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Dal 28 marzo al 6 aprile si è tenuta la settima edizione del festival del mélo Schermi d’amore. Dodici film in concorso. Omaggi a Bertolucci, Leconte, e all’“eco-regista” di cartoon Frédéric Back. Oltre quattromila i bambini delle materne ed elementari già iscritti alle matinée, a ingresso libero, riservate a loro. Di seguito, la recensione ad alcuni dei film presentati quest'anno.
Me and Morrison (Minä ja Morrison, Finlandia 2001, 90’) di Lenka Hellstedt con Irina Björklund, Samuli Edelmann, Roope Karisto, Eva Röse. Milla è carina, giovane e socialmente disadattata. Non ha passioni né inclinazioni, salvo fumare in modo ossessivo e scolarsi la riserva vinicola dell’amica inglese che la ospita, mentre la pazienza di quest’ultima va anch’essa inesorabilmente esaurendosi.Una sera, in un bar, Milla conosce Aki e, senza molti preliminari, tra i due scoppia un’autentica passione. Aki è molto dolce, protettivo, ed ha un figlio di otto anni che vive con lui, Jonaas, silenzioso come un cespuglio. Come Milla sogna, Aki progetta di andarsene per sempre, e le promette di portarla con sé in Belize, appena sistemati alcuni misteriosi affari.Milla si trasferisce presto nella villetta un po’ bohemienne di Aki, e qui inizia una convivenza molto freak a base di canne e sbronze, durante la quale ben poco si scopre della vita di Aki, mentre Milla, attaccata morbosamente a lui, si pone ben poche domande.Il passato, però, come spesso accade, non tarda a riemergere. Aki ha molti conti in sospeso e, nel tentativo di sistemarli, combina una serie di autentici disastri, nei quali coinvolge, per forza di cose, anche Milla e Jonaas, la prima perennemente ottenebrata dall’alcool e dal fumo, il secondo costretto a subire la vicinanza di due adulti borderline, a cui ben poco interessa la sua precoce passione per l’architettura. Nel giro di qualche settimana, Aki, come ogni buon ex-tossico che si rispetti e che abbia come feticcio una bandiera di Jim Morrison appesa sopra il letto, distrugge, oltre al rapporto con Milla, il poco di vita che era riuscito a costruirsi, ma al quale la sua fragilità non era riuscita a dare un valido sostegno. Ricade così in un pericoloso traffico di eroina, nel quale rimane intrappolato senza, ovviamente, ricavarne un centesimo. Anche la complicità con Milla finisce per affondare in una palude di bugie inutili e maldestre, portandola a rinunciare infine a lottare per un amore chiaramente in fase terminale.Il film finisce con un funerale, si può ben immaginare di chi, ma infine anche con un sorriso, quello di Milla. Un sorriso di comprensione, nostalgia, forse sollievo. Come dire, ogni brava ragazza incontra prima o poi l’amore tossico… anche se non si capisce in fondo cosa ci sia poi di tanto divertente, ma si sa, è spirito nordico.Lo sfondo dolceamaro della relazione impossibile è tessuto efficacemente, in Me and Morrison, grazie anche ed un ritmo senza cadute e ad una sceneggiatura ben ordita, oltre che ad un cast di attori ben indovinato.
Rencor (id., Spagna 2002, 108’) di Luis Miguel Albaladejo con Lolita Flores, Jorge Perugorrìa, Elena Anaya, Mar Regueras, Geli Albaladejo. Nell’ottica di un possibile ritorno delle streghe, Rencor narra di una vendetta eseguita nel rispetto delle migliori tradizioni latine. Nessuna vendetta nasce peraltro bene come dal caso, ed è effettivamente un caso fortuito l’incontro di Chelo Zamora, una cantante da balera dal profilo uncinato e dallo sguardo inceneritore, con l’apparentemente pacifico ex-bel ragazzo Toni, noleggiatore di pedalò su una spiaggia cementizia della Costa del Sol, fra panzoni e carni flaccide, palette e ombrelloni.I due sono vecchie conoscenze e, per qualche motivo, Chelo ha le sue ragioni per rovinargli l’esistenza, e lui per evitarla come la peste. Ma ogni resistenza risulterà vana: Chelo ripesca il passato di Toni (da cui salta fuori anche il vero nome di questo, Dani) nella persona di Natalia, la ragazza che dieci anni prima, al colmo di un’avventurosa e delinquente esistenza, Toni aveva sedotto e abbandonato, senza aver mai saputo che costei aspettava un figlio. La vicenda, venuta alla luce, distrugge l’esistenza di Toni, la cui attuale fidanzata, incinta anche lei, lo pianterà in asso, sobillata dal fratello poliziotto che, nel frattempo, ha stretto relazioni più o meno carnali con la strega-Chelo per carpirle segreti scottanti sull’imbarazzante cognato.Un finale concitato porterà Toni alla giusta punizione nelle patrie galere, la sua ragazza ad un prevedibile aborto, Natalia alla sua vita di sempre, mentre Chelo rimane sola con l’amaro piatto della vendetta.Certo un lavoro di puro intrattenimento, Rencor, la cui struttura ad alta concentrazione di telenovela mantiene il ritmo sempre alto, con l’aiuto di un buon cast attoriale (godibili le esibizioni canore di Chelo) e di un’ambientazione ai confini della realtà vacanziera, proprio perché autenticissima. Il regista Luis Miguel Albaladejo è stato il vincitore dell’edizione 2002 di Schermi d’Amore, con il suo primo lungometraggio Ten Days Without Love (El Cielo Abierto), premio per il miglior film.
