DENTI
di Gabriele Salvatores con Sergio Rubini, Anita Caprioli, Paolo Villaggio e Fabrizio Bentivoglio
Il primo numero è il 3. Il film di Gabriele Salvatores parla innanzitutto
di questo, partendo dall'India…
La medicina ayurvedica (da un antico trattato indiano), ci aiuta a riequilibrare
quelli che sono considerati i tre elementi fondamentali della prakriti,
la materia primordiale: tamas, il pesante e oscuro; rajas,
l'attivo, passionale; sattva, la componente luminosa e gioiosa.
Solo quando c'è accordo tra gli aspetti del vivere legati a ciascuno di
questi "elementi" (guna), possiamo considerarci al sicuro, ignorati
dalla malattia psichica e lontani da sofferenze inerenti alla fisicità
corporea. La direzione segnata dalle pratiche necessarie a raggiungere
tale sintesi, non è in alcun modo assimilabile ad una linea retta e ad
un percorso predefinito. Ayu e veda (scienza, conoscenza
della vita), sono termini che costituiscono le basi di una dottrina
olistica orientata alla definizione di un approccio complessivo alla vita,
ove mente, anima e corpo "danzano" insieme e collaborano al tutto armonico,
che deve (dovrebbe) traghettarci da una Vita all'altra. Noi, però,
vediamo le vite quotidiane nostre e degli altri - come il protagonista
di DENTI - raccolte in un quadro, che è sempre più spesso quello della deriva psico-fisica e ci affanniamo disordinatamente a ricomporne
la cornice ricorrendo al "restauro", che i guru del risveglio e
della luce ci promettono, nella speranza che la cura "paghi" e,
soprattutto, sia veloce.
Dobbiamo, invece, vedere il buio. Calcolare i punti di non-appoggio della
nostra anima, come un tavolino a 3 gambe che ne perde una e poi un'altra.
Entrare nei vicoli o nei cul-de-sac della memoria e riprendere fiato per
iniziare a rivedere le stelle. Occorre, quindi, viaggiare attraverso
i gironi del passato e cercare di capire quali comportamenti o quali eventi
abbiano portato ad una disarmonica convivenza di sattva, rajas e tamas.
In DENTI, il film che Gabriele Salvatores ha realizzato e difeso con la
tenacia controllata di un monaco zen, superando ostacoli di varia natura
(quali, ad esempio, i rifiuti iniziali di una delle parti coinvolte nella
produzione ad usare lo stesso titolo del libro di Domenico Starnone, da
cui è tratta la pellicola), il numero 3 è legato alle presenze femminili
della storia, ciascuna riconducibile ad un elemento della triade ayurvedica:
la madre, solare e gioiosa; la moglie, legata alla "terra" e attenta solo
alla sopravvivenza quotidiana, ai suoi aspetti pratici; il nuovo
amore, Mara, immersa nel lavoro e nella passione (forse anche per un dentista,
Micco, tanto realizzato, quanto Antonio - Rubini - è "scollegato" dal
mondo). La somiglianza tra le attrici scelte per i tre ruoli non è casuale:
più della semplice reiterazione del viso della madre, rappresenta l' uguale
importanza delle componenti che definiscono l'insieme. Antonio, all'inizio
del film, è un uomo in piena crisi dei sentimenti e poco coinvolto nel
proprio lavoro di precario universitario, incapace di darsi ad
una donna della quale paventa l'infedeltà e nella cui casa ha fatto il
suo triste nido. E' un uomo che non conosce l'armonia, perché le sue precedenti
donne - madre/sattva e moglie/tamas - sono morte, come la
prima, o sono state abbandonate, lasciandolo in compagnia di Mara/rajas,
e, quindi, in uno stato di dipendenza dalla sola componente legata all'attrazione,
al sesso e alle loro inevitabili conseguenze, come la gelosia. Ingigantita
dal fatto di sentirsi inadeguato a lei, per colpa di due enormi incisivi…
Il film parte dal punto più basso del rapporto con la giovane e bellissima
nuova fidanzata (Anita Caprioli), determinato dall'entrata in scena
dell'inquietante dentista amico di lei: durante un litigio in cui Mara
spacca un incisivo ad Antonio (più avanti ci soffermiamo sul tema dei denti), si decide di ricorrere alle cure dello specialista. Da
qui in poi comincia a svilupparsi un viaggio a ritroso nel tempo, che
porterà a reincontrare le figure della madre e della moglie e a
capire l'origine della crisi. Antonio passerà da Micco ad altri dentisti
e ognuno di questi lo condurrà, in modi diversi, a riascoltare le voci
di quelle donne, come quando il dottor Lotto gli ricorda i suoi doveri
di padre, mostrandogli la forma deforme della bocca di Michela, la figlia,
e raccomandandogli di prendersene cura. Ogni momento della narrazione,
che pochi hanno saputo leggere in un'ottica, per così dire, olistica (l'accusa
principale è, paradossalmente, quella di una discontinuità complessiva,
con troppi salti temporali e visioni oniriche), vede la regia seguire
coerentemente le premesse. L'incontro con Fiorenza e Michela, che rappresentano
la realtà pesante e dura da affrontare - tamas - sembra girato
camera a mano; le molteplici apparizioni della madre morta, invece,
sono flash luminosi o allucinazioni realizzate con l'uso moderato
di effetti speciali, come nella sala d'aspetto di Cagnano, l'ultimo medico
della lista.
