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LOU REED Roma, Auditorium/Sala Santa Cecilia Parco della Musica, 06 luglio 2007
In una sola notte, a distanza di un paio di chilometri tra loro, alcuni sopravvissuti del Rock affrontano l'apodittico assunto di John Lydon: “Only the fakes survive”, solo i “falsi” sopravvivono. La nostra convinzione è che i Rolling Stones, immutabili dinosauri dalla pelle incartapecorita, “ci facciano”, mentre Lou Reed “ci sia”, perché muta e cresce col tempo, invecchiando con esso, mentre gli altri sono la decalcomania secca e stinta di un qualcosa che è svanito per sempre con Brian Jones, six feet under il pelo dell'acqua di una piscina con troppi misteri. Era il 1969 e il cinema aveva appena fatto in tempo a fissare l'immagine del genio biondo, incrocio tra Lennon e Syd Barrett, mentre implode tra una chitarra unplugged e una dose appena consumata. “One Plus One”, gelido carrello godardiano che risucchiava il vuoto prodotto dagli Stones ormai senza Re e Guida, suonava campane a morto per un'Era. Jagger & Richards, di lì a poco, verranno clonati, per permettere a sponsor di ogni tipo di appiccicare il proprio logo sul cadavere circense di un carrozzone zingaresco e tecnologico perennemente in tournée. Quelli veri sono morti anche loro ai tempi di “Goat’s head soup” (il disco con “Angie”, per intenderci), materiale che è già Storia, poiché si va indietro sino al 1973 (!), ultimo sussulto da annoverare tra le cose dignitose del gruppo. Reed, unica star non transeunte nella Factory di Andy Warhol e capace di opporsi alla strega-platinata-manipolatrice, è invece un genio del trasformismo vitale, matrice di infiniti adattamenti al mondo e al corpo che cambia.
Transformer
Senza cedere a compromessi, Lou è passato dalle canzoni di tre minuti alla suite concettuale di BERLIN, da un'opera di (a)solo feedback industriale come METAL MACHINE MUSIC alle soundtrack per il teatro di Robert Wilson. Ancora adesso è la variabile impazzita del Village e dell'intera New York, che si specchiano nel caleidoscopio della coppia Lou/Laurie (Anderson) come un tempo venivano moltiplicati nel cut-up ginsberghian-ferlinghettiano.
Andy è morto, Lou vive.
BERLIN, capolavoro dell'ex-Velvet Underground, viene messo in scena come un mini-melodramma sulla disperazione urbana che decostruisce i rapporti di coppia, imponendo uno iato emotivo tra esseri umani celibi perché hanno perso la propria identità nella moltitudine baudelairian-benjaminiana della metropoli (sono due espatriati all'ombra della cortina di ferro, che si amano e si distruggono in una replica della Guerra Fredda nata lì). La figlia dei due protagonisti del libretto reediano di BERLIN, invece che riunire queste cellule divaricate, si frappone fra esse e crea distanze siderali, da cui si esce solo eliminando una delle estremità. Berlino è un'astrazione, l'assunzione di un luogo a metafora della non-comunicazione, la deriva dopo il tradimento e la violenza domestica (ovvero la Guerra). Viene, in ogni passaggio dell'opera, convocata una serie di drop-outs e marginalità (dis)umane che si raccolgono sotto il muro del silenzio, ovvero del dialogo assente. Lou assume il muro come oggetto catartico al termine della tribolazione relazionale tra amanti/genitori e genitori e figli, lama litoide che recide cordoni ombelicali, poiché trattasi di bambini strappati alla tutela materna. La madre, Caroline, si droga, è un personaggio reale preso di peso dal CHELSEA GIRLS warholiano (il film) e dal Chelsea Hotel teatro di mille altre fini. L'autore ha vissuto in prima persona la tragedia narrata, che si conclude col suicidio della ragazza (“Oh, what a feeling…”), ma il tono è quello elegiaco che mancava a Andy, secco e anaffettivo nel costruire un Circo della Morte attorno a sé. Non è Edie Sedgwick la protagonista, non è Nico (evocata invece da David Lynch nel silenzioso sottotesto finale di INLAND EMPIRE), non una 15-minutes-Star, ma una (wo)man of poor beginning, alla deriva solo dopo aver sbattuto contro la Vita Vera, non quella sovraesposta e molto glamour della Factory.