Bollywood Hollywood (id., Canada 2002, 110’) di Deepa Mehta con Rahul Khanna, Lisa Ray, Moushumi Chaterjee, Dina Pathak, Kulbushan Kharbanda. Nella sezione Panorama è apparso questo godibilissimo innesto di glamour hollywoodiano su radici indù, ben orchestrato dalla regista e produttrice indo-canadese Deepa Metha, già pluripremiata in svariati festival internazionali (fra cui Cannes, Caméra D’Or nel ’91 per Me and Sam) e attenta osservatrice delle mutazioni genetiche della donna indiana nel mondo moderno.Nella vicenda narrata Rahul, erede di agiatissima famiglia indiana trapiantata a Toronto, ma rimasta totalmente legata alle tradizioni del paese natale, è costretto dalla madre vedova e da una nonna integralista a cercarsi al più presto una fidanzata indiana, dopo che la precedente, bianca e per nulla bene accetta ai familiari, è perita in un incidente aereo. Preso dalla disperazione, allo scadere dell’ultimatum, Rahul trova quasi per caso una fanciulla disposta a prestarsi ad un occasionale inganno e la fa passare per la nuova fidanzata, anche se la crede spagnola. Da qui, la commedia degli equivoci si scatena, come si scatenano danze e canti in perfetto stile bollywoodiano, e il lieto fine è assicurato.Il divertimento è di un gusto non convenzionale, in questo film che, pur basato su un plot stravisto, riesce ad inventare un contorno di trovate esilaranti, senza bisogno di scadere nella sdolcinatezza.
Coastlines (id., Usa 2002, 111’) di Victor Nunez con Timothy Olyphant, Josh Brolin, Sarah Wynter, William Forsythe, Josh Lucas. Nel profondo sud degli USA, in Florida, Sonny torna a casa dal padre vedovo dopo tre anni di prigione. I responsabili della sua vacanza obbligata, i Vance, una famiglia di spietati trafficoni nautici apparentemente intoccabili per lo sceriffo locale, Dave, che è il miglior amico di Sonny, non hanno nessuna intenzione di saldare con lui un vecchio debito di ben 200.000 dollari. Considerandolo oltremodo pericoloso, poi, decidono di dargli una lezione, ma a farne le spese sarà il padre di Sonny. L’unico scopo nella vita di Sonny, a questo punto, diventa naturalmente l’eliminazione fisica della famiglia Vance dalla faccia della terra. A far da contrappunto alla vicenda, nasce una proibitissima storia d’amore fra Sonny e Ann, vecchia fiamma, ma purtroppo sposata con Dave (lo sceriffo) e madre di due bambine. Mentre Sonny prepara la sua trappola per i Vance, i due consumano una passione rovente su pavimenti di cucina e di retrobottega d’officina.Il finale, curiosamente (ma non per una morale “americana” nell’intimo), vede le cose riaggiustarsi miracolosamente: Sonny stermina i Vance facendoli saltare per aria nel loro yacht, e Ann, dopo una confessione al limite del ridicolo (“…tua moglie è andata a letto col tuo migliore amico…e le è piaciuto!”), vede Dave sparire per una settimana e rientrare dopo aver consumato una triste vendetta da motel con una sconosciuta, per riprendere la vita di sempre, mentre la Giustizia Faidate ha la meglio e sullo sterminio dei pur odiosi Vance nessuno si sogna di aprire neanche lo straccio di un’inchiesta… Victor Nunez conclude con questa pellicola la trilogia di “Ruby in Paradiso” e “L’oro di Ulisse”, il secondo vincitore di un Golden Globe per il protagonista Peter Fonda, poi candidato anche all’Oscar come miglior attore. Vedendo Coastlines non risulta chiara la ragione di tanto successo, se non ascrivendola interamente al solo Peter Fonda. La vicenda narrata è degna di una discreta serie poliziesca televisiva alla Miami Vice, ma se si aggiunge un cast di attori particolarmente inespressivi ed una sceneggiatura ordinaria, rimane ben poco.
