di Diego GRASSEDONIO

BLUES FEST

Byron Bay, 05/09 Aprile 2007

L’East Coast Blues & Roots Music Festival è un pellegrinaggio che da 18 anni attira a Byron Bay appassionati di blues e dintorni provenienti da tutta l’Australia.
L’evento si tiene al Red Devil Park, luogo idilliaco circondato da foresta incantevole, montagne maestose, oceano cristallino e un’ottima acustica.
L’organizzazione è impeccabile: 4 palchi coperti da tendoni circensi su cui per cinque giorni ininterrottamente per 12 ore al giorno si sono esibiti musicisti australiani ed internazionali nonostante le insistenti piogge quotidiane, il fango onnipresente, il susseguirsi di arcobaleni e di timidi raggi di sole: la location non è però probabilmente più adeguata alle dimensioni che il Festival ha assunto visto che i biglietti sono esauriti da parecchi mesi e nonostante l’assenza di una limitrofa area campeggio attrezzata.

Sul Mojo Stage si sono avvicendati artisti prettamente blues, il Crossroad Stage ha esplorato sonorità più legate al roots, mentre il Jambala Stage e l’Apra Stage si sono concentrati rispettivamente sui musicisti australiani e sugli artisti emergenti.
Quest’edizione la line up del Festival, per tradizione rigorosamente blues, ha incluso artisti provenienti da contesti diversi come l’australiana songwriter pop Missy Higgins, il retrometal dei Wolfmother e lo ska-core dei Fishbone. Tale scelta è stata oggetto di polemiche ma personalmente ritengo che sia stata una decisione che ha portato nuove sonorità al Festival dando l’opportunità agli aficionados di ascoltare qualcosa di nuovo e di diverso.
 

Caratteristica unica del BluesFest che non ho riscontrato in nessun altro Festival in Australia è stata la presenza di un pubblico assolutamente eterogeneo. Spostandomi dal Mojo al Crossroad stage ho notato hippie quarantenni, sessantenni dai capelli grigi, rasta, teenager, famiglie con figli al seguito, roadies, donne incinta e freak trentenni, tutti uniti dalla passione comune per la musica.
 

Una sterile elencazione degli artisti che si sono esibiti sarebbe probabilmente noiosa e prolissa ma alla base di tutte le perfomance ho riscontrato un minimo comun denominatore costituito dalla ricerca di quel ronzio di corrente alternata, le cui radici affondano in Africa, che universalmente definiamo blues.
Sua maestà il blues si è infatti manifestato in tutte le sue caratteristiche: nel soul dalle venature blues di cantautori come Piers Faccini ed Amos Lee, nell’AfroCaribbean Blues dell’grandissimo guitarman Taj Mahal, nel folk soul di “Sugarman” Rodriguez from Detroit, contaminazione tra Bob Dylan e Marvin Gayle, tornato on stage dopo 25 anni, nella voce incredibile di Joss Stone, songwriter circondata da musicisti talentuosi che ha raggiunto maturità ed equilibrio, in Eric Burdon e la sua indimenticabile “House of the Raising Sun”, nel folk degli australiani The Waifs, così legato all’outback sconfinato, e nel funky blues di John Butler Trio, nella cui ottima performance ha proposto parte del suo nuovo album Grand National. Diverse forme di espressione per comunicare quel feeling che occupa un piccolo spazio in ogni battito cardiaco degli esseri umani.


Anche il concetto di roots music, legato indissolubilmente all’Africa ed alle ritmiche giamiacane in levare, ha assunto caleidoscopiche sfaccettature con le performance di musicisti leggendari: dal Kingston sound dell’eclettico Lee “Scratch” Perry che per anni collaborò al fianco di Bob Marley e Peter Tosh, a Mr. Ziggy Marley, figlio d’arte nelle cui vene scorre la storia del reggae, allo show dei Sierra Leone Refugee Allstar che hanno portato una scarica di coloratissima West African Music senza ignorare le problematiche politiche legate alla loro terra ed alla loro condizione di rifugiati. Poi l’hi-tek soul dei neozelandesi Fat Freddy’s Drop, il maori reggae dei Katchafire, l’ukulele reggae proveniente dall’isola Vanatu nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico dei The Sunshiners, l’attesa performance di Blue King Brown, il cui nome qui in Australia è attualmente sulla bocca di tutti gli appassionati di reggae, ed ancora i The Roots al loro esordio al BluesFest con il loro hip hop sound rigorosamente suonato dal vivo. Infine i Fishbone, eclettica band guidata dal sassofonista Angelo Moore, instancabile stage diver e crowd surfer che dagli anni ’80 miscela sapientemente funk, punk e ska.
Una vera e propria maratona musicale, un’abbuffata di note ed accordi assaporata con ingordigia che ha richiesto del tempo per essere assimilata. Alcune performance però hanno attirato maggiormente la mia attenzione, delicatessen per palati sopraffini.


