SCIENCE +
FICTION
festival della fantascienza
Trieste,
12-18 Novembre 2007
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di Gabriele FRANCIONI
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Evento "GRINDHOUSE"
18 Novembre 2007
GRINDHOUSE
di Quentin Tarantino, Robert
Rodriguez
Stati Uniti 2007, 192'
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Non parliamo di un film che
abbiamo già visto una decina di volte e ormai in tutte le possibili varianti
distribuite in Usa e Europa (versione americana, questa; versione
italiana, coi film allungati e separati, passati in sala doppiati; dvd del
DEATH PROOF celibe fatto arrivare dall’America, migliore dell’edizione
italiana), alla faccia dei tromboni stonati, quelli già assai attempati, che
se la sono presa sgangheratamente col genio di Tarantino, cui dovrebbero -
tanto per rimanere sulle loro immote lunghezze d’onda - fare da sciuscià…
Non ci è piaciuta questa versione, perché sposta tutto il peso sulla prima
parte, trailers fake inclusi.
Sarebbe bastato dividere in due tempi ciascun film, così da avere più spazi
in cui distribuire i vari Rob Zombie, MACHETE, THANKSGIVING.
Stranissimo che nessuno ci abbia pensato, perché il risultato è che sembra
di assistere a una folle corsa ematica, fracassona e divertente,
contrapposta a un breve segmento filosofeggiante.
Poiché DEATH PROOF non è affatto solo dialoghi, i tagli pensati da QT
per il suo film risultano davvero troppi, perché fanno scomparire ampissime
e necessarissime zone in cui l’immagine pura ricompone l’equilibrio tra i
pieni e i vuoti complessivi.
Senza dire poi di alcune differenze che spezzano il ritmo in più di
un’occasione: i dialoghi sono diversi, più lunghi quando Zoe viene sbalzata
fuori dalla Dodger e ritorna verso le compagne.
Idem poco dopo: invece del “Do you like movies?” di Zoe prima che Stuntman
Mike sfasci il cartellone pubblicitario di “Scary Movie 4”, ascoltiamo un
innocuo “Stay aside”.
Ancora: il tormentone “I’ve been lucky”, che torna tre volte nella versione
europea, qui perde la scena del tizio con l’ombrello che va in macchina con
Butterfly.
Simpatico il “missing reel”
della lap dance di quest’ ultima, ma infinitamente meglio poterla vedere!
Anche per non accorciare troppo la seduta che ha luogo nel bar di Warren.
Inaudito - per noi accaniti studiosi di QT - sovrapporre dialogo su Kurt
Russel che fotografa le ragazze prima che entrino in auto.
E assolutamente grave, come anticipato all’inizio, aver tolto tutta la parte
dell’autogrill: l’acquisto di “Allure”, la suoneria killbilliana del
cellulare di Rosario Dawson, Lee che canta in macchina e Stuntman Mike che
accarezza i piedi di Abernathy. Nonché il cambio cromatico
colore/b-n/colore.
Tralasciamo altre microdifferenze, ma pensiamo che l’insuccesso americano
abbia straordinariamente giovato a DEATH PROOF - versione europea.
Continuiamo a preferire il trailer di Zombie agli altri.
Quello che contava, al di là di tutto, era vedere il film con un pubblico di
alto livello, ovvero quello del SciencePlusFiction, e non quello composto
dagli sbarbati spenti che pascolavano - sparuti - per le sale italiche nel
mese di giugno…
Sala strapiena, godimento assoluto nel ridere all’unisono, cogliere i mille
riferimenti a voce alta, applaudire…
Mancava solo Joe Dante, distante qualche sala.
è sempre sorprendente
ascoltare il dialogo tra Zoe e Kim in strada, mentre Abernathy le aspetta
nella Dodger: fanno l’uomo (Kim) e la donna (Zoe) poco prima di fare sesso,
anche S/M.
“Non ho mai voglia di farlo prima di farlo…”, “Neanch’ io!”; “Allora
inizi mettendoti sopra?”, “Ma certo, se no non mi diverto!”; “No, non usiamo
la mia cintura!”, e mentre Kim indossa il “guanto”, se ne esce con: “Gli
accordi erano che tu mi facevi da schiava!”, per poi lanciarsi (Zoe legata
al “letto”) in un lunghissimo fucking-act a gambe aperte (sempre Zoe) o
pieno di “scurrilità” (Kim).
