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THE EDITORS
Rimini, Velvet, 03 Febbraio 2006 Il Velvet non è pieno, stasera. Peccato, perché gli EDITORS di Birmingham stanno crescendo, in silenzio, e valgono già molto più dei chart-rockers KAISER CHIEFS. La battaglia delle band inglesi impazza come dieci anni fa, con un paio di sostanziali differenze: intanto la quantità dei gruppi coinvolti (ora sono una marea) e l'omogeneità stilistica (Pulp, Blur, vecchi Stone Roses, Oasis, tardi Suede erano più differenziati) e, in secondo luogo, il fatto che a trainare il gruppo della new-wave-out-of-the-grave siano degli americani, ovviamente gli Interpol. A dir la verità questa battaglia è meno di un videogioco, perché sfido chiunque a mettersi a comprare MELODY MAKER et similia per qualche nuova chicca e perché a nessuno dei gruppi frega niente degli altri e ciascuno punta diritto all'unico, previdibilissimo scopo: lasciare la provincia, andarsene a Londra, ottenere il massimo successo nel minimo tempo possibile e poi spassarsela. THE EDITORS, già visti in giro per lo stivale quest'estate, si fanno le ossa e imparano le giuste lezioni. Intanto è importante che il cantante non abbia il regimental del neo-rock: quella maledetta divisa d'ordinanza da Kraftwerkini col biberon, se non da Crispin Glover in CHARLIE'S ANGELS... Questo qui va molto di Radiohead or Coldplay look, cioè felpa e understatement nella gestualità minimal-sofferta, ma sostanzialmente accettabile. Gli altri, purtroppo, sono inamidati nel look nazi di cui si diceva: segno di mancanza di personalità. Il look-director del gruppo non ha ancora le idee chiare, perché tra palco e cover del CD varie discrasie c'insospettiscono: non c'è quel senso di continuità e verità che c'era in Corbijn-Factory-Curtis qualche anno fa...e certi dettagli stonano. L'infilata di archi ribassati nella copertina del disco, per intenderci, è troppo studiata e cool e poco sorprendente e non rispecchia una cupezza che gli EDITORS non hanno. Tutti questi gruppi tardo esistenzialisti vivono esistenze ben diverse dalla costante paranoia kasparhauseriana dei loro progenitori, sempre in bilico tra unemployement e mano sui barbiturici. è comunque il caso di accontentarsi. I giochi di luce, con non più di 4 + 3 spottoni a illuminare il palco da sopra la testa del batterista, aiutano a creare un'atmosfera dignitosa, ravvivata da qualche accelerazione quando conta (MUNICH, CAMERA, LIGHTS, BULLETS). La band acquisisce una forma più netta man mano che il concerto procede, sia nei movimenti sul palco che nel controllo degli strumenti. Il primo terzo della serata è abbastanza paludoso, da pressione un po' bassa e Tom Smith (possibile che si chiamino tutti con 'sti nomi minimalistimpiegatizi alla Mario Rossi? opinione: sono fake, quindi nomi d'arte) tiene il cappuccio della felpa a coprirsi la testa a mo' di difesa. Accreditato anche alla chitarra, va a sedersi soprattutto alle tastiere. Aiuta comunque a farci concentrare sui suoi movimenti piuttosto che sugli inamidati colleghi di palco. Chris Urbanowicz (ecco un cognome!), il chitarrista, è però dignitoso, e pulsa sempre più, diciamo almeno dopo 3/4 d'ora di kunzert. A metà tra la ritmica sincopata dei Wire (un must) e le note singole del RSmith di THREE IMAGINARY BOYS. Possibili buoni sviluppi futuri. L'atmosfera complessiva è quella di un amalgama sonoro in fieri, un feto interpoliano che sarà diventato neonato al prossimo disco, anche se BULLETS è stupenda e originale e MUNICH comunque bella già com'è adesso. Però, azzo, CAMERA inizia in modo identico a LEIF ERIKSON dei famigerati Interpol e le tastiere sono rubate agli arrangiamenti di CLOSER!!! Armonicamelodicamente i brani ci sono (vedi DUST IN THE SUNLIGHT, l'altra nostra preferita), ma bisogna arrangiarli meglio, con l'intenzione di svincolarsi dai suddetti gruppi di riferimento. BLOOD e FINGERS IN THE FACTORIES potrebbero benissimo essere dei DEPARTURE, ad esempio, e YOU ARE FADING ha ritmica e chitarre troppo simili a certi U2 (?) epici (vi prego, eliminateli dalla faccia della terra). E Smith, che ha una sua voce riconoscibile, in ALL SPARKS copia spudoratamente Paul Banks. Ed Lay (drums) lavora sodo, così come il volonteroso Russell Leetch al basso, anche se avremmo voluto più in primo piano il suo strumento. Il pubblico gradisce tutto, perché vive gioiosamente l'illusione che il post-punk sia tornato. E non sembra giusto svegliarli dal loro sogno.
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