Il Giovedì i WOLFMOTHER hanno incendiato il Mojo Stage. Sebbene non esattamente inquadrabili in un contesto rigorosamente blues Andrew Stockdale ha saputo coivolgere egregiamente il numeroso pubblico con la sua voce pungente e sonorità che definirei Deep Zeppelin (o Red Purple, se preferite!!). Mistura di hard rock e psichedelia, riff ipnotici e lunghi soli introspettivi. Il trio australiano in seguito al loro album omonimo ha vinto l’AIRA Award 2006 ed il Grammy Award come Best Rock Performance. La loro energia on stage travolge, specailmente su hit come “Woman”, “Dimension”, “White Unicorn” e “Apple Tree”. Voto: 29/30


Il giorno successivo la mia attenzione si è concentrata sull’attesissima performance di BO DIDDLEY. Torna al BluesFest dopo il suo debutto qui a Byron Bay nel 2005. Non delude le aspettative ed è senza dubbio uno dei concerti che maggiormente mi ha colpito. Strepitoso. Una vera e propria leggenda vivente del blues. Classe 1928. Il Bo Diddley beat bomp, ba-bomp-bomp, bomp-bomp introdotto nel 1955 con il suo singolo omonimo ha influenzato la storia del rock and roll. Venne ripreso prima da Elvis Presley, poi da Buddy Holly e successivamente da Rolling Stones, The Who... fino ai giorni nostri. Nonostante i suoi 78 anni sul palco Bo è incontenibile. Il suo inimitabile approccio alla chitarra, la sua estensione vocale che parte dall’Africa, tocca le piantagioni di cotone di New Orleans e si proietta in un irresistibile rap, il suo proverbiale umorismo e feeling con il pubblico. Addirittura si esibisce in un breve solo di batteria!! La folla è senza parole, dapprima in un religioso silenzio che poi però esplode in un applauso ininterrotto di svariati minuti. Memorabile in “I'm a man”, “Bo Diddley”, “Who do you love?” Voto: onestamente non ritengo di essere in grado di dare un voto ad una simile leggenda vivente della musica. Immenso


Il Sabato pomeriggio vengo folgorato da BELA FLECK & The FLECKTONES. Non conoscevo questo artista ed il fattore sorpresa mi spiazza. Bela Fleck ha rivoluzionato l’approccio ad uno strumento che per tradizione era confinato entro il folk e il Dixieland: il banjo. Ha ricevuto più nomination per il Grammy Award di ogni altro musicista…country, pop, jazz, bluegrass, classica, folk… e con il suo ultimo album "The Hidden Land" assieme ai Flecktones ha vinto il Best Contemporary Jazz Album. Tuttavia rimane difficile classificare questa band: sono una mistura di jazz, bluegrass, funk e worldmusic. Incredibilmente versatili e creativi. Bela Fleck al banjo delizia il pubblico con un fingerpicking dalla velocità e ferocia spaventosa, poi con sonorità quasi da chitarrista classico e approda ad un jazz rock di hendrixiana complessità ed intensità. Futureman suona un synthaxe drumitar ovvero una specie di batteria synth con tanto di manico da chitarra, mentre Jeff Coffin al sax tenore e soprano apporta un valore aggiunto alla band. Indimenticabile il solo di basso di Victor Wooten, indubbiamente il bassista con più groove e tecnica che abbia mai sentito dal vivo su questo pianeta… Voto:30+/30