La madre-sattva, come si può intuire, torna nella mente e nei ricordi attivi di Antonio, per riportare gioia e leggerezza, sempre pronta
a vedere l'aspetto buono delle cose o a consigliargli un approccio più
rilassato alla vita. Se l'odissea tra gli studi dentistici appare come
una discesa agli inferi, il protagonista sta invece recuperando gli aspetti
dimenticati dell'esistenza: doveri e allegria, concretezza e ironia. I
medici rappresentano qui "gli altri", amici e non, nei momenti di crisi:
entrano nel tuo mondo come quelli fanno entrando nella tua bocca
e lasciano sempre qualcosa. Soprattutto: toccano i nervi scoperti
della tua anima.
Il 3 va ricomponendosi, l'equilibrio ricostituendosi. L'ultimo passo è
quello dell'affrancamento e della rinascita: madre e moglie, recuperate
come elementi della triade, scompaiono per sempre. Così accadrà
anche a Mara, in un finale ricco di colpi di scena.
Il secondo numero è il 2.
Sempre nella medicina ayurvedica, gli incisivi rappresentano la coppia.
Il protagonista da adolescente, rifiutato dalle ragazzine, decide di punire
la sua dentatura sbattendo il viso contro la pietra dei resti pompeiani,
durante un viaggio di famiglia. Sulle note di CHILD IN TIME dei DEEP PURPLE
(uno dei crescendo più emozionanti del rock), l'incisivo è rotto e, poco
dopo, l'asse d'intesa madre-figlio - la coppia - si dissolve, perché lei
muore. Anche la rottura del secondo dente da coniglio, durante
la lite all'inizio del film, prelude ad una crisi tra Mara e Antonio.
Ma il 2 torna anche a indicare una 2° realtà: quella psichica,
onirica, allucinata nella quale avvengono gli incontri con il fantasma
benigno della madre. E gli alveoli rimasti scoperti dopo Pompei, sono
come la porta parallela che consente il collegamento con questi
mondi virtuali: Antonio ha i suoi primi flash quando appoggia la
lingua su di essi e si connette. Non siamo molto distanti da NIRVANA...
(Il mondo parallelo da esplorare è sempre presente nel cinema di
Salvatores, come luogo fisico, paesaggio geografico utile a individuare
un altrove dell'anima - Mediterraneo, Puerto Escondido - o come navigazione nella rete). E, forse, non siamo molto lontani
neanche dalle porte cronenberghiane e dalla tecnologia dei corpi di EXISTENZ,
CRASH, THE NAKED LUNCH, VIDEODROME, DEAD RINGERS. O dalla fantascienza
angloamericana di pubblicazioni come SHAKER UNDERGROUND, tanto care al
regista.
3 e 2, nel finale, vengono entrambi a rappresentare equilibrio ritrovato.
Oltre ai tre guna, anche i due incisivi improvvisamente spuntati
al protagonista simboleggiano la vita nuova, che segue al trauma
(quasi una "morte" dello spirito) della crisi e dell'attraversamento della memoria stomatologica, come la chiama Antonio.
Controllare una materia narrativa così ricca, era operazione piena di
rischi. Salvatores, convinto che il senso del cinema stia nell'emozione
della singola immagine e nella capacità di dar concreta forma al sogno,
lascia che il viaggio a rebours e nei meandri della psiche, sia
portato avanti solo a livello visivo. Sbaglia chi ha parlato in termini
di "eccessiva ricchezza" e di "troppi effetti" nelle scene delle allucinazioni.
Il film parla, in fondo, di un'iniziazione ad un nuovo credo psichico
e il procedere per "illuminazioni" successive dell'anima, non poteva che
essere realizzato attraverso un'esplosione/implosione dell'immagine stessa.
Abbiamo, anzi, la sensazione di procedere costantemente entro un tunnel
o un budello (gola? esofago? stomaco? o corridoio buio, bosco,
bicchiere di champagne?), che ci risucchia e poi ci sputa nuovamente
nel reale, sempre un po' più liberati: un'esperienza, qui sì, stomatologica,
impossibile da condurre senza dare una fisicità quasi in 3-D al trip,
al viaggio.
