::: KINEMATRIX ::: SPECIALE SALVATORES ::: LE RECENSIONI :::

DENTI
di Gabriele Salvatores
con Sergio Rubini, Anita Caprioli, Paolo Villaggio e Fabrizio Bentivoglio

 

Il primo numero è il 3. Il film di Gabriele Salvatores parla innanzitutto di questo, partendo dall'India…
La medicina ayurvedica (da un antico trattato indiano), ci aiuta a riequilibrare quelli che sono considerati i tre elementi fondamentali della prakriti, la materia primordiale: tamas, il pesante e oscuro; rajas, l'attivo, passionale; sattva, la componente luminosa e gioiosa. Solo quando c'è accordo tra gli aspetti del vivere legati a ciascuno di questi "elementi" (guna), possiamo considerarci al sicuro, ignorati dalla malattia psichica e lontani da sofferenze inerenti alla fisicità corporea. La direzione segnata dalle pratiche necessarie a raggiungere tale sintesi, non è in alcun modo assimilabile ad una linea retta e ad un percorso predefinito. Ayu e veda (scienza, conoscenza della vita), sono termini che costituiscono le basi di una dottrina olistica orientata alla definizione di un approccio complessivo alla vita, ove mente, anima e corpo "danzano" insieme e collaborano al tutto armonico, che deve (dovrebbe) traghettarci da una Vita all'altra. Noi, però, vediamo le vite quotidiane nostre e degli altri - come il protagonista di DENTI - raccolte in un quadro, che è sempre più spesso quello della deriva psico-fisica e ci affanniamo disordinatamente a ricomporne la cornice ricorrendo al "restauro", che i guru del risveglio e della luce ci promettono, nella speranza che la cura "paghi" e, soprattutto, sia veloce.
Dobbiamo, invece, vedere il buio. Calcolare i punti di non-appoggio della nostra anima, come un tavolino a 3 gambe che ne perde una e poi un'altra. Entrare nei vicoli o nei cul-de-sac della memoria e riprendere fiato per iniziare a rivedere le stelle. Occorre, quindi, viaggiare attraverso i gironi del passato e cercare di capire quali comportamenti o quali eventi abbiano portato ad una disarmonica convivenza di sattva, rajas e tamas.
In DENTI, il film che Gabriele Salvatores ha realizzato e difeso con la tenacia controllata di un monaco zen, superando ostacoli di varia natura (quali, ad esempio, i rifiuti iniziali di una delle parti coinvolte nella produzione ad usare lo stesso titolo del libro di Domenico Starnone, da cui è tratta la pellicola), il numero 3 è legato alle presenze femminili della storia, ciascuna riconducibile ad un elemento della triade ayurvedica: la madre, solare e gioiosa; la moglie, legata alla "terra" e attenta solo alla sopravvivenza quotidiana, ai suoi aspetti pratici; il nuovo amore, Mara, immersa nel lavoro e nella passione (forse anche per un dentista, Micco, tanto realizzato, quanto Antonio - Rubini - è "scollegato" dal mondo). La somiglianza tra le attrici scelte per i tre ruoli non è casuale: più della semplice reiterazione del viso della madre, rappresenta l' uguale importanza delle componenti che definiscono l'insieme. Antonio, all'inizio del film, è un uomo in piena crisi dei sentimenti e poco coinvolto nel proprio lavoro di precario universitario, incapace di darsi ad una donna della quale paventa l'infedeltà e nella cui casa ha fatto il suo triste nido. E' un uomo che non conosce l'armonia, perché le sue precedenti donne - madre/sattva e moglie/tamas - sono morte, come la prima, o sono state abbandonate, lasciandolo in compagnia di Mara/rajas, e, quindi, in uno stato di dipendenza dalla sola componente legata all'attrazione, al sesso e alle loro inevitabili conseguenze, come la gelosia. Ingigantita dal fatto di sentirsi inadeguato a lei, per colpa di due enormi incisivi…
Il film parte dal punto più basso del rapporto con la giovane e bellissima nuova fidanzata (Anita Caprioli), determinato dall'entrata in scena dell'inquietante dentista amico di lei: durante un litigio in cui Mara spacca un incisivo ad Antonio (più avanti ci soffermiamo sul tema dei denti), si decide di ricorrere alle cure dello specialista. Da qui in poi comincia a svilupparsi un viaggio a ritroso nel tempo, che porterà a reincontrare le figure della madre e della moglie e a capire l'origine della crisi. Antonio passerà da Micco ad altri dentisti e ognuno di questi lo condurrà, in modi diversi, a riascoltare le voci di quelle donne, come quando il dottor Lotto gli ricorda i suoi doveri di padre, mostrandogli la forma deforme della bocca di Michela, la