international film festival

42.ma edizione

 

Rotterdam, 23 gennaio / 03 febbraio 2013

 

 

recensioni

di M.GROSOLI,  A.Zwanenburg

> ATAMBUA 39° CELSIUS di Riri Riza

> CENTRO HISTORICO di Aki Kaurismaki

> DRUG WAR di Johnnie To

> diego star di Frédérick Pelletier

> LA FILLE DE NULLE... di Jean-Claude Brisseau

> haLLEy di Sebastián Hofmann

> IXJANA di Jozef e Michal Skolimowski
> THE DELIVERY GUY di Andrey Stempkovsky

> TROIS EXERCICES... di Cristi Puiu

 

CENTRO HISTORICO
di Aki Kaurismak
Portogallo 2012, 90'

 

Spectrum

Marco Grosoli

30/30

Capitale europea della cultura lo scorso anno, la città di Guimaraes celebra l'avvenimento con un omnibus di quattro episodi, ognuno diretto da un autore o portoghese, o legato a quella nazione per qualche ragione.
Di fatto gli episodi si riducono a due: quelli, enormi, di Pedro Costa e Victor Erice (il primo lusitano, l'altro nobile e isolato “vicino di casa” spagnolo). Incorniciano il potentissimo dittico un Aki Kaurismaki (da tempo trasferitosi in Portogallo) abbastanza a corto di idee, e un Manoel de Oliveira che aggiorna il suo usuale, scultoreo memento sulla strutturale paradossalità del Tempo a quella che è poco più che una barzelletta.
Il corto di Costa, come svariati altri che in questi anni hanno seguito il suo
Juventude em marcha (2006), è una sorta di spin-off di quel lungometraggio. Il suo anziano protagonista, Ventura, muore. E risorge. Lo accompagnano le visioni di chi gli è stato vicino in vita, e soprattutto quella di un anonimo soldato della rivoluzione del 1975, straziante materializzazione delle occasioni perdute, eppure sempre presenti. Visioni che non hanno nulla del delirio soggettivo, perché Costa, con la straordinaria perizia pittorica delle sue luci e delle sue angolazioni, innesta sulla consueta monumentalità delle sue immagini una carica lirica assolutamente inedita nel suo cinema. Esse insomma, nonostante la lunga parte centrale sia fondamentalmente un tesissimo kammerspiel espressionista tra lui e il soldato dentro all'ascensore che lo conduce all'obitorio, non vanno a costituire il mero teatro mentale di un immigrato capoverdiano morente, ma un'autentica epica corale dei derelitti (ovvero, naturalmente, di tutta l'umanità), della quale Ventura è insieme protagonista, ricettacolo, aedo e testimonianza.
Corale è anche l'episodio di Erice, un'elegia alla prestigiosa manifattura locale (outsourced nell'estremo oriente dopo 150 anni), costruita con incommensurabile intelligenza documentaria. Erice, è il caso di dirlo, approccia il problema frontalmente. La rete visuale intessuta dagli sguardi in macchina dei vecchi operai che offrono le loro testimonianze, dai campi/controcampi tra loro e la gigantografia, che li sovrasta, di una foto scattata nella fabbrica in pausa pranzo molti decenni prima, e infine l'accorata invocazione interrogativa di quell'immagine che guarda direttamente negli occhi noi spettatori, imbastisce una geniale architettura che ci risucchia in quel presente che vorremmo far finta di non vedere, e che è caratterizzato da una sempre più pressante fine del lavoro, e allo stesso tempo ci dice che quel presente, in realtà, è non solo figlio di, ma consustanziale a quel passato che del lavoro è stato vittima. Erice, insomma, ci butta davanti l'urgenza del vuoto lasciato da un lavoro indispensabile ma insostenibile. Meglio: ci costringe a proiettarci in quel vuoto sapendoci in realtà proiettati, a nostra volta, da chi quel vuoto lo ha riempito, conosciuto, vissuto e lasciato. Ci obbliga, insomma, a voler inventare una soluzione per la contraddizione che stritola il nostro presente ma che viene dal passato, quella tra un lavoro sommamente desiderabile (perché la sua scomparsa segna la scomparsa di qualsiasi orizzonte prospettico per le nostre vite) e storicamente letale: la vecchia foto scattata nella mensa della fabbrica, con quei volti, quei corpi e quegli sguardi, si discosta in maniera appena percettibile da quella che si sarebbe potuta scattare in un campo di concentramento.
I film di Costa e Erice, insomma, ci convincono che “marginale” non è solo una città a pochi chilometri dall'Atlantico come Guimaraes, ma una condizione ontologica (meglio: ontologico/economica) che ci segna tutti, e che è sempre più coincidente con l'umanità in quanto tale.