Voto: 28/30 Gabriele FRANCIONI (17 - 08 -
2001)
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AMNESIA
di Gabriele Salvatores
con Diego Abatantuono, Sergio Rubini, Alessandra Martines e Martina Stella
Non un film sulla nostalgia, non l'ennesima apologia della fuga, non una
celebrazione degli eroi di MEDITERRANEO ma una storia di raggiri e guai,
una sorridente black comedy generazionale, un incrocio di destini in cui
si ritrovano i ragazzi di Marrakesh Express diventati, ormai, adulti con
figli, coscienza e qualche cicatrice in più. Non nostalgia, dunque,
ma un po' di amarezza sì, di rimpianto per il tempo perduto che
si stempera nella felice capacità di tornare a sorridere dopo i
momenti difficili. Il messaggio è paradossalmente ottimista e,
nonostante la nuova generazione dipinta sia ribelle, rancorosa e trasgressiva,
quando non addirittura drogata e corrotta, alla fine le famiglie storte,
ritorte e ferite riescono davvero, con un colpo di coda, a rimettersi
insieme. Tutti i personaggi dell'ultima pellicola di Salvatores non sono
esattamente ciò che appaiono: ognuno ha un segreto da custodire
o da rinnegare, ognuno un percorso di infelicità da affrancare,
ognuno una deviazione da scegliere o abbandonare. Quello in cui il regista
crede è che si può diventare adulti senza tradire gli ideali
della gioventù: ricordarli e rispettarli oltre il velo del tempo
che tutto offusca e nasconde è la strada per sfuggire all'amnesia
che sembra aver colpito un'intera generazione. Amnesìa, dunque,
come vuoto in un percorso di crescita umana, come gap tra lo spazio del
sogno e quello piatto del reale, come perdita di un bagaglio culturale
ed emozionale infranto contro la barriera del compromesso. Ma anche Amnèsia
come luogo reale cui ancorare la pesante solidità dei fatti, come
una delle più grandi discoteche di Ibiza, scelta per la sua realtà
felice e complessa di razze, costume, divertimento e paure, un supermercato
di varia umanità, sogni e sudore, un laboratorio musicale e sociologico,
il motore dell'azione di tutti i protagonisti che si muovono ai margini
di coscienza e legalità. Un'originalissima struttura a mosaico
narra il momento in cui tre storie diverse, eppur incredibilmente convergenti,
si incontrano. Quella di Sandro (Diego Abatantuono), regista pornografico
alle prese con l'arrivo improvviso di una figlia diciassettenne quasi
sconosciuta (Martina Stella) che ignora tutto di lui se non il suo abbandono,
quella di Xavier (Juango Puigcorbè), capo della polizia integro
ma molto umano, padre di Jorge (Ruben Ochandiano), un teppista senza legge
che è il suo cruccio ed il suo contrappasso, quella di Angelino
(Sergio Rubini), proprietario di un chiringuito, un bar sulla spiaggia,
e piccolissimo spacciatore di Marijuana, che, sognando una casa che non
sia la baracca sulla pista di atterraggio dell'aeroporto ed un futuro
fatto di figli e serenità per sé e la moglie Alicia (Maria
Jurado), si lascia tentare da speranze effimere di ricchezza facile, decidendo
di vendere i quattro chili di cocaina contenuti in una valigetta nella
quale casualmente si imbatte. Le storie, sebbene intrecciate, sono narrate
in tempi cinematografici diversi, rinunciando al montaggio alternato per
dare corpo ad una tecnica audace e di grande presa emotiva che prevede
lo svolgimento completo del primo plot nell'arco dei tre giorni nei quali
è ambientata la vicenda, una sorta di rewind accelerato che riporta
il tutto all'episodio iniziale e comune da cui si dipartono come fili
di una matassa i cento casi del destino, il racconto di una seconda storia
e così via. L'esperimento riesce ed è, forse, proprio quest'originalità
narrativa la vera spina dorsale di un progetto altrimenti poco sentito.