figlia, e raccomandandogli di prendersene cura. Ogni momento della narrazione, che pochi hanno saputo leggere in un'ottica, per così dire, olistica (l'accusa principale è, paradossalmente, quella di una discontinuità complessiva, con troppi salti temporali e visioni oniriche), vede la regia seguire coerentemente le premesse. L'incontro con Fiorenza e Michela, che rappresentano la realtà pesante e dura da affrontare - tamas - sembra girato camera a mano; le molteplici apparizioni della madre morta, invece, sono flash luminosi o allucinazioni realizzate con l'uso moderato di effetti speciali, come nella sala d'aspetto di Cagnano, l'ultimo medico della lista.
La madre-sattva, come si può intuire, torna nella mente e nei ricordi attivi di Antonio, per riportare gioia e leggerezza, sempre pronta a vedere l'aspetto buono delle cose o a consigliargli un approccio più rilassato alla vita. Se l'odissea tra gli studi dentistici appare come una discesa agli inferi, il protagonista sta invece recuperando gli aspetti dimenticati dell'esistenza: doveri e allegria, concretezza e ironia. I medici rappresentano qui "gli altri", amici e non, nei momenti di crisi: entrano nel tuo mondo come quelli fanno entrando nella tua bocca e lasciano sempre qualcosa. Soprattutto: toccano i nervi scoperti della tua anima.
Il 3 va ricomponendosi, l'equilibrio ricostituendosi. L'ultimo passo è quello dell'affrancamento e della rinascita: madre e moglie, recuperate come elementi della triade, scompaiono per sempre. Così accadrà anche a Mara, in un finale ricco di colpi di scena.
Il secondo numero è il 2.
Sempre nella medicina ayurvedica, gli incisivi rappresentano la coppia. Il protagonista da adolescente, rifiutato dalle ragazzine, decide di punire la sua dentatura sbattendo il viso contro la pietra dei resti pompeiani, durante un viaggio di famiglia. Sulle note di CHILD IN TIME dei DEEP PURPLE (uno dei crescendo più emozionanti del rock), l'incisivo è rotto e, poco dopo, l'asse d'intesa madre-figlio - la coppia - si dissolve, perché lei muore. Anche la rottura del secondo dente da coniglio, durante la lite all'inizio del film, prelude ad una crisi tra Mara e Antonio.
Ma il 2 torna anche a indicare una 2° realtà: quella psichica, onirica, allucinata nella quale avvengono gli incontri con il fantasma benigno della madre. E gli alveoli rimasti scoperti dopo Pompei, sono come la porta parallela che consente il collegamento con questi mondi virtuali: Antonio ha i suoi primi flash quando appoggia la lingua su di essi e si connette. Non siamo molto distanti da NIRVANA... (Il mondo parallelo da esplorare è sempre presente nel cinema di Salvatores, come luogo fisico, paesaggio geografico utile a individuare un altrove dell'anima - Mediterraneo, Puerto Escondido - o come navigazione nella rete). E, forse, non siamo molto lontani neanche dalle porte cronenberghiane e dalla tecnologia dei corpi di EXISTENZ, CRASH, THE NAKED LUNCH, VIDEODROME, DEAD RINGERS. O dalla fantascienza angloamericana di pubblicazioni come SHAKER UNDERGROUND, tanto care al regista.
3 e 2, nel finale, vengono entrambi a rappresentare equilibrio ritrovato. Oltre ai tre guna, anche i due incisivi improvvisamente spuntati al protagonista simboleggiano la vita nuova, che segue al trauma (quasi una "morte" dello spirito) della crisi e dell'attraversamento della memoria stomatologica, come la chiama Antonio.
Controllare una materia narrativa così ricca, era operazione piena di rischi. Salvatores, convinto che il senso del cinema stia nell'emozione della singola immagine e nella capacità di dar concreta forma al sogno, lascia che il viaggio a rebours e nei meandri della psiche, sia portato avanti solo a livello visivo. Sbaglia chi ha parlato in termini di "eccessiva ricchezza" e di "troppi effetti" nelle scene delle allucinazioni. Il film parla, in fondo, di un'iniziazione ad un nuovo credo psichico e il procedere per "illuminazioni" successive dell'anima, non poteva che essere realizzato attraverso un'esplosione/implosione dell'immagine stessa. Abbiamo, anzi, la sensazione di procedere costantemente entro un tunnel o un budello (gola? esofago? stomaco? o corridoio buio, bosco, bicchiere di champagne?), che ci risucchia e poi ci sputa nuovamente nel reale, sempre un po' più liberati: un'esperienza, qui sì, stomatologica, impossibile da condurre senza dare una fisicità quasi in 3-D al trip, al viaggio.
 