In mezzo a tutto ciò, la mammina Abernathy ha l’“illuminazione” che la
trasformerà da ragazza pudica a dirrrty-girrrl.
30/e lode
al film e all'Evento
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LES
MAITRES DU TEMPS/time masters
di
René Laloux
Francia/Svizzera/Ungheria/Germania Ovest
1982, 78'
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Nell’epoca pionieristica
dell’animazione “contemporanea”, Jean Giraud/Moebius ebbe un ruolo
rivoluzionario, i cui primi risultati si potevano già apprezzare in LES
MAITRES DU TEMPS, splendido film di 25 anni fa scritto insieme a René Laloux.
A soli tre anni da ALIEN, Moebius ritrova un pianeta dove nascono specie
animali deviate, segnate da un’estetica postmodernizzante,
incroci meccan/organici anni prima di TETSUO e appena dopo Giger.
Sul pianeta Perdide, calabroni giganti attaccano l’automobile del padre di
Piel e il bambino comincia a comunicare con l’universo viaggiante dei
possibili salvatori: ancora la dinamica terra/spazio assegna all’infinitezza
del secondo una valenza salvifica, esploratrice di nuove possibilità.
La staticità stanziale dei pianeti antropizzati genera mostri, laddove
l’aprirsi erratico verso nuovi mondi - on space, piuttosto che
on the road - apre anche le porte della percezione.
Il tratto di Moebius si arricchisce col procedere della storia,
parallelamente a un intreccio sempre più complesso.
Il segno “complessivo” di Moebius va studiato al ralenti, quindi evoca la
pagina disegnata, ma non perde nulla dentro l’animazione.
Pur entro una gamma cromatica limitata, rispetto ai lavori successivi,
l'estetica moebiusiana stratifica qui i piani di una fascinazione psic(hedelic)o/ipnotica
che trascina lo spettatore entro una dimensione magica jodorowskiana,
anche se solo a livello visivo.
29/30
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cinemonstre
di Enki Bilal
Francia 2006, 67'
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Un cut-up di controllata
arte burroughsiana, agìta nei confronti di propri materiali, propri film,
propri corpi.
Più efficace di qualunque opera in movimento di Bilal, trova nella
cortocircuitazione di tracce scomposte e ricomposte il suo (non)senso
più profondo.
Il nonsense conferisce ossimoricamente all’immagine quella
profondità di senso assente che è propria di grandi visionari
necessitanti forti storie per non perdersi in derive mimetiche di quelle
di altri.
IMMORTEL AD VITAM è molto meglio fatto a pezzi, TYKHO MOON e BUNKER PALACE
HOTEL (film-film) ci erano già piaciuti.
Genialmente spiazzante il ri-doppiaggio multilingue dei vari segmenti.
Un modo di fare arte necrofila, ma vitale, pulsante, capace di far schizzare
brandelli di significato un po’ ovunque, senza lasciare altro che
evidentissime tracce invisibili.
29/30
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MANT
in
MATINEé
di Joe Dante
Stati Uniti 1993, 20'
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Il corpulento signore che in
ROSEMARY’S BABY si avvicina a una terrorizzata Mia Farrow, barricatasi nella
cabina telefonica nel tentativo di comunicare con chi ritiene non essere
satanista, è William Castle, il produttore di quel film. Polanski non si
fece problemi a lavorare con qualcuno che, pur di spaventare lo spettatore,
attrezzava le sale con marchingegni elettrici per dare la scossa alle
poltrone degli spettatori.
Ed ebbe ragione.
Castle aveva anche diretto la second unit di THE LADY FROM SHANGAY per Orson
Welles e, oltre al quasi-biopic THIS FILTHY WORLD di John Waters (ennesimo
cormaniano d’adozione), può vantare due recenti remake di film come HOUSE ON
THE HAUNTED HILL e 13 GHOSTS, sicuramente amati da JD.
Sorta di Roger Corman smaliziato e più “commerciale”, Castle era un mito per
il ragazzino Joe Dante da Morristown, New Jersey.
Joe jr. non si perdeva mai i doppi spettacoli del mattino: cartoon o
fantascienza, non faceva alcuna differenza. MATINEè,
appunto: il rifugio fantastico, il luogo astratto e colorato entro il quale
perdersi, per tentare di dimenticare l’incubo di una possibile guerra
nucleare.