Così, dal funerale dell'Hippy maturo, morto felice a cavallo della
sua Norton Commando, la stessa moto di Che Guevara, momento in cui sono
presenti tutti i personaggi che ignoriamo essere i protagonisti di inattesi
sviluppi, e per tutta l'ora successiva, sembra di essere dinanzi ad una
rivisitazione senza anima né emozione del miglior repertorio di
Salvatores fatto di paesaggi deserti e riarsi, di personaggi piccoli ed
auto ironici che vivono di espedienti in un luogo che è "altrove"
rispetto alle loro origini, di purezza e bontà al di là
delle apparenze di compromesso e dissipazione. La vera svolta del film
si ha quando, fuori da ogni previsione, si torna improvvisamente indietro
nella narrazione per rivedere nuovamente la storia da un'angolazione che
spiega, integra e ricompone i frammenti perduti nella precedente rappresentazione
dei fatti o, comunque, sfuggiti all'attenzione dello spettatore. Accanto
ai giovani protagonisti della notte che all'alba si sdraiano sulla spiaggia
fissando, dagli occhiali scuri, un punto perso nell'orizzonte, compaiono,
in un'insalata esotica per colori e sapori, hippy irriducibili, esuli
politici, contadini a caccia con i loro "podenchi" (cani che
cacciano in branco lepri e cinghiali), viaggiatori solitari e qualche
poeta. Assecondando questa chiave di lettura che celebra la realtà
multi etnica della società moderna che centrifuga le diversità
per farne amalgama inseparabile, altro carattere affascinante e peculiare
del film è la scelta di una lingua che associ al colore dello spagnolo
tutte le contaminazioni che, interagendo l'un l'altra, danno vita ad un
vero nuovo dialetto dell'integrazione. Anche il cast, naturalmente, rispecchia
questa visione del regista per il quale appare evidente che "il mondo
è diventato piccolissimo e, forse, non è più così
sensato parlare di cinema spagnolo, francese o italiano". Capita,
allora che, provando "a raccontare le nostre storie con il nostro
cuore e le nostre lingue confrontandoci, però, con quelle degli
altri", agli attori feticcio del cinema di Salvatores, i sempre perfetti
e calibrati per passione ed intensità Abatantuono, Rubini, Conti,
si affianchino in un crogiuolo multi culturale affiatatissimo consumati
attori di teatro, star iberiche (Antonia San Juan, la Agrado di Pedro
Almodovar), ex ballerine e grandi della recitazione inglese (Ian McNeice)
che accettano di mettersi in discussione per recitare in ruoli secondari
e talvolta caricaturali. Non sempre, però, pur nella ricchezza
degli spunti e della lettura, talvolta addirittura sorprendente, delle
due anime del film disvelate e stravolte a seconda del punto di vista
privilegiato di momento in momento dalla macchina da presa, il film appare
compiuto e davvero corrispondente all'ottimismo della volontà di
Salvatores. Gli interpreti eccellenti, puntuali ed accattivanti, diverse
scelte artistiche e di confezione davvero meritevoli ed una colonna sonora
coinvolgente, rendono la pellicola godibilissima e, pur nella dimensione
grottescamente pulp fortemente cercata, in qualche modo positiva e leggera
rispetto a film più cupi ed introflessi quali NIRVANA e DENTI ma
ciò che, forse, rende più difficile la digestione ed impedisce
al progetto di decollare è, oltre a qualche indecisione di troppo
sullo stile da seguire e qualche cambiamento di rotta esageratamente brusco
sui caratteri messi in scena, il sapore costruito ed artefatto di un messaggio
che, in un carosello di disgregazione ed incompatibilità, pretende
di giustificare un happy end brutale e non necessario per riconciliarci
forzatamente con un'aspettativa del futuro che non può non essere
di speranza.
Voto: 25/30 Elisa
SCHIANCHI (03 -
03 - 2002)
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IO NON HO
PAURA
di Gabriele Salvatores
con Giuseppe Cristiano, Mattia Di Pierro
In un posto del sud, d’estate. Michele, dieci anni, passa la vita tra la
monotonia del piccolissimo paese d'origine e le eccitanti fughe tra i campi
di grano insieme ai pochi coetanei. Durante una di queste scopre per caso un
buco nel terreno coperto da una lastra di lamiera. Un incredibile segreto
cambierà per sempre la sua vita, segnando la fine dell’infanzia e la
conquista di un nuovo coraggio.Che Salvatores riesca a mettersi comunque in
gioco non è più una novità. Attraverso Denti (tra le più recenti, la sua
prova più sorprendente, interessante, quanto irrimediabilmente irrisolta) e
Amnesia (che forse troppo risente di certe tendenze modaiole e
postmoderniste alla Tarantino) aveva tentato, peraltro riuscendoci, ad
azzardare linguaggi e stili inconsueti, perlomeno, nel cinema italiano. Con
quest’ultimo film il regista torna ad una narrazione più lineare, tenendo
saldamente la mdp sul cavalletto e a farla elegantemente scivolare su un
carrello. Ma la voglia di contaminare e affascinare resta la stessa. Anzi,
forse si avvicina più di altre volte alla maturità. E per farlo,
paradossalmente, si affida ai bambini. Il mondo che questi fanciulli vivono
è fatto di adulti ambigui, sorta di orchi famelici e antropomorfi che
occupano arrogantemente letti e bagni, padri avidi ma a volte anche
vulnerabili e sfortunati che sembrano abitare una fiaba acida e spietata. E
così la vicenda si tinge di nero (del buco, dell’ombra, del lato oscuro che
ognuno nasconde) e oro (del grano, del sole, della luce), colori dominanti
del film che bene vengono riflessi dalla straordinaria fotografia di
Petriccione e dalle scenografie sempre sobrie, curate, funzionali di Basili.