Voto: 28/30 Gabriele FRANCIONI (17 - 08 - 2001)

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AMNESIA
di Gabriele Salvatores
con Diego Abatantuono, Sergio Rubini, Alessandra Martines e Martina Stella

 

Non un film sulla nostalgia, non l'ennesima apologia della fuga, non una celebrazione degli eroi di MEDITERRANEO ma una storia di raggiri e guai, una sorridente black comedy generazionale, un incrocio di destini in cui si ritrovano i ragazzi di Marrakesh Express diventati, ormai, adulti con figli, coscienza e qualche cicatrice in più. Non nostalgia, dunque, ma un po' di amarezza sì, di rimpianto per il tempo perduto che si stempera nella felice capacità di tornare a sorridere dopo i momenti difficili. Il messaggio è paradossalmente ottimista e, nonostante la nuova generazione dipinta sia ribelle, rancorosa e trasgressiva, quando non addirittura drogata e corrotta, alla fine le famiglie storte, ritorte e ferite riescono davvero, con un colpo di coda, a rimettersi insieme. Tutti i personaggi dell'ultima pellicola di Salvatores non sono esattamente ciò che appaiono: ognuno ha un segreto da custodire o da rinnegare, ognuno un percorso di infelicità da affrancare, ognuno una deviazione da scegliere o abbandonare. Quello in cui il regista crede è che si può diventare adulti senza tradire gli ideali della gioventù: ricordarli e rispettarli oltre il velo del tempo che tutto offusca e nasconde è la strada per sfuggire all'amnesia che sembra aver colpito un'intera generazione. Amnesìa, dunque, come vuoto in un percorso di crescita umana, come gap tra lo spazio del sogno e quello piatto del reale, come perdita di un bagaglio culturale ed emozionale infranto contro la barriera del compromesso. Ma anche Amnèsia come luogo reale cui ancorare la pesante solidità dei fatti, come una delle più grandi discoteche di Ibiza, scelta per la sua realtà felice e complessa di razze, costume, divertimento e paure, un supermercato di varia umanità, sogni e sudore, un laboratorio musicale e sociologico, il motore dell'azione di tutti i protagonisti che si muovono ai margini di coscienza e legalità. Un'originalissima struttura a mosaico narra il momento in cui tre storie diverse, eppur incredibilmente convergenti, si incontrano. Quella di Sandro (Diego Abatantuono), regista pornografico alle prese con l'arrivo improvviso di una figlia diciassettenne quasi sconosciuta (Martina Stella) che ignora tutto di lui se non il suo abbandono, quella di Xavier (Juango Puigcorbè), capo della polizia integro ma molto umano, padre di Jorge (Ruben Ochandiano), un teppista senza legge che è il suo cruccio ed il suo contrappasso, quella di Angelino (Sergio Rubini), proprietario di un chiringuito, un bar sulla spiaggia, e piccolissimo spacciatore di Marijuana, che, sognando una casa che non sia la baracca sulla pista di atterraggio dell'aeroporto ed un futuro fatto di figli e serenità per sé e la moglie Alicia (Maria Jurado), si lascia tentare da speranze effimere di ricchezza facile, decidendo di vendere i quattro chili di cocaina contenuti in una valigetta nella quale casualmente si imbatte. Le storie, sebbene intrecciate, sono narrate in tempi cinematografici diversi, rinunciando al montaggio alternato per dare corpo ad una tecnica audace e di grande presa emotiva che prevede lo svolgimento completo del primo plot nell'arco dei tre giorni nei quali è ambientata la vicenda, una sorta di rewind accelerato che riporta il tutto all'episodio iniziale e comune da cui si dipartono come fili di una matassa i cento casi del destino, il racconto di una seconda storia e così via. L'esperimento riesce ed è, forse, proprio quest'originalità narrativa la vera spina dorsale