TROIS EXERCICES D'INTERPRETATION
di Cristi Puiu
Francia
2012, 157'

 

Spectrum

Marco Grosoli

24/30

Un esperimento purtroppo pochissimo riuscito. In trasferta a Tolosa, Cristi Puiu (già autore dei grandiosi La morte del signor Lazarescu e Aurora) collabora con tre gruppi di attori su tre diverse storie destinate ad incrociarsi in occasione di una conclusiva seduta spiritica. Ognuna di esse vede una situazione assolutamente quotidiana inerpicarsi lungo i sentieri scoscesi dei massimi sistemi (quelli, segnatamente, della Morale), e incrociare le altre grazie a un ahinoi troppo rigido e meccanico sistema di simmetrie. I dialoghi affondano per eccesso di pretenziosità filosofica. Gli interpreti sono pochissimo convincenti, lontanissimi dalla capacità della recente “wave” rumena di sostenere lunghe e serratissime sessioni dialogiche. La macchina da presa di Puiu, che qui si vorrebbe discreta e equidistante, è invece soltanto pavida e incapace di scegliere. Un film che nelle intenzioni si vorrebbe una versione compressa di una qualche serie rohmeriana, ma che finisce per essere la brutta (molto brutta) copia di un Hong Sang-Soo.

THE DELIVERY GUY
di Andrey Stempkovsky
Russia 2013, 90'

 

Brigth Future

Arnold Zwanenburg

27/30

Alexey rings the bell to deliver a pizza. A girl opens the door while she's on the phone,  and without addressing a word to Alexey she pays him and takes the pizza. Alexey leaves. This is the opening scene of The Delivery Guy, which I saw at the International Film Festival Rotterdam, where it had it's world première. A mundane scene showing a lack of human interaction. It sets the tone for the rest of the movie, in which we closely follow Alexey in his daily activities. His father is sick with cancer, and with only his job as pizza delivery guy, he will never be able to pay for the treatment.
When he gets a chance to earn the hard needed money by becoming a hit-man, he grabs it without hesitation. His sudden job change apparently leaves him completely unaffected. He still has the same kind face, but he shows not a moment of doubt. I found it difficult throughout the movie to feel involved with a guy who is so cold hearted. In fact, when it finished I left the cinema slightly upset. Why should I care about this stranger Alexey, who in turn doesn't care about the life of another stranger? Why did I spend 1.5 hour with him?
On the other side I have to say, the long shots dwelling on daily activities gave me a feeling of presence. The movie was beautifully framed, the light was grim but balanced, the acting is realistic and the scenes gives us a view on rural Russia. Not an idealistic postcard, but something more real perhaps. And story wise, if I witness a crime in daily life, I don't ask myself: do I feel entertained? I ask myself: Am I safe? What should I do? And later: How could this have happened? Will it happen again, will it happen to me?
The Delivery Guy centers around the theme of emotional detachment. With depression as a rapidly growing health concern in our world, the movie does enter a theme worth exploring. We know that cold hearted killing exists, and emotional detachment might be just one of the causes. The movie reads like a warning for a tendency in our society. Maybe a bit more hope or lightness would have helped the digestion of this movie and help it carry this difficult subject to a greater public. However, next time when I order pizza, I will certainly be kind to the delivery guy.