Tono elegiaco che ricorre nell’uso di un vocabolario molto distante dalle durezze velvettiane: gli spike into my vein, per quanto attualissimi anche in BERLIN, lasciano il posto a una sorta di trasfigurazione dell'universo addictionale, riempito qui di honey, nice, paradise, Candlelight and Dubonnet on ice e di atmosfere mortalmente vellutate ma oniriche, lontane dalla poetica della strada di WAITING FOR MY MAN:
"In Berlin,
by the wall
Eppure, trent’anni dopo, la Emmanuelle Seigner che percorre la via crucis della madre di BERLIN è ripresa dall'occhio pastoso e mobile di Lola, figlia di Julian Schnabel (le cui immagini fanno da contrappunto alle canzoni), pittoregista chic e à la mode, in maniera non molto differente da Warhol: sia chiaro, lì c’era distanza e qui condivisione, sym-pathein e la m.d.p. fissa di CHELSEA GIRLS trasloca dalle parti di un movimento continuo che si placa solo alla fine, in alcune immagini estaticamente mantegnesche. Quello che conta è che la protagonista, solo nel fondale del palco, torna ad essere Star, piena di glamour. Avremmo visto meglio una Chloe Sevigny sezionata dallo sguardo terminale di Harmony Korine. Ciò che è dominante, peraltro, è la musica: Reed impone una costruzione orchestrale lineare e complessa, dove la strumentazione –fedele al disco del 1973- richiede la presenza di una ensemble assai ricca, tra voci bianche (una dozzina) poste a mo' di coro su un piccolo rialzo del palco e mini-ensemble di archi e fiati.
Entriamo in medias res, rimanendo intrappolati nel flusso sonoro ininterrotto di BERLIN, che già nel ’73 stupì per la capacità del compositore americano di usare un descrittivismo non fine a se stesso, ma mimetico della temperatura emotiva del testo, che si traduceva in una ricchezza timbrica inusuale per Reed e in un'alternanza perfettamente calibrata di pianissimi (BERLIN, THE BED, SAD SONG) e fortissimi (MEN OF GOOD FORTUNE, alcune sezioni di LADY DAY). Altrove l'alternanza è contenuta entro un singolo pezzo: CAROLINE SAYS, HOW DO YOU THINK IT FEELS?. I brani citati rimangono, ancora oggi, tra i dieci capolavori del newyorchese. La suite è rispettata nella sua continuità e la concezione musicale complessiva –forte dei contributi, anch’essi originali, di Bob Ezrin e Steve Hunter (all'epoca produttore e chitarra solista)- impone totale concentrazione interpretativa e condivisione silenziosa del pubblico, portato a leggere quasi una particolarissima unità di tempo e luogo degli eventi portati in scena. Solo brevi e contenuti sono gli scarti rispetto alla partitura originale, attribuibili all'ormai strutturale nuovo stile espositivo del Lou Reed post-NEW YORK, cioè dopo il 1989, anno della Rinascita: timbro ancora più scuro della voce unica e catacombale, approccio zen alla chitarra ritmica, meno autoindulgenza nel porsi in primo piano rispetto al resto (testo, strumenti, etc). Il risultato complessivo è straordinario e ricorda da vicino (salvo i due Schnabel) l'amico Robert Wilson, che avremmo gradito nell'equipe creativa di BERLIN. Della partita, invece, anche un altro cervello di ebraica eccellenza, l'Hal Willner di warnerbrosiane frequentazioni (si veda l'immortale omaggio a Kurt Weill), che contribuisce a ricreare un'atmosfera molto Knitting Factory, da John Zorn ai recuperi non-filologici dell'ebreo Marc Bolan.
Insomma, il meglio del cortocircuito tra basso e pop e altamente chic.
Filologica, invece, la composizione della band principale, che ripesca Steve Hunter dal magico momentum di ROCK'N ROLL ANIMAL (avremmo gradito l'introduzione del bis SWEET JANE in puro stile Seventies, con il tema principale della chitarra doppiato dalle terze - invenzione di Hunter rispetto allo scarno originale dei V.U. - ma ciò avrebbe riportato in vita un che di epico ormai assente dal calvinismo del Reed recente). Peccato che buona parte del pubblico non abbia colto la natura monotematica della serata, da cui le frequenti interruzioni del continuum musical-visivo. Molto gradite, di conseguenza, le concessioni dei bis (oltre a S.J., due brani in cui si poteva sfruttare al meglio la presenza delle voci bianche: una lunghissima, ondeggiante, elegiaca SATELLITE OF LOVE e l'immarcescibile inno dei poor-beginners & trans-genders di ogni tempo, WALK ON THE WILD SIDE, con tanto di violinisti scatenati in una danza delle mani molto, molto rock).
VOTO A LOU REED: 30+
VOTO ALLA BAND: 29
VOTO A VOCI BIANCHE E ENSEMBLE: 30+
VOTO AL PUBBLICO: 27
VOTO ALL'AUDITORIUM: 30
VOTO AI CONTRIBUTI VISIVI: 26
Lou Reed - BERLIN BERLIN
In Berlin, by the wall
LADY DAY
When she walked
on down the street
Men of good
fortune, often cause empires to fall
CAROLINE SAYS I
Caroline says that I'm just a toy
HOW DO YOU THINK IT FEELS?
How do you
think it feels
OH JIM
All your two-bit friends they're shootin' you up with pills CAROLINE SAYS II
Caroline says - as she gets up off the floor
THE KIDS
They're taking her children away
THE BED SAD SONG
Staring at my picture book
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