di un progetto altrimenti poco sentito. Così, dal funerale dell'Hippy maturo, morto felice a cavallo della sua Norton Commando, la stessa moto di Che Guevara, momento in cui sono presenti tutti i personaggi che ignoriamo essere i protagonisti di inattesi sviluppi, e per tutta l'ora successiva, sembra di essere dinanzi ad una rivisitazione senza anima né emozione del miglior repertorio di Salvatores fatto di paesaggi deserti e riarsi, di personaggi piccoli ed auto ironici che vivono di espedienti in un luogo che è "altrove" rispetto alle loro origini, di purezza e bontà al di là delle apparenze di compromesso e dissipazione. La vera svolta del film si ha quando, fuori da ogni previsione, si torna improvvisamente indietro nella narrazione per rivedere nuovamente la storia da un'angolazione che spiega, integra e ricompone i frammenti perduti nella precedente rappresentazione dei fatti o, comunque, sfuggiti all'attenzione dello spettatore. Accanto ai giovani protagonisti della notte che all'alba si sdraiano sulla spiaggia fissando, dagli occhiali scuri, un punto perso nell'orizzonte, compaiono, in un'insalata esotica per colori e sapori, hippy irriducibili, esuli politici, contadini a caccia con i loro "podenchi" (cani che cacciano in branco lepri e cinghiali), viaggiatori solitari e qualche poeta. Assecondando questa chiave di lettura che celebra la realtà multi etnica della società moderna che centrifuga le diversità per farne amalgama inseparabile, altro carattere affascinante e peculiare del film è la scelta di una lingua che associ al colore dello spagnolo tutte le contaminazioni che, interagendo l'un l'altra, danno vita ad un vero nuovo dialetto dell'integrazione. Anche il cast, naturalmente, rispecchia questa visione del regista per il quale appare evidente che "il mondo è diventato piccolissimo e, forse, non è più così sensato parlare di cinema spagnolo, francese o italiano". Capita, allora che, provando "a raccontare le nostre storie con il nostro cuore e le nostre lingue confrontandoci, però, con quelle degli altri", agli attori feticcio del cinema di Salvatores, i sempre perfetti e calibrati per passione ed intensità Abatantuono, Rubini, Conti, si affianchino in un crogiuolo multi culturale affiatatissimo consumati attori di teatro, star iberiche (Antonia San Juan, la Agrado di Pedro Almodovar), ex ballerine e grandi della recitazione inglese (Ian McNeice) che accettano di mettersi in discussione per recitare in ruoli secondari e talvolta caricaturali. Non sempre, però, pur nella ricchezza degli spunti e della lettura, talvolta addirittura sorprendente, delle due anime del film disvelate e stravolte a seconda del punto di vista privilegiato di momento in momento dalla macchina da presa, il film appare compiuto e davvero corrispondente all'ottimismo della volontà di Salvatores. Gli interpreti eccellenti, puntuali ed accattivanti, diverse scelte artistiche e di confezione davvero meritevoli ed una colonna sonora coinvolgente, rendono la pellicola godibilissima e, pur nella dimensione grottescamente pulp fortemente cercata, in qualche modo positiva e leggera rispetto a film più cupi ed introflessi quali NIRVANA e DENTI ma ciò che, forse, rende più difficile la digestione ed impedisce al progetto di decollare è, oltre a qualche indecisione di troppo sullo stile da seguire e qualche cambiamento di rotta esageratamente brusco sui caratteri messi in scena, il sapore costruito ed artefatto di un messaggio che, in un carosello di disgregazione ed incompatibilità, pretende di giustificare un happy end brutale e non necessario per riconciliarci forzatamente con un'aspettativa del futuro che non può non essere di speranza.

