SCIENCE + FICTION
festival della fantascienza
 Trieste, 12-18 Novembre 2007

 

di  Gabriele FRANCIONI

Evento "HOMECOMING"

Una brevissima osservazione: il doppiaggio dei tv-movies va bene quando si tratta di CSI:NY-MIAMI etc, o SIX FEET UNDER, oppure di LOST. In presenza di veri e propri film girati da riconosciuti “maestri”, si dovrebbe avere la cura di cambiare squadra e ingaggiare chi doppia normalmente i lungometraggi.
Nessuna voce è azzeccata, nessuna è fedele a quelle originali, né come timbro né come intonazione.
Tutto il “Marty Clark Show” viene penalizzato dalla pessima performance del doppiatore di Marty Clark stesso, che nell’originale tirava fuori una gamma divertentissima d’intonazioni, così come la splendida (anche attorialmente parlando) Thea Gill. Voci piatte, rumori d’ambiente – siamo in uno studio televisivo - ridotti al minimo, etc.
Riascoltatelo in originale e avrete il capolavoro che è.


HOMECOMING di Joe Dante.

Con Thea Gill, Jon Tenney e Robert Picardo.
Usa, 2005, episodio della serie-tv “Masters of Horror”, ideata da Mick Garris.
Produzione. “Showtime”.

 

Tornando alle origini, quindi homecoming a sua volta (ambito produttivo indipendente, film a budget ridottissimo),  Joe Dante usa tutta la libertà espressiva concessa ai registi di “Masters of Horror” per dire due o tre cose fondamentali sullo stato attuale del cinema americano di genere e sul sistema informativo deviato dei media in materia di guerra. Pur non rinunciando al gioco inter e metatestuale - tracce di NIGHT OF THE LIVING DEAD (G.A.Romero, 1968), THE PLAGUE OF THE ZOMBIES (John Gilling, 1966, tipico film della “Hammer”), J’ACCUSE/ THAT THEY MAY LIVE (Abel Gance , 1939) - Dante ragiona principalmente sul potere sovversivo del cinema dell’orrore in tempi bellici. Se i war movies costituiscono il genere di riferimento a mente fredda per ogni tipo di guerra messa in rappresentazione, potendosi avvalere di articolate e dotte analisi a posteriori che attraversano trasversalmente ambiti socio-antropologici e politici, l’horror garantisce una presa diretta impossibile da rintracciare in altre categorie filmiche.

Doc e mockumentary, infatti, devono necessariamente organizzare un apparato testuale e visivo che, autonarrandosi con il supporto del voice-over e l’inevitabile strumento dell’editing “tendenzioso”, finisce col deviare verso un’ambigua forma di iperrealismo dell’immagine spesso frainteso dal pubblico e, di fatto, rigettato per eccesso di evidenza dei fatti, di per sé sospetta e disturbante presso buona parte del pubblico.

Fatte tutte le distinzioni del caso e ribadita l’assoluta imprescindibilità di lavori come FARENHEIT 9/11, lo stesso OUTFOXED di Robert Greenwald e persino THIS REVOLUTION di Stephen Marshall, siamo peraltro convinti che HOMECOMING serva molto di più la causa di quanto facciano i titoli appena citati.

Se, in definitiva, i vari PATHS OF GLORY o FULL METAL JACKET richiedono una prospettiva temporale e i Doc-Mock rischiano l’accusa (ovviamente mal riposta, ma inevitabile) di contro-manipolazione dei dati del reale in quanto utilizzano –seppur ribaltato nel senso- lo stesso stile dei media televisivi, la sottile natura sottotestuale del film di genere fa sì che ogni tipo di ragionamento sovversivo e politicamente destabilizzante possa essere veicolato attraverso esso.

Non è quindi azzardato affermare che l’horror è l’unico genere in grado di ragionare in tempo reale sull’evento bellico.

Spingendoci oltre, diciamo che il “film di guerra corretto” è il genere bellico di riferimento solo se prodotto a posteriori, mentre l’horror - trasversalissimo, quindi elastico, flessibile - è l’unico cinema di guerra plausibile quando ancora si combatte, quando ancora è vivo l’orrore della morte.

Un termometro, una cartina di tornasole impareggiabile.

è Dante stesso a dircelo negli “extra” di HOMECOMING: andate a vedere le grandi crisi socio-politiche attraversate nell’ultimo secolo dal mondo occidentale  e scoprirete un parallelo rinascere di questo genere.

DRACULA di Tod Browning segue di due anni la crisi del ’29 e traccia le coordinate per l’intera Depressione; NOSFERATU, EINE SYMPHONIE DES GRAUENS fu girato da Murnau 4 anni dopo la fine della Grande Guerra, con la Germania che aveva appena iniziato ad elaborare il lutto della sconfitta.

Lo stesso TEXAS CHAINSAW MASSACRE di Hooper è stato girato nel ’73: si combatteva ancora in Vietnam e il Watergate era dietro la porta.

Per non dire dell’ovvio NIGHT OF THE LIVING DEAD del 1968, qui evocato nella scena del cimitero, con corredo di lapidi recanti i nomi di registi autori di zombie-movies: Romero, Tourneur etc.

Lo sfuggente e scivoloso film horror, però, garantisce affermazioni evasive e utili fughe dialettiche agli attori intervistati, sempre negli extra del Dvd: chi può negare il diritto a Robert Picardo e soprattutto Thea Gill di disquisire attorno al fatto che questo sia ANCHE un film di zombies ?

HOMECOMING, con una magistrale e acida ricostruzione del tipico news- show televisivo americano, è anche un colpo letale inferto alla credibilità (?) dei media made in Usa.