Ma all’accattivante e fascinosa messa in scena, alla regia quasi perfetta
(una volta per tutte: se Muccino è bravissimo a girare, come dicono molti,
Salvatores diventa automaticamente sinonimo di Orson Welles), agli attori
tutti nelle loro parti come quasi mai accade nel cinema italiano, qualcosa
inevitabilmente, a fine visione, stride. Stride ciò che di solito stride nei
film di Salvatores, e cioè la profondità della vicenda. Su cosa vuole
concentrare l’attenzione il regista? Sull’opposta e complementare natura dei
due bambini (il bianco e il nero di conradiana memoria)? O su come un
bambino vive la crescita, per quanto particolare? O, ancora, getta l’occhio
alle realtà sociali di un sud dimenticato e tragico che coinvolge
inevitabilmente una famiglia? Al regista forse tutto ciò stava a cuore e,
come spesso accade, sfugge. Si ha la sensazione che l’affresco rimanga non
finito, che il colore sulla tavolozza sia terminato prima del tempo. Che i
personaggi siano rimasti lì, imprigionati nella pellicola con ancora molta
voglia di raccontarsi. Ma i pregi e i difetti del film si rincorrono, si
esaltano e si annullano a vicenda. Le immagini rimbalzano nella memoria più
volte e fanno pensare a altre immagini e a altri film. Uno su tutti: Non si
sevizia un paperino di Lucio Fulci, che da geniaccio quale era, ambientò
trent’anni prima di Salvatores un thriller nell’assolata e luccicante
campagna lucana, con bambini inquietanti almeno quanto gli adulti e con un
cielo talmente azzurro che soltanto il buio della terra (e dell’animo umano)
poteva fronteggiare. Io non ho paura non è un film cattivo (nessuno di
quelli da lui girati lo è, ad eccezione forse di Denti), e alla cinica
morale fulciana risponde con la sognante maturità della saggezza. Salvatores
rimane comunque colui che non si fa stritolare dal forzato naturalismo
provinciale che attanaglia il cinema italiano e rivendica (seppur con
modesta forza polemica) una personale poetica della regia.
Voto: 28/30
Paolo FAZZINI (30 - 03 - 2003)
Il difetto di non chiamarsi Crialese e di
aver vinto un Oscar, a detta dello stesso Salvatores “immeritato,
nell’anno di LANTERNE ROSSE”.
Questo è ciò che non ha ancora fatto parlare di IO NON HO PAURA come di
un grande film e, anche quando lo si è definito il “capolavoro” del
regista di MEDITERRANEO, lo si è fatto con compiaciuta malizia, in
riferimento al peso della sceneggiatura dell’autore del testo da cui è
tratto, Niccolò Ammanniti, e di Francesca Marciano, oppure, appena dopo
averlo definito tale, lo si è liquidato con un 6 o un 5 da parte di
riviste che plaudono in maniera sconnessa all’esito dei recenti David di
Donatello ...
Gabriele, vuoi per la sua provenienza teatrale, per il ricorso ossessivo
ai compagni di ventura del Teatro dell’ Elfo, o per il costante
riferimento alla cultura libertaria dei favolosi anni ’70 [ convinciamoci
tutti che lo furono veramente! alzi la mano qualcuno che ha vissuto meglio
nei periodi successivi: siamo pronti a sparargli a vista, col rischio che
si parli ancora di “anni di piombo” –grazie alle Stragi di Stato,
peraltro- come se nel medioevo attuale popolato da decerebrati
berlusconoidi telecomandati, o sotto il CAF - il triumvirato “manisporche”
de-formato da Craxi, Andreotti, Forlani , tutti fortunatamente annientati,
o quasi, in questo 2003 di idiote guerre fittizie- si stia meglio ],
dicevamo, per essere in tutti i sensi un isolato e per il “difetto” di
portarsi dietro questa isola mentale e reale –gli amici attori- un po’
ovunque, è sempre stato una mosca bianca, capace, peraltro, di iniziative
e azzardi coraggiosissimi, assolutamente proibiti ai compagnucci borghesi
che non si sono mai fatti una canna. Capace di sperimentare sapendo di,
necessariamente, anche sbagliare; di rischiare dove altri battono le
strade –fa venire i brividi dirlo- alternativamente della commedia
all’italiana [ sembra una ricetta di cucina ] o del
neo-neo-neo-neo-realismo [ con ospiti di interi cimiteri che si rivoltano
“realisticamente” nella rispettiva tomba ].