 

Voto: 25/30 Elisa SCHIANCHI (03 - 03 - 2002)

 

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IO NON HO PAURA
di Gabriele Salvatores
con Giuseppe Cristiano, Mattia Di Pierro

 

In un posto del sud, d’estate. Michele, dieci anni, passa la vita tra la monotonia del piccolissimo paese d'origine e le eccitanti fughe tra i campi di grano insieme ai pochi coetanei. Durante una di queste scopre per caso un buco nel terreno coperto da una lastra di lamiera. Un incredibile segreto cambierà per sempre la sua vita, segnando la fine dell’infanzia e la conquista di un nuovo coraggio.Che Salvatores riesca a mettersi comunque in gioco non è più una novità. Attraverso Denti (tra le più recenti, la sua prova più sorprendente, interessante, quanto irrimediabilmente irrisolta) e Amnesia (che forse troppo risente di certe tendenze modaiole e postmoderniste alla Tarantino) aveva tentato, peraltro riuscendoci, ad azzardare linguaggi e stili inconsueti, perlomeno, nel cinema italiano. Con quest’ultimo film il regista torna ad una narrazione più lineare, tenendo saldamente la mdp sul cavalletto e a farla elegantemente scivolare su un carrello. Ma la voglia di contaminare e affascinare resta la stessa. Anzi, forse si avvicina più di altre volte alla maturità. E per farlo, paradossalmente, si affida ai bambini. Il mondo che questi fanciulli vivono è fatto di adulti ambigui, sorta di orchi famelici e antropomorfi che occupano arrogantemente letti e bagni, padri avidi ma a volte anche vulnerabili e sfortunati che sembrano abitare una fiaba acida e spietata. E così la vicenda si tinge di nero (del buco, dell’ombra, del lato oscuro che ognuno nasconde) e oro (del grano, del sole, della luce), colori dominanti del film che bene vengono riflessi dalla straordinaria fotografia di Petriccione e dalle scenografie sempre sobrie, curate, funzionali di Basili. Ma all’accattivante e fascinosa messa in scena, alla regia quasi perfetta (una volta per tutte: se Muccino è bravissimo a girare, come dicono molti, Salvatores diventa automaticamente sinonimo di Orson Welles), agli attori tutti nelle loro parti come quasi mai accade nel cinema italiano, qualcosa inevitabilmente, a fine visione, stride. Stride ciò che di solito stride nei film di Salvatores, e cioè la profondità della vicenda. Su cosa vuole concentrare l’attenzione il regista? Sull’opposta e complementare natura dei due bambini (il bianco e il nero di conradiana memoria)? O su come un bambino vive la crescita, per quanto particolare? O, ancora, getta l’occhio alle realtà sociali di un sud dimenticato e tragico che coinvolge inevitabilmente una famiglia? Al regista forse tutto ciò stava a cuore e, come spesso accade, sfugge. Si ha la sensazione che l’affresco rimanga non finito, che il colore sulla tavolozza sia terminato prima del tempo. Che i personaggi siano rimasti lì, imprigionati nella pellicola con ancora molta voglia di raccontarsi. Ma i pregi e i difetti del film si rincorrono, si esaltano e si annullano a vicenda. Le immagini rimbalzano nella memoria più volte e fanno pensare a altre immagini e a altri film. Uno su tutti: Non si sevizia un paperino di Lucio Fulci, che da geniaccio quale era, ambientò trent’anni prima di Salvatores un thriller nell’assolata e luccicante campagna lucana, con bambini inquietanti almeno quanto gli adulti e con un cielo talmente azzurro che soltanto il buio della terra (e dell’animo umano) poteva fronteggiare. Io non ho paura non è un film cattivo (nessuno di quelli da lui girati lo è, ad eccezione forse di Denti), e alla cinica morale fulciana risponde con la sognante maturità della saggezza. Salvatores rimane comunque colui che non si fa stritolare dal forzato naturalismo provinciale che attanaglia il cinema italiano e  rivendica (seppur con modesta forza polemica) una personale poetica della regia.

 

Voto: 28/30 Paolo FAZZINI (30 - 03 - 2003)

 

 