Lawrence Woolsey, il regista di MATINEè
interpretato da John Goodman, è più che semplicemente ispirato a Castle, di
cui sembra la versione cartoonizzata, la deformazione affettuosa operata dal
regista. Mascella ancora più larga, fisico amplificato, gigante buono e
secondo papà per un’intera generazione di baby-boomers, Woolsey-Castle gira
MANT, l'Uomoformica, e porta il suo film in giro per le sale della provincia
americana.
Al SciencePlusFiction possiamo gustare la versione completa, un corto a
tutti gli effetti, del MANT usato in MATINEè.
Mant è un piccolo, scintillante, perfetto gioiello che
lancia sguardi verso gli anni ’50 facendoli propri, assumendone in chiave
delicatamente parodistica le esagerazioni e le amplificazioni. In uno
splendido b/n contrastato e in mezzo a infiniti shadowplays, le folli
angolazioni imposte alla m.d.p. da JD risultano ancora più pertinenti,
perché gigantizzano un mondo visto secondo la prospettiva dell’eterno
fanciullo.
La crescita inarrestabile dell’Uomoformica, che procede secondo un ritmo
inevitabilmente serrato, ci dice anche questo: Dante è praticamente perfetto
quando la sintesi narrativa deve essere massima. Il formato breve o
brevissimo, insomma, è straordinariamente consono alle sue iperboli visive.
30/e lode
Breve filmografia di William
Castle come regista.
I titoli dei film bastano,
da soli, a descrivere il mood di un’ epoca:
The Old Dark House (1963)
13 Frightened Girls (1963)
Zotz! (1962)
Mr. Sardonicus (1961)
Homicidal (1961)
13 Ghosts (1960)
The Tingler (1959)
House on Haunted Hill (1959)
Macabre (1958)
"Science Fiction Theatre" (1 episodio, 1956)
Uranium Boom (1956)
"The Man Called X" (1 episodio, 1956)
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MUSHISHI/bugmaster
di
Katsuhiro Otomo
Giappone 2006, 131' |
 |
di
Marco GROSOLI
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Le intricate vicende di un “Mushi-shi”,
un prozio giapponese degli acchiappafantasmi, nel Giappone di prima della
vontata modernizzatrice. I “Mushi” sono demoni piccoli ma potentissimi, che
appunto necessitano di specialisti per venire debellati. Volendo ci
sarebbero mille altre volute narrative, ma lasciamo pure perdere.
Otomo, regista di animazione alla seconda prova “dal vero” con attori e
tutto, non convince granché. L'impostazione visiva è indovinata:
ambientazione di estrema, vellutata pacatezza naturalistica, effetti
speciali piuttosto appariscenti ma insidiosamente realistici,
suggestivamente in continuità con il naturalismo di base dei set.
Il grosso problema è la tenuta narrativa. Ore e ore di dialoghi ininterrotti
per dipanare un filo di trama di interesse trascurabile. Qualche invenzione
dignitosa qua e là, ma per il resto il risultato è soporifero. Nulla di
orribile o brutto, ma francamente noioso, pesante.
22/30
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rec
di Jaume Balaguerò, Paco Plaza
Spagna 2007, 85'
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Grandissimo successo di
pubblico al SciencePlusFiction di Trieste: REC, già passato alla Mostra del
Cinema di Venezia di quest’anno, turba i sonni di centinaia di ragazze e
ragazzi triestini, che escono dal Multisala Le Torri d’Europa discutendo
animatamente attorno all’elemento perturbante del film.
Balaguerò si risveglia improvvisamente
dall’incubo estetico di FRAGILE e PARA ENTRAR A VIVIR, il primo sofferente
di eccesso di produzione, scegliendo l’opzione dell’antitetica e
agile scorciatoia simil-digitalizzante, che non direbbe nulla di
nuovo, se lo spagnolo non avesse al fianco il più fresco Paco Plaza (SECOND
NAME).