Gli è che il Salva è pieno di talento ed è regista, nel vero senso della
parola, mille volte più di gente che, anche accatastata, non riesce a
raggiungere la sua altezza. No!!!! Saper girare è una colpa, nel paese in
cui un Garrone è diventato improvvisamente un genio, dopo immani tristezze
quali ESTATE ROMANA, o dove si pensa che ex-comici o ex-documentaristi di
ogni risma o valore siano autorizzati a fare scempi con la m.d.p. con
cadenza annuale.
L’idea di sperimentare, magari anche con una certa ingenuità [ vedi
NIRVANA ], ma col cuore “puro” e intenti sinceri, fa inorridire chi campa
sugli articoli 28 o chi, dopo anni di Centro, sa che l’operina d’esordio
lo porterà sugli altari –difficile…- o sul lettino dello psicanalista –più
facile, ma sempre difficile... da pagare, s’intende! Così come
“sperimentare” è una bestemmia per certe figure del cinema italiano amate
dalla sinistra molto partitica, diciamo fassiniana-esangue-et-afona,
ex-comici o ex-documentaristi o neo-pubblicitari, che appena escono dal
rigore formale e concettuale vestito come una pelle, sbarellano di brutto
[ l’espressione è l’unica che renda l’idea del caos mental-creativo in cui
si trovano ex-promesse attorno ai 45/50, che in piena crisi personale,
abortiscono commediole balneari che neanche i Sacco & Vanzina, o
indigeribili beveroni autoanalitici dove nulla sembra costare qualcosa,
neanche la felicità, ma il biglietto per vedere il film sì, mannaggia….!
]. Il tutto, horribile dictu, dopo averci parlato di Resistenza & Fabbrica
con esiti ben diversi.
E allora? Allora c’è ancora qualche critico disposto a difendere un certo
regista chiaramente alle corde, parlando di coraggio della sincerità, del
dire frasi semplici, quando la sincerità vera è quella che abita a casa di
Gabriele Salvatores e di pochissimi altri. IO NON HO PAURA, se girato da
un 35enne semiesordiente bisognoso di sostegno dopo prove invisibili o
anonime, avrebbe fatto gridare al capolavoro assoluto. Ma perché mai non
si è capaci di giudicare un film ANCHE ab-solutum dal fatto che è di tizio
o di caio, verso cui si nutrono antipatie?
Chi scrive riconosce che l’ IMBALSAMATORE è un buon lavoro, pur avendo
precedentemente definito l’ex-tennista suo autore persona adatta ad altre
mansioni nella vita e straprotetta dal solito lider maximo
vespa-e-casco-dotato ; LA SECONDA VOLTA e TUTTO ERA FIAT [meraviglioso
documentario] sono opera di quella stessa persona ora incapace di dirigere
un film [ porca miseria, anche lei amica dell’ Innominabile];
NOTTE ITALIANA, idem, sempre chi scrive l’ha amato moltissimo, ma ora
fugge dalla sala se c’è A CAVALLO DELLA TIGRE […..non ditemi che anche lui
era della scuderia di….., beh, ma allora è un virus! ]; IL PORTABORSE era
un ‘opera discreta e magari coraggiosa per quegli anni, ma il suo autore
ora è partito per la tangente [ ebbene sì: trattasi di ennesimo amico del
girotondante ……non sarà che porta un po’ sf….? ].
Insomma: chi scrive, come altri, indubbiamente, è disposto a riconoscere
il bello e il buono dimenticando antipatie nuove e vecchie.
Molti altri no: a cominciare da autori di pesanti tomi simili a dizionari
del cinema [ ci dispiace per loro, ma forse non sanno che l’uso che ne
viene fatto si limita spesso a date, cast et similia…..però, ogni tanto,
leggiamo anche le loro spassionatissime critiche….. ], i quali, presi da
furori ciechi e un pochettino stupidi, prendono uno, poniamo Salvatores, e
lo piallano con una raffica di giudizi che vanno dagli ambiti asterischi [
1, 1 e mezzo, due striminziti…. ], alle temute palle vuote [ che
significherebbero “delusione” o “impossibile da commentare” ].
Ma questa gente, quante palle piene riceverebbe in testa dai Salvatores,
come dai Lynch o dai Cronenberg [ cito a memoria autori scomodi,
sperimentali, amati da cotesti critici solo per le presunte opere della,
ehm, maturità, come STRAIGHT STORY o M BUTTERFLY ] ???