Il difetto di non chiamarsi Crialese e di aver vinto un Oscar, a detta dello stesso Salvatores “immeritato, nell’anno di LANTERNE ROSSE”.
 Questo è ciò che non ha ancora fatto parlare di IO NON HO PAURA come di un grande film e, anche quando lo si è definito il “capolavoro” del regista di MEDITERRANEO, lo si è fatto con compiaciuta malizia, in riferimento al peso della sceneggiatura dell’autore del testo da cui è tratto, Niccolò Ammanniti, e di Francesca Marciano, oppure, appena dopo averlo definito tale, lo si è liquidato con un 6 o un 5 da parte di riviste che plaudono in maniera sconnessa all’esito dei recenti David di Donatello ...
 Gabriele, vuoi per la sua provenienza teatrale, per il ricorso ossessivo ai compagni di ventura del Teatro dell’ Elfo, o per il costante riferimento alla cultura libertaria dei favolosi anni ’70 [ convinciamoci tutti che lo furono veramente! alzi la mano qualcuno che ha vissuto meglio nei periodi successivi: siamo pronti a sparargli a vista, col rischio che si parli ancora di “anni di piombo” –grazie alle Stragi di Stato, peraltro- come se nel medioevo attuale popolato da decerebrati berlusconoidi telecomandati, o sotto il CAF - il triumvirato “manisporche” de-formato da Craxi, Andreotti, Forlani , tutti fortunatamente annientati, o quasi, in questo 2003 di idiote guerre fittizie- si stia meglio ], dicevamo, per essere in tutti i sensi un isolato e per il “difetto” di portarsi dietro questa isola mentale e reale –gli amici attori- un po’ ovunque, è sempre stato una mosca bianca, capace, peraltro, di iniziative e azzardi coraggiosissimi, assolutamente proibiti ai compagnucci borghesi che non si sono mai fatti una canna. Capace di sperimentare sapendo di, necessariamente, anche sbagliare; di rischiare dove altri battono le strade –fa venire i brividi dirlo- alternativamente della commedia all’italiana [ sembra una ricetta di cucina ] o del neo-neo-neo-neo-realismo [ con ospiti di interi cimiteri che si rivoltano “realisticamente” nella rispettiva tomba ].
 Gli è che il Salva è pieno di talento ed è regista, nel vero senso della parola, mille volte più di gente che, anche accatastata, non riesce a raggiungere la sua altezza. No!!!! Saper girare è una colpa, nel paese in cui un Garrone è diventato improvvisamente un genio, dopo immani tristezze quali ESTATE ROMANA, o dove si pensa che ex-comici o ex-documentaristi di ogni risma o valore siano autorizzati a fare scempi con la m.d.p. con cadenza annuale.
 L’idea di sperimentare, magari anche con una certa ingenuità [ vedi NIRVANA ], ma col cuore “puro” e intenti sinceri, fa inorridire chi campa sugli articoli 28 o chi, dopo anni di Centro, sa che l’operina d’esordio lo porterà sugli altari –difficile…- o sul lettino dello psicanalista –più facile, ma sempre difficile... da pagare, s’intende! Così come “sperimentare” è una bestemmia per certe figure del cinema italiano amate dalla sinistra molto partitica, diciamo fassiniana-esangue-et-afona, ex-comici o ex-documentaristi o neo-pubblicitari, che appena escono dal rigore formale e concettuale vestito come una pelle, sbarellano di brutto [ l’espressione è l’unica che renda l’idea del caos mental-creativo in cui si trovano ex-promesse attorno ai 45/50, che in piena crisi personale, abortiscono commediole balneari che neanche i Sacco & Vanzina, o indigeribili beveroni autoanalitici dove nulla sembra costare qualcosa, neanche la felicità, ma il biglietto per vedere il film sì, mannaggia….! ]. Il tutto, horribile dictu, dopo averci parlato di Resistenza & Fabbrica con esiti ben diversi.
 E allora? Allora c’è ancora qualche critico disposto a difendere un certo regista chiaramente alle corde, parlando di coraggio della sincerità, del dire frasi semplici, quando la sincerità vera è quella che abita a casa di Gabriele Salvatores e di pochissimi altri. IO NON HO PAURA, se girato da un 35enne semiesordiente bisognoso di sostegno dopo prove invisibili o anonime, avrebbe fatto gridare al capolavoro assoluto. Ma perché mai non si è capaci di giudicare un film ANCHE ab-solutum dal fatto che è di tizio o di caio, verso cui si nutrono antipatie?
 Chi scrive riconosce che l’ IMBALSAMATORE è un buon lavoro, pur avendo precedentemente definito l’ex-tennista suo autore persona adatta ad altre mansioni nella vita e straprotetta dal solito lider maximo vespa-e-casco-dotato ; LA SECONDA VOLTA e TUTTO ERA FIAT [meraviglioso documentario] sono opera di quella stessa persona ora incapace di dirigere un film [ porca miseria, anche lei amica dell’ Innominabile];
 NOTTE ITALIANA, idem, sempre chi scrive l’ha amato moltissimo, ma ora fugge dalla sala se c’è A CAVALLO DELLA TIGRE […..non ditemi che anche lui era della scuderia di….., beh, ma allora è un virus! ]; IL PORTABORSE era un ‘opera discreta e magari coraggiosa per quegli anni, ma il suo autore ora è partito per la tangente [ ebbene sì: trattasi di ennesimo amico del girotondante ……non sarà che porta un po’ sf….? ].
