e politico, risulta riuscito e necessario, tanto per l’argomento, che il film ricollega in maniera puntuale a questioni di più ampio respiro, quanto per lo stile. Purtroppo, il debito nei confronti della lezione della coppia Straub-Huillet, riconosciuto nei titoli di coda e nelle dichiarazioni del regista, è alquanto pesante, limitando la possibilità di riconoscere a livello di invenzione formale la personalità originale dell’autore. Tuttavia, dato anche il valore ben più che cinematografico dell’opera, il film (saggio di diploma alla Scuola Nazionale di Cinema) merita di essere visto e discusso il più possibile e il regista di essere seguito nelle sue opere successive.
COME L’OMBRA, diretto da Marina Spada, giunta alla seconda regia dopo Forza Cani (2002), non convince del tutto: la storia è quella di una ragazza milanese, molto sola, che s’invaghisce del suo insegnante di russo, il quale le metterà in casa una misteriosa cugina; il racconto parte lentissimo e non si sviluppa in maniera solida né avvicente e il film, apparentemente più interessato all’aspetto visivo e alla rappresentazione quasi astratta di una città vuota (di rapporti umani), si perde nell’incertezza fra narrazione e contemplazione, senza andare realmente a fondo in nessuno delle due strade. Emblematico è il momento in cui le due ragazze cantano "La Solitudine" di Laura Pausini: significativo sia della tendenza didascalica del film, sia del fatto che questa scena, estremamente riuscita, supera (rivelandoli) il limiti di Come l’ombra grazie all’ironia e ad un riferimento pop che abbandona, per un attimo felice, il lirismo ricercato e un po’ vecchio della pellicola nel suo insieme.
Le ultime due opere in concorso, TRE DONNE MORALI (di Marcello Garofano, critico cinematografico, con Maria Gonfalone, Piera Degli Esposti e Lucia Ragni) e FRATELLI DI SANGUE (di Davide Sardella, con Barbara Bobulova, Fabrizio Gifuni e Fabrizio Rongione) hanno stonato nel Concorso, non solo per la loro bruttezza (quasi oggettiva, direi), quanto per l’approccio al Cinema, lontano dalla libertà tecnica e di intenti degli altri film. Il primo, noiosissimo elenco delle letture e delle indignazioni del novello regista, si affida a tre attrici teatrali di riconosciuto successo per una sterile accusa a quanto l’Italia assomigli all’incubo descritto da Pasolini trent’anni fa: grazie, lo sappiamo, abbiamo letto Pasolini anche noi e non ci interessano lezioni sul passato, cerchiamo qualche idea sul presente. Il secondo è un turgido melodramma da camera, ambientato in una cantina, tutto chiuso nelle allucinazioni del protagonista, del quale gli altri personaggi non sono che le proiezioni: una sceneggiatura scrittissima, fitta di dialoghi pseudo-psicanalitici e ultra-metaforici; una regia tecnicamente buona (che si avvale di tecnici inglesi molto bravi) ma gelidamente pianificata; tre attori mai del tutto convincenti. In fin dei conti si tratta di un film che cerca di dire qualcosa sull’Italia e di un autore che potrebbe rivelarsi interessante ma, in questo caso, l’esperimento non è riuscito: speriamo che quest’opera prima serva da stimolo per cambiare stile e genere, cosa che l’autore ha d’altra parte annunciato parlando del suo prossimo lavoro.
La sezione intitolata “Anarchia e rivolta” ha mostrato film di valore diseguale ma costante interesse: dal documentario sul movimento anarchico a Carrara, NON SON L’UN PER CENTO (2006), di Antonio Morabito, al film di Hal Ashby dedicato alla vita di Woody Guthrie, BOUND TO GLORY (Usa, 1976); dal provocatorio e invisibile PARADIES. EINE IMPERIALISTICHE TRAGIKOMEDIE (Ger, 1976), di Zelimir Zilnik, al film dedicato ad uno dei fondatori del movimento anarchico, MALATESTA (Ger, 1970), del tedesco Peter Lilienthal; dal “diario”, della serie prodotta da Nanni Moretti, di ANTONIO RUJU. VITA DI UN ANARCHICO SARDO (2001), diretto da Roberto Nanni, al documentario, formalmente molto elaborato, AN INJURY TO ONE (Usa, 2002), di Travis Wilkerson, che racconta della feroce repressione delle lotte sindacali dei minatori americani negli anni Dieci e Venti.