Però, ripeto, se Gabriele si chiamava Crialone e non aveva un passato
fatto di kamikazen e puerti escondidi e quindi di Seventies oppiacei e
movimentistici, sarebbe sicuramente piaciuto ai borghesucci di cui sopra [
e alcuni sono suoi coetanei! ], che avranno passato ’68 e ’77 chiusi nel
bagno, invece che per strada.
Noi amiamo Salvatores, ma non per questo ci piace tutto quello che fa:
AMNESIA aveva una seconda parte bellissima, molto meglio dell’altra e, in
generale, è girato e montato come quasi nessuno sa fare; DENTI corre sul
filo del rasoio, prende rischi pazzeschi, certe volte inciampa su
caratterizzazioni troppo forti di alcuni personaggi, ma , vivaddio, usa le
crisi personali per far volare la fantasia; NIRVANA giustappone facce di
comici dalla cadenza arcinota con una cybercultura che oltre all’immagine
chiede anche un linguaggio tecno-depurato, senza scampo, ma è l’unico film
di fantascienza italiano, con buoni spunti sparsi un po’ ovunque!;
MEDITERRANEO, TURNE’ e MARRAKECH EXPRESS avranno il limite di essere
troppo l’espressione generazionale di varie crisi, ma qui c’è vitalità,
mentre nelle opere d’argomento analogo dei colleghi del Nostro, spesso
vediamo solo lande sconfinate di nulla e/o depressione…; ah, ovviamente il
“ben girare”, la fotografia etc. diventano tutto “cartolina” o “turismo”,
mentre ci sono idioti capaci di esaltarsi per gente come
davide…tullio…marco….giordana o come cavolo si chiama quel povero ragazzo
o per quella poveretta della Di Majo, che si è messa in testa di girare le
stagioni, AUTUNNO, INVERNO e che temiamo non sappia cosa sia la Primavera
[ nel senso di allegria creativa… ].
Qualcuno mi informa che anche costoro, premiati col Sacher d’oro, hanno
esordito grazie a NM: siamo assaliti da dubbi atroci, qui impossibili da
svelare………
Il critico italiano medio, tant’è, forse perché non si piace, appena vede
il bello e il ben fatto, zac, caccia la forbice dei giudiziacci cattivi.
Chi scrive ricorda un caso emblematico: Walter Salles, brasiliano,
esaltato per un buon filmetto strappalacrime come CENTRAL DO BRASIL, gira
lo splendido ABRIL DESPEDACADO, opera impegnata su fazendas e vendette
medievali in tempi recenti, con una, scusate, MANO registica unica e una
coerente attenzione per la iper-rappresentazione del paesaggio, che era
protagonista quanto i personaggi della storia, con fotografia e montaggio
magistrali………..ed ecco i tristi avvoltoi in vacanza al Lido di Venezia,
che se ne uscirono con le solite “ecco la cartolina…”, “patinato…” , “spot
turistico…”……..ma andate tutti a spararvi una vacanza a Gallarate,
‘gnurant!
Che i documentaristi (Calopresti, Gay, Ferrario, Gaglianone) facciano i
documentaristi; che i comici, (Benigni, Verdone, Panariello,
Aldogiovanniegiacomo, il povero Troisi, etc.) facciano i comici; che quelli
a metà tra il comico e il documentaristico….la smettano di tentare di fare
“proseliti” o allevare scuole!.
Tanto nessuno di costoro potrà mai completamente chiamarsi regista nel
senso completo del termine!!!
Ebbene: IO NON HO PAURA è uno splendido film di uno splendido regista!
Che –coerenza vuole- definiamo tale anche perché finalmente non è
popolato da Ugo Conti o Sergio Rubini e dove gli Abatantuono e i Catania
volano basso, nascosti, sottotraccia. La bellissima storia di solidarietà
infantile imbastita da Ammanniti sulla scorta, lui più giovane, di ricordi
adolescenziali di fine anni ’70, ancora impregnati di acre sapore di
rapimenti e telegiornali come mezzo per la diffusione di comunicati di
questa o quella associazione politica o a delinquere, regge da sola le
quasi due ore della pellicola, appoggiandola sul doppio abbandono e
isolamento vissuto dai protagonisti, entrambi lontani o allontanati dal
cuore della famiglia, meglio, dalla figura del padre, che si annusano, si
ritraggono, si riavvicinano in quel buco di terra, che è anche metafora
dello scavo, della eccitazione per la scoperta di qualcosa di diverso, di
proprio e privato e di non condivisibile con la famiglia che tutto
controlla.
Il ragazzino protagonista non familiarizza troppo con i coetanei, vive di
distese di grano potentino, di libertà di corse in bicicletta attraverso
quella luce irrappresentabile del Sud e soprattutto è attratto da quel
doppio, voyeuristico modo di crescere attraverso la visione di qualcosa
che gli è ignoto e oscuro – la stanza dove confabulano i genitori
co-rapitori e, ovviamente, il nascondiglio del bimbo rapito- verso i quali
si muove come verso la desiderata/ temuta conoscenza di qualcosa che lo
renderà meno puro.