In totale e continua soggettiva, quella del
cameraman Pablo, si entra in un polanskiano condominio madrileno insieme al
carico di cinismo voyeuristico e audience-inducted che accompagna un
live-show situazionista a puntate, di cui viene mostrato il segmento
pompieristico. Assistiamo, in pratica, a un piano sequenza che sarebbe
infinito, se non intervenissero le interruzioni coatte agite sul povero
Pablo (un vero eroe capace di fare mille cose in una volta, incluso
soccombere sul lavoro senza neanche la soddisfazione di un primo piano) da
un’umanità variamente inferocita e infetta.
Apparentemente niente di nuovo neanche qui - si
pensi a KIKA e a decine di altre pellicole sulla mostruosità
degenerativa del mezzo televisivo - e ancor meno nell’utilizzo del
ricorrente topos narrativo dell’assedio (sia interno che esterno) o
della quarantena: da Romero a Friedkin (BUG) gli ammiccamenti si
sprecano e si sommano al dichiarato intento di dar vita al remake urbano
e non ellittico di BLAIR WITCH PROJECT.
Eppure, dal momento dell’apparizione della
vecchia pre-zombie grondante sangue (la m.d.p. in movimento serve qui le
necessità di una fantasmaticità rabbrividente, chiaroscurale e incerta)
il film acquista una sua inarrestabile potenza, totalemente absoluta
dal fardello citazionistico. è
come se tutte le sequenze ambientate al piano alto, e poi nel seminterrato,
contenessero una spaventosa forza visiva che cortocircuita iperrealismo e
visionarietà, quasi che il non-detto di B.W.P. trovasse qui,
imprevedibilmente, una plausibile mise en scène.
L’escamotage dell’effetto
notte imposto alla videocamera produce immagini tra il fetale e il terminale
che battono di molto - e ci costa non poco ammetterlo - l’immaginario di
svariato cinema nipponico nakatacentrico, bambine capellute in primis.
L’attimo in cui Jennifer sembra materializzarsi nel finale dietro la
petulante conduttrice tv, è profondamente disturbante, al pari dello
svelamento agghiacciante di un’indecifrabile “cosa”/corpo-di-vecchia,
responsabile della indicibile chiosa posta in calce a una vicenda di per sé
non originalissima.
Hanno ammazzato Pablo, è
vero, ma non c’importa più di tanto: lasciamo ad altri le osservazioni su
coerenza e plausibilità narrative tradite, noi ci teniamo la vecchia grassa,
la “cosa magra” e lo scivolamento nel nulla dell’anchorwoman petulante.
28/30
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DR. PLONK
di Rolf De Heer
Australia 2007, 83'
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Un'occasione mancata, un film monco,
nonostante la classica durata dell'ora e mezza circa.
Più che l'inevitabile "medium" per la messa in scena di un ragionamento
"alto" sulle derive del 2007, il ricorso al film muto e alla chiave comica,
con repliche filologiche di siparietti dell'epoca e del genere di
riferimento, sembra piuttosto un pretesto per suscitare una qualche reazione
nello spettatore.
Il quale, invece, si specchia nella scelta
di De Heer, rimanendo "muto" di fronte a tanto spreco e a un tipo di
comicità "trapassata".
Al di là di tutto ciò, non è disprezzabile l'intento di costruire il film
sui continui salti nell'epoca attuale da parte del Dr. Plonk, in partenza da
un 1907 fatto di un solo interno e alcuni esterni e del quale non ci viene
mostrata "l'anima", ma solo il decor. L'ultimo quarto d'ora si stacca dal
resto del film, quando mostra, finalmente, l'interazione tra le due epoche.
L'intento di mostrare "la fine del mondo" rimane racchiuso in un paio di
sequenze agghiaccianti (le famigliole congelate davanti al televisore, in
una fissità terminale) e in poco altro.
25/30
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THE HOST/ GWOEMUL
di Joon-ho Bong
Corea del Sud 2006, 119'
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Già passato a Cannes 2006,
THE HOST/GWOEMUL regge il confronto con gli altri film del festival e, pur
fuori concorso, si colloca in primissima fila, tra i migliori di
quest'edizione del SPF.
Bong-Joon Ho, che sta già lavorando a una nuova pellicola insieme a
Park-Chan Wook (quindi l'avanguardia visiva più spinta del cinema
sud-coreano), appronta una materia composita, che attinge all' immaginario
atemporale del cinema di fantascienza per ragionare attorno allo "stato
delle cose" del suo paese, incrociando iperboli visive e valore "politico"
del testo.