Nitschewo (id., Germania, 2002, 86’’) di Stefan Sarazin con Daniel Olbrychski, Ken Duken, Marie Zielcke, Axel Neumann. In una campagna abbandonata della Germania Est, i giovani Jim e Elise si amano di un amore affamato di sé, e mai sazio, come due novelli Adamo ed Eva confinati dal mondo. Jim, in particolare, è così bramoso di consumare l’amore da volerlo vivere fino all’estremo, fino a farlo sconfinare nella morte. E della morte ha fatto un feticcio, raccogliendo in un macabro album le polaroid scattate ai morti sulle strade dalla polizia stradale. D’altra parte, come lui stesso dice (ripetendo il testo di una canzone del suo gruppo preferito, i Nitschewo), solo la morte è il giusto coronamento dell’amore, il cui perfetto atto finale dovrebbe essere uno scontro automobilistico frontale.Ma chi ha un vero fiuto per la morte, nel minuscolo villaggio fatiscente, è Lele, lo scemo del villaggio, il cui gioco preferito è trovare, fiutandone un’imperscrutable traccia, ogni sorta di creatura morta, uomo o animale che sia. Lele trotterella per le strade, alla ricerca dei suoi oggetti da collezione, mentre Jim, nella sua capanna nel bosco, sceglie un incontro con la morte più ravvicinato e tenta il suicidio soffocandosi con un sacchetto di plastica. Elise, fortunatamente, lo salva. I due si lanciano in corse spericolate per i campi con una vecchia auto scassata, in un delirio di vitalità sfrenata. Nel frattempo, uno straniero sui cinquant’anni, Frank, sedicente sceneggiatore, è costretto a fermarsi nel minuscolo villaggio per un guasto alla sua jeep. Deciderà però quasi subito di stazionare per un po’ nel paesino, affittando un appartamento.La vicenda subisce una drammatica svolta con l’incidente in cui Jim, che percorre come al solito a tutta velocità la campagna, si trova improvvisamente davanti Lele il matto, che, forse stanco di raccogliere creature spiaccicate sulla strada, o di aiutarne altre a non fare la stessa fine, ha deciso di provare lui stesso quest’esperienza. Lele non esce naturalmente vivo dallo scontro frontale con il suo unico amico, mentre Jim ne rimane così traumatizzato che accetta l’ospitalità e l’amicizia che Frank gli offre, dopo che, in un ultimo gesto di distruzione del proprio passato, ha dato fuoco alla capanna nel bosco.L’amicizia che nasce fra Jim e Frank è mal vista da Elise, gelosa del nascente e misterioso rapporto fra i due. Per sanare le incomprensioni, i tre partono insieme per la costa del mar Baltico. Il nebuloso triangolo che si crea in questa occasione ha un effetto esplosivo su Jim, che ne rimane vittima, senza scoprire che il misterioso straniero è in realtà il suo stesso padre. Delirio edipico, tragedia circolare, Nitschewo, meritatamente vincitore della rassegna, è un film di tessitura spessa, denso di assonanze non rivendicate e di evocazioni sfuggenti. Molti temi si sovrappongono su piani sfalsati, concatenandosi quasi casualmente e creando una rosa di possibilità che oltrepassano la semplice narrazione: Lele lo scemo, ad esempio, con la sua volontà di vita, contrapposta all’apparente nichilismo di Jim, ne costituisce un ideale alter-ego, che sembra immolarsi al suo posto, ma anche indicargli una via. Jim, d’altra parte, ha l’autodistruzione nel sangue, proprio grazie al suo nome, quello del cantante preferito dal padre scomparso [seconda comparsata di mr. Jim Morrison in un solo festival…]. Nietzsche fa capolino un po’ in disparte, come santo protettore di coloro che non riescono a reggere il timone della propria vita, eppure vorrebbero sradicare il bene e il male dal mondo, ma soprattutto da sé stessi.
Cherish (id., USA, 2002, 99’’) di Finn Taylor con Robin Tunney, Brad Hunt, Liz Phair Zoe è una ragazza pasticciona: al primo appuntamento con un tipino carino, si fa rapire da un maniaco che la costringe letteralmente a investire un poliziotto, uccidendolo, per poi darsi alla fuga lasciandola nei guai fino al collo. In attesa del processo, Zoe, inadatta alla dura vita di galera, viene fortunatamente messa agli arresti domiciliari, ma con il famoso “braccialetto” alla caviglia, un aggeggio radiocontrollato che non le permette di allontanarsi da casa. La poveretta, privata dei suoi soldi e del bell’appartamentino alla moda per pagare degli avvocati che la credono colpevole, finisce così in uno squallido (ma enorme) monolocale in un quartiere malfamato, nel quale la sua unica occupazione è far passare un anno intero aspettando il giorno del processo. Tuttavia, le tracce del maniaco colpevole sono ancora fresche, ma dimostrare la propria innocenza è impossibile se si è rinchiusi fra quattro mura. Verrà in aiuto di Zoe, dopo innumerevoli tentativi di fuga mal riusciti, l’addetto al controllo del “braccialetto”, che le permetterà infine di uscire per una giornata ed incastrare il maniaco. Fresco e davvero molto divertente, Cherish ha una buona dose di originalità tipica di alcuni prodotti indipendenti statunitensi, nonostante l’inizio un po’ confuso, tra il pubblicitario e il pretenzioso, che confonde parecchio le idee e invoglierebbe anche lo spettatore alla fuga.
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Piccarda DI MONTEREALE |
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