 Insomma: chi scrive, come altri, indubbiamente, è disposto a riconoscere il bello e il buono dimenticando antipatie nuove e vecchie.
 Molti altri no: a cominciare da autori di pesanti tomi simili a dizionari del cinema [ ci dispiace per loro, ma forse non sanno che l’uso che ne viene fatto si limita spesso a date, cast et similia…..però, ogni tanto, leggiamo anche le loro spassionatissime critiche….. ], i quali, presi da furori ciechi e un pochettino stupidi, prendono uno, poniamo Salvatores, e lo piallano con una raffica di giudizi che vanno dagli ambiti asterischi [ 1, 1 e mezzo, due striminziti…. ], alle temute palle vuote [ che significherebbero “delusione” o “impossibile da commentare” ].
 Ma questa gente, quante palle piene riceverebbe in testa dai Salvatores, come dai Lynch o dai Cronenberg [ cito a memoria autori scomodi, sperimentali, amati da cotesti critici solo per le presunte opere della, ehm, maturità, come STRAIGHT STORY o M BUTTERFLY ] ???
 Però, ripeto, se Gabriele si chiamava Crialone e non aveva un passato fatto di kamikazen e puerti escondidi e quindi di Seventies oppiacei e movimentistici, sarebbe sicuramente piaciuto ai borghesucci di cui sopra [ e alcuni sono suoi coetanei! ], che avranno passato ’68 e ’77 chiusi nel bagno, invece che per strada.
 Noi amiamo Salvatores, ma non per questo ci piace tutto quello che fa: AMNESIA aveva una seconda parte bellissima, molto meglio dell’altra e, in generale, è girato e montato come quasi nessuno sa fare; DENTI corre sul filo del rasoio, prende rischi pazzeschi, certe volte inciampa su caratterizzazioni troppo forti di alcuni personaggi, ma , vivaddio, usa le crisi personali per far volare la fantasia; NIRVANA giustappone facce di comici dalla cadenza arcinota con una cybercultura che oltre all’immagine chiede anche un linguaggio tecno-depurato, senza scampo, ma è l’unico film di fantascienza italiano, con buoni spunti sparsi un po’ ovunque!; MEDITERRANEO, TURNE’ e MARRAKECH EXPRESS avranno il limite di essere troppo l’espressione generazionale di varie crisi, ma qui c’è vitalità, mentre nelle opere d’argomento analogo dei colleghi del Nostro, spesso vediamo solo lande sconfinate di nulla e/o depressione…; ah, ovviamente il “ben girare”, la fotografia etc. diventano tutto “cartolina” o “turismo”, mentre ci sono idioti capaci di esaltarsi per gente come davide…tullio…marco….giordana o come cavolo si chiama quel povero ragazzo o per quella poveretta della Di Majo, che si è messa in testa di girare le stagioni, AUTUNNO, INVERNO e che temiamo non sappia cosa sia la Primavera [ nel senso di allegria creativa… ].
 Qualcuno mi informa che anche costoro, premiati col Sacher d’oro, hanno esordito grazie a NM: siamo assaliti da dubbi atroci, qui impossibili da svelare………
 Il critico italiano medio, tant’è, forse perché non si piace, appena vede il bello e il ben fatto, zac, caccia la forbice dei giudiziacci cattivi. Chi scrive ricorda un caso emblematico: Walter Salles, brasiliano, esaltato per un buon filmetto strappalacrime come CENTRAL DO BRASIL, gira lo splendido ABRIL DESPEDACADO, opera impegnata su fazendas e vendette medievali in tempi recenti, con una, scusate, MANO registica unica e una coerente attenzione per la iper-rappresentazione del paesaggio, che era protagonista quanto i personaggi della storia, con fotografia e montaggio magistrali………..ed ecco i tristi avvoltoi in vacanza al Lido di Venezia, che se ne uscirono con le solite “ecco la cartolina…”, “patinato…” , “spot turistico…”……..ma andate tutti a spararvi una vacanza a Gallarate, ‘gnurant!
 Che i documentaristi (Calopresti, Gay, Ferrario, Gaglianone) facciano i documentaristi; che i comici, (Benigni, Verdone, Panariello, Aldogiovanniegiacomo, il povero Troisi, etc.) facciano i comici; che quelli a metà tra il comico e il documentaristico….la smettano di tentare di fare “proseliti” o allevare scuole!.
 Tanto nessuno di costoro potrà mai completamente chiamarsi regista nel senso completo del termine!!!
 Ebbene: IO NON HO PAURA è uno splendido film di uno splendido regista!
 Che –coerenza vuole- definiamo tale anche perché finalmente non è popolato da Ugo Conti o Sergio Rubini e dove gli Abatantuono e i Catania volano basso, nascosti, sottotraccia. La bellissima storia di solidarietà infantile imbastita da Ammanniti sulla scorta, lui più giovane, di ricordi adolescenziali di fine anni ’70, ancora impregnati di acre sapore di rapimenti e telegiornali come mezzo per la diffusione di comunicati di questa o quella associazione politica o a delinquere, regge da sola le quasi due ore della pellicola, appoggiandola sul doppio abbandono e isolamento vissuto dai protagonisti, entrambi lontani o allontanati dal cuore della famiglia, meglio, dalla figura del padre, che si annusano, si ritraggono, si riavvicinano in quel buco di terra, che è anche metafora dello scavo, della eccitazione per la scoperta di qualcosa di diverso, di proprio e privato e di non condivisibile con la famiglia che tutto controlla.