Il programma del Festival prevedeva altre sorprese: un piccolo omaggio allo sceneggiatore Age (Agenore Incrocci), scomparso quest’anno, con i suoi TERESA LA LADRA (1972) di Carlo Di Palma, TOTò SCEICCO (1950) di Mario Mattoli e BRANCALEONE ALLE CROCIATE (1970) di Mario Monicelli; una sezione dedicata a film che affrontano, in qualsiasi modo, il rapporto Europa/Medio Oriente: il film di montaggio sulla questione palestinese INTRODUZIONE ALLA FINE DI UN ARGOMENTO (Canada, 1990) di Jayce Salloum e Elia Suleiman (il regista di Intervento divino), IL FEROCE SALADINO (1937) di Mario Bonnard, HOLLYWOOD SUR LE NIL (Francia, 2003) di Saïda Boukhemal e il documentario dedicato ad uno dei fondatori del Manifesto, di origine libica, VITA E AVVENTURE DEL SIGNOR DI BRIC A BRAC (BREVE BIOGRAFIA DI VALENTINO PARLATO) di Marina Catucci (2006), Matteo Parlato, Roberto Salinas; due film italiani, SEGNO DI FUOCO (1990) di Nino Bizzarri e SUSPIRIA (1977) di Dario Argento, sono stati proiettati nella sezione dedicata alle colonne sonore, che ha proposto anche due incontri con i compositori della musica dei film presentati, rispettivamente Carlo Crivelli e Claudio Simonetti (dei Goblin); la sezione "Triplo Ovidio" ci ha riservato invece il corto LA CENA DI EMMAUS (2006) di Josè Corvaglia, prodotto da Gianluca Arcopinto; il documentario diretto da Pappi Corsicato DIARIO DI VIAGGIO CON FANTASMI (2006), dedicato alla messa in scena teatrale, dello stesso regista, del testo di Eduardo De Filippo "Questi Fantasmi!" da parte di attori americani, fra i quali John Turturro; e FUNERAL PARADE OF ROSES/BARA NO SORETSU (Jap, 1969) di Toshio Matsumoto, la vera gemma dell’intero Festival: film-chiave del “Nuovo Cinema Giapponese” degli anni Sessanta, mescola, forse con troppa riverenza, Godard e l’underground americano (Warhol e Mekas, quest’ultimo citato esplicitamente) ma riesce, anche per la spregiudicatezza di questo mix tutt’altro che indolore, a costruire qualcosa di assolutamente originale e completamente giapponese, proponendo fra l’altro, forse, il primo protagonista travestito del cinema nazionale. Per comprendere l’interesse, estetico e soprattutto culturale, di quest’opera decisamente unica, basti pensare che diversi elementi figurativi e stilistici, ma anche alcune allusioni tematiche, sono state riprese inequivocabilmente da Kubrick in alcune scene di Arancia meccanica: si tratta perciòdi un film davvero importante per valutare con maggiore attenzione correnti determinanti del cinema e della cultura internazionale nel cruciale periodo a cavallo degli anni Settanta.
Il bilancio complessivo del Festival risulta, alla fine, estremamente positivo, sia per quanto riguarda il Concorso, e quindi il panorama degli esordi e delle opere seconde del cinema italiano meno compromesso con le logiche produttive televisive o commerciali, sia per quanto riguarda le sezioni collaterali, che esplorano il cinema, ignorando i confini di genere (finzione/documentario), di epoca o di nazionalità, alla ricerca di linee di collegamento, estetiche quanto politiche, fra modi diversi di fare cinema al di fuori dell’industria dello spettacolo.
Sulmona, 11:11:2006 |