Ciò che si vede anche in WHEN THE LEVEES BREAK di Spike Lee e in MAN FROM PLAINS di Jonathan Demme, cioè la battente mistificazione degli eventi, la disinformazione precosituita e la demonizzazione a priori dell’elemento “disturbante” (l’invitato in studio che sostiene tesi anti-governative), è qui sintetizzato in una magistrale parodia dei tic verbali e dei toni espositivi del conduttore, oltre che dei brutali “tagli di montaggio” in tempo reale sugli interventi della madre del soldato morto.

C’mon, it’s just words! Do you really believe in what you said?”: così Jane Cleaver, l’acida commentatrice, a David March, il politico, dopo l’evocazione di un ritorno in massa dei dead privates, auspicata da March (Tenney) durante il live-show.

La geniale intuizione di Dante e Sam Hamm (script-writer, da un racconto di Dale Bailey, “Suffrage and death”) è racchiusa in questo passaggio: il valore, il senso delle parole come veicolo di realtà e di credo interiore privato, profondo viene tradito proprio da chi lavora costantemente con testo & immagine (i media, appunto), mentre ha ancora una terribile e radicale importanza per la gente “semplice” o l’idealista vecchio stampo, il ragazzino mandato al fronte e l’hyppie datato.

 

I soldati-undead che tornano per votare, dopo aver creduto alle “balle” (“We died for a lie!”) sugli strumenti di distruzione di massa di Saddam, dopo aver creduto una prima volta al loro presidente, quando questi ripete l’auspicio di March durante una convention (“I would wish that they could come back”) letteralmente LO PRENDONO SUL SERIO DI NUOVO, perché credono al valore e al senso delle parole.

 

Di fatto, rispondono una seconda volta alla chiamata del loro Paese.

Ecco un insegnamento diretto, chiaro e micidiale all’etica di una pletora di inutili giornalisti televisivi (americani, italiani, etc) lottizzati nel fondo del proprio animo, corrotti per pura autoconservazione e sopravvivenza in un sistema che appiattisce la notizia e la rende fantasma del Reale.

Magistrale, e definitivo, il passaggio in cui –a cavallo dell’intervento televisivo dello zombie di colore che smaschera il senso di una guerra basata su non-verità, su bugie- il prete e la commentatrice passano dall’esaltazione messianica dei buoni soldati ritornati sulla Terra alla loro demonizzazione in un’ottica di apocalittica degenerazione anti-governativa.

Il gioco elettorale che segue, con i repubblicani che agitano il ricordo delle elezioni in Florida nel 2000 a mo’ di minaccia di nuovi brogli, è meravigliosamente messo in scena da Joe Dante, che dispensa ironia a piene mani, ma con un tono più acido e intransigente del solito.

 

Let’s go political”, aveva chiesto il regista allo sceneggiatore Sam Hamm, appena venuto a conoscenza della proposta di Garris, qui in veste di Roger Corman della situazione. I soldati che tornano dall’aldilà solo per votare, la loro natura benigna e dialogante (potentissimo il  citato segmento del soldato di colore davanti alle telecamere on air), la reinvenzione della categoria-horror dello zombie, rimarranno nella storia del cinema come un imprescindibile, inevitabile turning point.

 

Dante dispensa anche singole immagini di spaventosa potenza evocativa: l’inquadratura sghemba dell’hangar ripreso dall’alto, interno notte, dove sono trattenute le “oscene”, “pornografiche” bare metalliche dei soldati morti in Iraq (notoriamente censurate da tutte le cable-tv americane) è il definitivo colpo assestato sotto la cintura di un sistema (dis)informativo, connivente e di fatto “comprato” dal governo di destra (si ricordi la contiguità tra il fratello di GWBush e l’emittente Fox mostrata da Michael Moore in “F. 9/11”).

A seguire, l’altrettanto memorabile sequenza di corpi che sollevano, “fanno sventolare” la bandiera a stelle e strisce nell’unico modo possibile oggi: sopra un corpo morto, sopra il sangue di migliaia di innocenti.

In conclusione, non possiamo non auspicare una saldatura tra la generazione dei veri, grandi masters of horror, diciamo quelli nati tra il ’40 e il ’48 (Romero, Dante, Carpenter) e lo Splat Pack dei trenta-trentacinquenni (Aja, Marshall, Roth): già unisce alcuni di questi la comune collaborazione con Nicotero & Berger –anche qui perfetti negli effetti speciali- ma noi chiediamo di più, quasi un’interazione che elida le differenze nell’uso del gore, nello show-off della violenza collegata al sesso, nel risolvere differenze e distanze legate alla quantità di sangue mostrato.

 

Roth non sarà un Democrat, ma negli extra di HOSTEL 2 dice a chiare lettere quello che pensa sul conflitto iracheno (“guerra utile ad arricchire pochi petrolieri grazie al sacrificio (?) di molti giovani americani”). L’horror, come la maggior parte del cinema di genere, richiede una conoscenza approfondita della storia del cinema e delle tecniche di produzione: costringe, cioè, anche i giovani a confrontarsi con il Passato di un mezzo espressivo che rischia una prematura sepoltura.

In questo senso, vecchia guardia e nouvelle vague del genere dovrebbero unirsi, perché sono le sole, insieme agli isolatissimi Lynch, Scorsese, Demme, Coppola, Cronenberg (tutti con un passato cormaniano o di self-made “horror” movies), a garantire la continuità con il futuro di un’arte chiaramente giunta al bivio tra rifondazione e oblio.

 

 

VOTO: 30/30 e lode