In un contesto pre-apocalittico, ma assolutamente collocato nel presente,
seguiamo le vicende di una famiglia che cerca di sciogliere i nodi di
rapporti mai risolti nel momento in cui si mette alla ricerca della sorella
più piccola, Hyun-Seo, rapita dal mostro acquatico (una mega-trota cyberpunk
riprodotta in CGI) che fa la sua apparizione nel secondo, straordinario
incipit del film.
L'animale è una "post-cosa" alienica generata dalla folle ybris di un
laboratorio di sperimentazioni gestito dagli americani di stanza in Corea
del Sud.
Tutto accade in velocità, il
ritmo è folle, le ellissi sempre assolutamente necessarie.
Come un King Kong degli "ipertempi" che segnano questo Terzo Millennio in
cui tutto va alla deriva, l'animale non uccide la piccola (amata) e nemmeno
un altro bambino successivamente "vomitato" nell'incredibile nascondiglio
che "the thing" ha trovato nei canali di scolo che scaricano nel fiume Han
della capitale Seul.
L'animale incarna la ribellione contro la sistematica manipolazione dei
corpi e delle informazioni (altro testo: la generalizzata falsità dei media
è materia posta in grandissimo rilievo) operata dal governo insieme agli
americani. La mutazione genetica coatta delle specie acquatiche è solo il
pretesto per generare uno stato d'allarme a 360 gradi, mettere in quarantena
metà della popolazione e utilizzare il "fattore giallo" (una specie di
disinfestante in polvere rilasciato nell'aria durante il lunghissimo,
portentoso finale) che dovrebbe provocare uno sterminio.
La famiglia, la dimensione privata di singoli che non hanno raggiunto alcuna
meta pubblica, alcun successo carrieristico all'interno della struttura
statale, ribalterà gli eventi, insieme ad una schiera di ribelli molto "anni
'70", armati di molotov e di una purezza ideologica ormai perduta nel resto
della popolazione.
THE HOST affascina, coinvolge, commuove, dimostrando quanto il cinema di
(altissimo) genere sia ancora in grado di veicolare testi e idee altrimenti
persi nel magma onnivoro di una cultura visiva omologata, piatta e
senz'anima.
30/30
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LA
HORA FRIA
di Elio Quiroga
Spagna 2006, 93'
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L'inizio rimanda
direttamente al recentissimo di REC di Balaguerò e Plaza (tra l'altro
riproposto con grande successo qui al SPF dopo il passaggio veneziano di due
mesi fa): visioni notturne filtrate dall'occhio dell'ormai onnipresente
videocamera digitale e fa pensare, per certi versi, al "peggio". Poi, però,
l'universo che si dispiega davanti a noi, tra enclaves di umanità
terminale, vita scandita da primarie necessità di sopravvivenza e presenze
aliene perturbanti (questa volta sono "gli Estranei") costruiscono una buona
tensione che porta all'inaspettato colpo di scene finale, che investe il
senso complessivo del film e non solo alcune linee di significato.
In Usa si pensa già al remake, The
Dark Hour.
28/30
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THEM!
di
Gordon Douglas
Stati Uniti 1954, 93'
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Il valore di un festival si
misura attraverso le "associazioni visive" più o meno trasversali che
propone. Lo SPF, forte di una dimensione e di scelte che lo caratterizzano a
metà tra concorso "classico" e interpretazione libera del concetto di
"retrospettiva", si apre con grande libertà a tutta una serie di occasioni
altrimenti non ricreabili altrove.
Sabato 17 abbiamo "linkato" il segmento di MANT, a sua volta inserito in
MATINEé di Joe Dante (ma qui
visto separatamente dopo la proiezione del lungometraggio d'origine e nella
sua interezza), e il fantastico THEM! di Gordon Douglas.
JD, che continua a ribadire la propria natura radicalmente
artigianal-sovversiva (come nella lunga, nuova, intervista concessa a
KINEMATRIX, a breve inserita in questo spazio "triestino"), devo molto a
tutta una generazione di filmakers "cormaniani" prima dello stesso Corman,
ovvero capaci di raggiungere il massimo grado di libertà proprio quando
costretti dai vincoli produttivi di un rapporto continuativo nei confronti
degli studios.