Qualche ora più tardi sul Mojo stage si esibiscono gli OZOMATLI. Collettivo di nove musicisti californiani di etnia latina che mescolano sapientemente hip hop, salsa, cumbia, dub, funk e soul. Molto presenti le percussioni e l’impeccabile sezione fiati. Reduci dalla loro ultima fatica in studio "Don’t mess with the dragon on stage" si scatenano ed esprimono devozione per le poliglotte sonorità urbane che li contraddistinguono, senza però dimenticare il loro impegno politico contro le “guerre preventive” ed a supporto dei diritti umani. Improvvisamente appaiono al fianco degli Ozo ballerine su altissimi trampoli e con costumi da struzzo che scendono dal palco per mischiarsi in mezzo alla folla e dar vita ad un party coinvolgente con una jam session scatenata. Immancabile “City of Angel”, brano dedicato a Los Angeles, città da cui i chicos provengono. Voto: 28/30

 
Domenica il musicista che maggiormente mi ha colpito è stato XAVIER RUDD. Ex surfer professionista e talentuoso musicista australiano. One man band incredibile: da solo sul palco crea universi sonori coordinando percussioni incalzanti, chitarra marcatamente blues, voce dalla timbrica vellutata e riff di didjeridoo mozzafiato. Il suo album "Food in the Belly" è un capolavoro acustico che racchiude il suo impegno ecologico in brani come “Energy” e “Mother Earth” e l’attivismo politico al fianco della popolazione aborigena testimoniato da brani come “Food in the Belly”. Notevole anche alla Weissenburn guitar. Voto: 29/30


A conclusione del Blues Fest il lunedi ha suonato sul Mojo Stage BEN HARPER and The Innocent Criminals. Dopo la sua prima esibizione qui a Byron Bay nel 1997 Ben Harper è sempre tornato in tutte le successive edizioni del BluesFest, tant’è che il pubblico lo considera il “padrino” del Festival. I suoi testi politicamente impegnati ed il suo mix di rock, blues, soul , folk e reggae rappresentano la perfetta sintesi del’ East Coast Blues and Roots Music Festival.
Da subito appare in grandissima forma e suona un blues tradizionale con la sua Weissenborn guitar al fianco dell’ospite Bonnie Ratt. Il Mojo stage esulta…
Poi la hit “With my own two hands” con la quale Ben Harper si cimenta in un tributo a Bob Marley con un medley tutto in levare su “Get up, stand up”, “Exodus” e “ War”. Il Mojo stage salta…
Improvvisamente on stage compare anche John Butler al fianco del Sig. Harper ed insieme si addentrano nei sentieri blues folk che li accomunano… il Mojo stage si scalda.
Poi intona “Burn one down”, inno antiproibzionista, ed il Mojo Stage torna ad essere rivestito dai colori e dagli odori della Giamaica…
L’intensità e la dedizione con cui si approccia alla musica Ben Harper traspare chiaramente quando intraprende, da solo sul palco e senza alcun microfono, un gospel a cappella dapprima sussurrato che cresce per poi esplodere in un urlo liberatorio… Si percepisce l’influenza dell’esperienza al fianco dei Blind Boys From Alabama…mentre il Mojo stage viene scosso da un brivido lungo la schiena… A questo punto, quando tutte le sorprese sembrano esaurite, Ben Harper invita altri artisti d’eccezione a condividere con lui il palco: Piers Faccini e Jack Johnson. La presenza di quest’ultimo non era prevista al BluesFest e già il sabato aveva inaspettatamente suonato per un’ora. Insieme suonano un altro blues tradizionale, un’altra delle perle indimenticabili di questo Festival, mentre il Mojo stage è ormai in avanzato stadio di delirio.
Lo show assume le sfumature del soul quando Ben Harper canta “Sexual Healing” in tributo a Marvin Gayle. E poi ancora hit come “Excuse me Mr.”, “Oppression” e “Better Way”.
Semplicemente il concerto degno di concludere il BluesFest. Voto:30+/30
L’East Coast Blues & Roots Music Festival è stato indubbiamente uno dei migliori Festival a cui ho finora assistito qui in Australia… 5 giorni a naufragare in un oceano di musica…
 

I am blessed to be witness
 

voto complessivo al festival: 30/30

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