a cura di Gabriele Francioni

30/30

Welcome to the new Surface

Selena Gomez, Vanessa Hudgens, Ashley Benson e Rachel Simon Korine, scollate temporaneamente dall’universo-Disney, sono ragazzine appena approdate al college, ma già desiderose di transitare verso dimensioni più aeree, mutuate dalla contro-realtà dei videogame, di internet e dell’immarcescibile catodo. Rapinano tarantinamente un ristorante per pagarsi le vacanze pre-estive, dove vivranno the time of their lives.
Adattamento sussurrato dello “School’s Out” di Alice Cooper, “Spring breakers” è l’invocazione spiritualistico-ribellista di una generazione abortita.
Faith
(come Juliette Lewis in STRANGE DAYS), Candy, Brit e Cotty finiranno dritte dentro le fauci metalliche di Alien/James Franco, dj-gangsta-rapper di St. Petersburg, Florida, che ha organizzato attorno allo spaccio di droghe sintetiche un’enclave autosufficiente e alternativa al potere nero nel settore. La sua comune molto poco anni Sessanta si posiziona all’incirca tra THE BEACH, Russ Meyer e KILL BILL, ma il tema dell’autodeterminazione di gruppo e al femminile avvicina la pellicola a 17 FILLES, per quanto l’accostamento possa sembrare improbabile.
Come una girandola colorata che perde i pezzi, la family di Alien si disgrega appena i suoi bordi arrivano a toccare la roccia dura della vita vera.
Korine, di ritorno a Venezia dopo il dogma-95 JULIEN DONKEY BOY (1999, esordio di Alberto Barbera), sa di avere a che fare con superfici e decalcomanie, per cui predispone correttamente un apparato di deformazioni e accentazioni visive
- sfocature, slow motion parossistici, cromatismi ultrapop - che ribalta il pedinamento para-documentaristico di TRASH HUMPERS e J.D.BOY e si allontana dalla residualità concreta di GUMMO, in cui il tornado che aveva devastato la small town di Xenia lasciava sul campo di battaglia del film un’umanità altrettanto lacerata, ma dolente e fatta di corpi in 3-D.
Figlie dei figli dei figli dei fiori, le protagoniste di SPRING BREAKERS, invece, incarnano la società gassosa o aerea in 2-D degli Anni Dieci, andata oltre lo stato di liquidità teorizzato da Zygmunt Bauman, dove le situazioni in cui si muovevano gli esseri umani si modificavano prima che i loro modi di agire riuscissero a consolidarsi in abitudini e procedure. Sono a distanza siderale anche dalla solidità prismatica dell’epoca dei Grands Recits lyotardiani e delle Ideologie dei nonni, nati agli inizi degli anni ‘40.
Teenagers passate senza soluzione di continuità dalla condizione neonatale al flusso di dati dei social network, che ti riorganizzano l’identità nel lampo di un  tweet e a loro piacimento
- “Real-life inertia magically disappears in the frictionless surfing of cyberspace”, suggerisce Slavoj Zizek - le ragazzine armate di mitraglietta e bikini vengono riprese da Harmony Korine come immagini prodotte dal sudario deposto sui corpi bucati e flagellati, ancora tridimensionali, del preistorico KIDS (1995).
Ne sono l’ultima restituzione visiva, la crosta ormai volatile, il suono, più che l’immagine.

Le situazioni in cui si muovono ne anticipano abitudini e procedure, per così dire, e i contesti in cui vengono a trovarsi lanciano un segnale proveniente dall’immediato futuro (minuti, secondi), che serve da traccia per i loro comportamenti e per i residui delle loro azioni. Sono la decalcomania precaria di un futuro che si fa passato nell’arco di un click. La loro non è una ricerca identitaria, semmai un trascorrere letteralmente “superficiale” attraverso stati esteriori, che descrivono la traccia di un romanzo di formazione (di corpi senzienti) virato verso il romanzo di deformazione (d’immagini). Quando fanno capolino brandelli di realtà nel corso del racconto, si genera una vertigine imprevista e assolutamente fuori contesto, in cui implodono, come in un buco nero narrativo, le protagoniste. Scompaiono, letteralmente, così come in precedenza si erano mostrate in forma di pop-up.
La pellicola ruota intorno alla scena rallentata in cui James Franco esegue (al pianoforte!) “Spring Breakers Forever” di Britney Spears, quasi fosse un tool generazionale che ricicla materia già usata da chi sulla citazione ha costruito un’intera vita, restituendola, nonostante tutto, a una dimensione assoluta, classica e atemporale.