Douglas (1907/1993) passò da episodi della serie "Our Gangs" a ZENOBIA con
Laurel e Hardy, sino a THE DEVIL WITH HITLER(!) e THE DREAM con Elvis
Presley: praticamente un surfing spietato attraverso i generi, anche quelli
più bassi e commerciali.
THEM, del '54, quindi in piena Guerra Fredda e in epoca di prese di
posizione etiche sul tema degli effetti dell'atomica sull'environment e
sugli esseri umani, ragiona di formiche giganti che mettono a rischio il
pianeta. Il tema della mutazione incontrollata (e l'insetto di riferimento)
hanno dato lo spunto a Joe Dante per MANT (man+ ant), che a quasi quarant'anni
di distanza dall'"originale" ritiene di dover, correttamente, applicare una
sorta di calco testuale e visivo nei confronti dell'exemplum douglasiano.
THEM scioglie con nettezza, velocità e notevole orchestrazione dei ritmi
narrativi la materia testuale, che ci porta da uno splendido inizio
chiaroscuralmente da brivido - la contrapposizione tra l'accecante deserto
in cui viene ritrovata la bambina e le scene in notturna, tra tempeste di
sabbia, case sventrate e prime rivelazione del "monstrum" - sino alla
precisione asettica delle analisi scientifiche e, nel finale, alla deriva
urbana di un terrore "informe" che scorre sotto la pelle della grande città
incapace di affrontare la qualità degenerativa delle radiazioni atomiche.
Il film "stands the test of time" (tra l'altro proiettato in anamorfico e in
una copia perfetta), oltre a confermare la splendida qualità derivativa del
cinema dantiano, assolutamente e definitivamente "in love", innamorato degli
anni '50.
28/30
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moebius redux: A LIFE IN PICTURES
di Hasko Baumann
Francia/Germania 2007, 52'
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Favoloso, rivelatore,
magnificamente immaginifico: il percorso a ritroso sulla vita di Moebius,
l'altra presenza magica e catalizzatrice di ogni tipo di attenzione
cult-mediatica qui al SPF 07, infilza i vari collaboratori del genio con
ritmo pari almeno a quello con cui SilverSurfer attraversa trasversalmente
gli spazi "siderali" e terreni.
Chiunque, anche il non appassionato, potrebbe fatalmente capitolare di
fronte al dispiegarsi di un percorso che affascina proprio perché condotto
sul doppio piano privato/ personale e pubblico (?, non c'è molto di pubblico
in un "cartoonist" che concede di sè solo "facies" tendenti a nascondere il
proprio sè o a porlo su un piano tra il mitico e il messianico).
Gli intervistati - favolosi Jodorowsky e Giger, già malato e con look folle
- tracciano le coordinate di un personaggio definito come "inattingibile" da
tutti, multiverso e sfaccettato come i suoi vari percorsi creativi (Metal
Hurlant, Alien, SilverSurfer, Incal), a metà tra un infantilismo congenito e
l'ego classico del genio, che da tutti allontana, fino alle fughe a Tahiti
con il pazzo Appel-Aubry.
è Moebius stesso a denunciare
la propria natura sfuggente e le diverse "vittime" lasciate lungo il
tragitto di una vita, ma è il primo a sapere di essere mortale ("morirò
banalmente...") e non infinitamente riproducibile come i propri eroi.
Per tuti (gl)i (eventuali) neofiti: andate, comprate le bellissime edizioni
della serie INCAL e tutto quello che ha fatto con Jodorowsky.
Ma, ovviamente, anche gli inizi di HEAVY METAL, A NEW TOMORROW, la
collaborazione con O' Bannon, il "caso-Blade Runner" e le accuse della setta
di cartoonist di avere deliberatamente rubato idee, come Jodorowsky farà con
Lynch per DUNE.
Ciò che attira di più e il mix di conoscenze e folli visioni degli "scriptwriter"
e dei disegnatori puri: gli uni non possono vivere senza gli altri e si
lanciano in simbiosi sconosciute ad altre forme dell' Arte.
Qui siamo in una NO MAN'S LAND nella quale sprofondare, col rischio di
innamorarsene al punto da non voler tornare più indietro.