 Il ragazzino protagonista non familiarizza troppo con i coetanei, vive di distese di grano potentino, di libertà di corse in bicicletta attraverso quella luce irrappresentabile del Sud e soprattutto è attratto da quel doppio, voyeuristico modo di crescere attraverso la visione di qualcosa che gli è ignoto e oscuro – la stanza dove confabulano i genitori co-rapitori e, ovviamente, il nascondiglio del bimbo rapito- verso i quali si muove come verso la desiderata/ temuta conoscenza di qualcosa che lo renderà meno puro.
 Non sa, non capisce la realtà, galleggia, come si diceva, sulla bolla di sapone che ancora si frappone fra lui e le cose vere, ma è felice, un esserino di dieci anni in procinto di “conoscere” e di compiere, suo malgrado, un percorso tragico, analogo e inverso, a quello che ha bruscamente portato il suo doppio milanese di ricca famiglia a vivere la vera vita talmente in fondo, non solo metaforicamente, da credersi morto e come tale, piccolo allucinato e terrificante zombi sporco di terra e cieco, comportarsi.
 Un film privo di qualunque eccesso, ma allo stesso tempo capace di mescolare i “generi” come nessuno da noi osa fare: non c’è nessuna volgarità di serie “b” nell’usare registri orrorifici quando deve essere rappresentato lo stato in cui versa il piccolo rapito, che è una mummietta segreta, scura, nascosta sotto un panno scuro, capace di mangiare e bere senza mostrare il viso, come un gremlin o un baby-killer in fase di autodifesa. E, in quest’ottica, è geniale la rivelazione del corpicino bianco, della bocca terrosa e dei capelli scarmigliati, biondi e lunghi dello zombi-baby che esce dal sacco e si mostra alla sua antitesi/ alter-ego dalla pelle meridionale e scura, capelli corti e neri. Girata, la scena, in parte in soggettiva, anche per mostrare le piccole mani arrossate e ferite, ha tutto del film dell’orrore, ma questo ci piace, non ci spiazza, ed è funzionale al credere fortemente che a volte i termini definenti i generi, non siano casuali o inaccettabili se associati a un contesto che “lavora” l’orrore come quotidianità o sopravvivenza, cioè come materia del narrare, cui quel “modus” rappresentandi, per così dire, è parente.
 Perché l’horror [ se ne parlò anche per DENTI ] deve essere solo gore sanguinolento , parata di convenzioni stilistico-narrative o legate al decor […] del caso? Ma non è più interessante –rimanendo tale anche il cinema di genere tout-court- che pezzettini di questi “generi” o “sottogeneri” facciano periodica e motivata incursione nel “sopramondo” dei film considerati di categoria superiore?
 DENTI era un film inclassificabile –bene!- proprio perché pieno di allucinazioni oniriche e di puro horror di sola visione –i denti, ad esempio- o di storia – l’uomo squartato nella vasca- che confermava quanta abilità Gabriele possedesse già allora nella benvenuta “confusione” dei livelli e dei modi della rappresentazione.
 Tutto ciò, forse, gli deriva dalla formazione teatrale, che era un laboratorio infinito di prove e sperimentazioni, e dalla libertà d’immaginazione che ne era alla base. Pensate –fatti tutti i distinguo che si vuole, naturalmente- l’analoga libertà, il folle cromatismo, l’ipertrofia scenografica di un Bene, anche lui proveniente dal teatro, nelle sue poche prove cinematografiche.
 Tornando al film, va detto della solita capacità di Salvatores di gestire i ritmi del racconto, coadiuvato da un montaggio che rallenta e accelera a seconda che ci troviamo tra le quattro mura illuminate da luce naturale dello scarno casolare di famiglia, o che ci si muova all’esterno, o che siamo vicini alla casa di terra del rapito.Così come Gabriele conferma, e questa volta con risultati mai sopra le righe, neanche da parte di Abatantuono, la sua capacità unica nel dirigere gli attori, immergendoli –forse- oniricamente in tempi e situazioni totalmente altre da quelle della loro quotidianità. Sembra una tautologia del mestiere di chi recita, ma non è così, poiché con S. le figure recitanti sono veramente in trance, staccate dalla pratica del “lavoro” sul set e abbandonantesi ai loro personaggi-corpi con totale fiducia e convinzione, ipnotizzati dal monaco zen napoletano-milanese, noto da tempo per saper creare atmosfere uniche su set che dimenticano la realtà –e il reale?- circostante.
 Ma questo non è altro che la materia del cinema!
 Certo, poi il film appassiona, coinvolge, fa meditare anche per il suo legame con fatti legati alla cronaca di qualche decennio fa, ci porta sul piano del ricordo collettivo, fa “discutere” i capannelli di gente fuori dalle sale….d’accordo: ma non è necessariamente SOLO questo, il COSA rispetto al COME, a fare di un film un capolavoro.

 

Voto: 30/30 Gabriele FRANCIONI (16 - 04 - 2003)

 

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