Non sa, non capisce la realtà, galleggia, come si diceva, sulla bolla di
sapone che ancora si frappone fra lui e le cose vere, ma è felice, un
esserino di dieci anni in procinto di “conoscere” e di compiere, suo
malgrado, un percorso tragico, analogo e inverso, a quello che ha
bruscamente portato il suo doppio milanese di ricca famiglia a vivere la
vera vita talmente in fondo, non solo metaforicamente, da credersi morto e
come tale, piccolo allucinato e terrificante zombi sporco di terra e
cieco, comportarsi.
Un film privo di qualunque eccesso, ma allo stesso tempo capace di
mescolare i “generi” come nessuno da noi osa fare: non c’è nessuna
volgarità di serie “b” nell’usare registri orrorifici quando deve essere
rappresentato lo stato in cui versa il piccolo rapito, che è una mummietta
segreta, scura, nascosta sotto un panno scuro, capace di mangiare e bere
senza mostrare il viso, come un gremlin o un baby-killer in fase di
autodifesa. E, in quest’ottica, è geniale la rivelazione del corpicino
bianco, della bocca terrosa e dei capelli scarmigliati, biondi e lunghi
dello zombi-baby che esce dal sacco e si mostra alla sua antitesi/
alter-ego dalla pelle meridionale e scura, capelli corti e neri. Girata,
la scena, in parte in soggettiva, anche per mostrare le piccole mani
arrossate e ferite, ha tutto del film dell’orrore, ma questo ci piace, non
ci spiazza, ed è funzionale al credere fortemente che a volte i termini
definenti i generi, non siano casuali o inaccettabili se associati a un
contesto che “lavora” l’orrore come quotidianità o sopravvivenza, cioè
come materia del narrare, cui quel “modus” rappresentandi, per così dire,
è parente.
Perché l’horror [ se ne parlò anche per DENTI ] deve essere solo gore
sanguinolento , parata di convenzioni stilistico-narrative o legate al
decor […] del caso? Ma non è più interessante –rimanendo tale anche il
cinema di genere tout-court- che pezzettini di questi “generi” o
“sottogeneri” facciano periodica e motivata incursione nel “sopramondo”
dei film considerati di categoria superiore?
DENTI era un film inclassificabile –bene!- proprio perché pieno di
allucinazioni oniriche e di puro horror di sola visione –i denti, ad
esempio- o di storia – l’uomo squartato nella vasca- che confermava quanta
abilità Gabriele possedesse già allora nella benvenuta “confusione” dei
livelli e dei modi della rappresentazione.
Tutto ciò, forse, gli deriva dalla formazione teatrale, che era un
laboratorio infinito di prove e sperimentazioni, e dalla libertà
d’immaginazione che ne era alla base. Pensate –fatti tutti i distinguo che
si vuole, naturalmente- l’analoga libertà, il folle cromatismo,
l’ipertrofia scenografica di un Bene, anche lui proveniente dal teatro,
nelle sue poche prove cinematografiche.
Tornando al film, va detto della solita capacità di Salvatores di gestire
i ritmi del racconto, coadiuvato da un montaggio che rallenta e accelera a
seconda che ci troviamo tra le quattro mura illuminate da luce naturale
dello scarno casolare di famiglia, o che ci si muova all’esterno, o che
siamo vicini alla casa di terra del rapito.Così come Gabriele conferma, e
questa volta con risultati mai sopra le righe, neanche da parte di
Abatantuono, la sua capacità unica nel dirigere gli attori, immergendoli
–forse- oniricamente in tempi e situazioni totalmente altre da quelle
della loro quotidianità. Sembra una tautologia del mestiere di chi recita,
ma non è così, poiché con S. le figure recitanti sono veramente in trance,
staccate dalla pratica del “lavoro” sul set e abbandonantesi ai loro
personaggi-corpi con totale fiducia e convinzione, ipnotizzati dal monaco
zen napoletano-milanese, noto da tempo per saper creare atmosfere uniche
su set che dimenticano la realtà –e il reale?- circostante.
Ma questo non è altro che la materia del cinema!
Certo, poi il film appassiona, coinvolge, fa meditare anche per il suo
legame con fatti legati alla cronaca di qualche decennio fa, ci porta sul
piano del ricordo collettivo, fa “discutere” i capannelli di gente fuori
dalle sale….d’accordo: ma non è necessariamente SOLO questo, il COSA
rispetto al COME, a fare di un film un capolavoro.
Voto: 30/30
Gabriele FRANCIONI (16 - 04 - 2003)
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