30/e lode
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JADESOTURI
di Anti-Jussi Annila
Finlandia/Estonia/Paesi
Bassi/Cina 2006, 104'
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Ecco una delle tante nuove
scoperte del mondo sommerso, e talvolta, emerso, della Sciencefiction: il
blockbuster finnico (che però, di questi tempi, se vuole attraversare i
territori delle arti marziali, deve per forza andare in Cina). Ne consegue
un'imbastitura simpaticamente improbabile della storia, per cui il
protagonista (Sintai/Kai a seconda delle due epoche in cui lo vediamo agire)
è sì cinese, ma di madre "proveniente da una terra molto, molto lontana", il
ché ne spiega i tratti scandinavi.
JADE OF WARRIOR/JADESOTURI è stato un blockbuster della scorsa stagione
finlandese, ma i cinesi non l'hanno pensata allo stesso modo. Certo, la
forzatura iniziale è notevole e il wuxiapian in salsa finnica non ha le
destrezze del caso, ma l'insieme, forse proprio per la sua fantasiosa
improbabilità, si lascia guardare.
Sintai/Kai ama, ma non dovrebbe, la splendida Pin Yu (Jing Chun Zhang, già
vistissima altrove, magari poi lo diremo), già impegnata.
Siamo circa nel 2000 A.C. -ma, anche qui, le date sfumano nella nebbia della
scienceficitionalità - è la cosa distrae il nostro dal potere, essendo il
Figlio del Fabbro ("Blacksmith"), uccidere, lui e lui solo, il decimo figlio
del Mostro...
Nelle varie reincarnazioni, Kai/Sintai dovrà decidersi a rinunciare una
buona volta alle grazie della Bella e rimanere bestialmente il rude
forgiatore di epici metallici, tra scintillii notturni e forgiature di spade
varie. 2006, la bellissima fidanzata finlandese (altra rivelazione del
festival: Krista Kosonen) lo lascia, in modo da consentirgli quella
catartica redenzione che passa attraverso la rinuncia alla "selfish greed"
di voler inseguire sesso & amore a dispetto dei propri doveri
epico-narrativi: in fondo il 10° figlio del Mostro è lì che aspetta da 4000
anni di essere debellato.
A parte alcuni buchi nello script, il film è una discesa negli abissi
dell'incomprensibilità linguistica da parte dello spettatore medio-pigro,
che non vuole leggere i sottotitoli proprio per gustare il continuo
passaggio dal mandarino al finlandese: mitico!
26/30
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CHRYSALIS
di Julien Leclercq
Francia 2007, 94'
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Un discreto cyberpunk
movies, che raccoglie ed elabora secondo la consolidata tradizione di Enki
Bilal e Pierre Jolivet temi ed estetica di un genere che va amato o
rigettato in toto, a seconda dell'approccio verso la cultura CP in termini
di cliché grafici. Senza i voli di fantasia di Bilal e con una struttura più
legata al classico poliziesco francese, CHRYSALIS vorrebbe essere MINORITY
REPORT incrociato con GATTACA, com'era nelle intenzioni del regista, ma
finisce col somigliare di più ad un buon frullato di SIM/ONE, IMMORTAL AD
VITAM (di nuovo: per il design della CGI messa in mostra, metallico-litoide
a seconda delle situazioni) e PAYCHECK.
Al di là dell'essere spazialmente asfittico come buona parte dei prodotti
CP, il film soffre un po' dell'acerbo tentativo d'innestare invenzioni "dickiane"
(la solita memoria umana cancellata o rimodellata) su un corpo testuale da
action-movie con tanto di scontri fisici molto marziali.
Si potrebbe comunque ricavare qualcosa di molto buono, date le ottime
performance del quartetto di attori protagonisti (bellissima Melanie Thierry,
una rivelazione), ma la mancanza d'aria e la voluta, ineluttabile
ambientazione in interni invivibili né ora né nel supposto 2025 ( ma che
senso hanno, ormai, queste date? sarà tutto più o meno com'è adesso...),
rendono l'insieme abbastanza duro da digerire.
I superappassionati del genere gradiranno, anche se molte cose sono state
già viste e non solo in MINORITY REPORT (un po' gratuita l'operazione al
cuore) , ma nel nostro LUMINAL di Andrea Vecchiato, che "01" distribuisce in
Italia, finalmente, in queste settimane.
Il cagnolino cyberpunk è più di una semplice citazione!
26/30
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SCIENCE +
FICTION
festival della fantascienza
Trieste,
12-18 Novembre 2007
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