Drug war
di Johnnie To
Hong Kong 2012, 107'

 

Spectrum

Marco Grosoli

28/30

Il primo film che Johnnie To ha girato nella Cina continentale (già presentato all'ultimo festival di Roma) è uno dei suoi meno inquadrabili – ma probabilmente anche uno dei suoi migliori degli ultimi anni. Molti i collaboratori “storici” chiamati a contribuire, e tra essi tutti i maggiori: Soi Cheang (a sua volta ormai più che apprezzato regista e massima speranza del cinema di Hong Kong di oggi), Yau Na Hoi, Wai Ka-Fai. È alla natura dell'interazione con quest'ultimo che si deve gran parte della riuscita di Drug War: al solito, è compito di Wai trovare modi di rendere variamente vertiginosa la sceneggiatura; è compito di To “bruciarne” lo schema, per complicato che sia, innestandovi una regia che passa tutto al vaglio del ritmo e della calcolata accelerazione: un rullo compressore che sposa una spietata efficacia a studi sull'azione di natura praticamente formalista (si è parlato spesso di Melville a suo proposito).
Si parte da un “buco” creatosi nella tessitura altrimenti perfetta del traffico di droga. Uno dei capi viene messo all'angolo dalla polizia: per lui sarà o collaborazione con la giustizia, o pena di morte. Grazie a lui, il granitico capo della polizia assumerà le sembianze e si sostituirà a un boss locale del contrabbando per poter acchiappare pesci ancora più grossi di quello fortunosamente preso poco prima.
Ci sono riserve, e belle grosse, di carattere morale: è difficile, davanti a una scena finale in cui all'ex pentito, dopo mille sue giravolte, viene somministrata l'iniezione letale, non pensare che il film sia un'apologia della pena capitale. Su un piano più astratto (ovvero su un piano più “wai-ka-faiano”), una scena del genere può tuttavia limitarsi a segnalare il limite intrinseco, strutturale delle deviazioni di percorso di cui la pellicola straripa, ma che non possono essere infinite per un'ovvia questione “fisiologica”. Senza contare che, a rigore, è difficile tacciare di esemplarità un caso come quello (non da ultimo perché la finale inversione a U si presenta come particolarmente brusca e inverosimile rispetto a un resto del film in cui, in sostanza, di quel personaggio siamo portati a fidarci).
Al di qua di questo limite, tutto è permesso: la mano ferma che dirige i mille frammenti sparsi dell'azione compone, di fatto, una sorta di “balletto dodecafonico” che dispiega così dettagliatamente le proprie coreografie da lasciare puntualmente lo spazio, dentro questa dilatazione, all'imprevisto che sempre si affaccia da dentro il cuore “hic-et-nunc” dell'azione, rilanciandolo. Imprevisto che abbonda così tanto, in quest'opera, da smagliare i margini pur labili dello schema di base debitamente variato (l'”infiltrazione”). Sarà pure pericoloso, ma è difficile resistere: della morale ci si dimentica, tanto si rimane ammirati da questo pirotecnico saggio di regia.

diego star
di Frédérick Pelletier
Canada 2012, 91'

 

Brigth Future

Arnold Zwanenburg

28/30

An engineer from the Ivory Coast, called Traoré, is stuck in a snow covered town in Canada. The old rusty ship he works on, has a failed engine. The crew has to wait for parts to arrive. Meanwhile, Traoré stays with Fanny, a young single mother who rents out a room to make some extra money.
One night Traoré is waken up by the crying of Fanny's baby son. Gently he picks up the baby with his large hands and the baby calms down. Fanny discovers the engineer in her house doubles as a tender babysitter, and she slowly grows fond of him. But when she finds out that Traoré has not been completely honest with her, her feelings for him turn quickly cold.
Diego Star is the first feature written and directed by the Canadian Frédérick Pelletier. The story has realistic characters, is well told and is involving from the first moment. It tells about honesty, faith and trust in times of hardships. The young mother Fanny is well played by Chloé Bourgeois. Issaka Sawadogo did an excellent job portraying Traoré, a positive and inspiring man let down by the people around him. Because of his sincerity and charm, you just want him to receive a bit of warmth in the cold situation he's stuck in.

LA FILLE DE NULLE PART
di Jean-Claude Brisseau

Francia 2012, 91'

 

Spectrum

Marco Grosoli

27/30

Ovvero: coincidenza tra il nadir di una carriera e il suo apogeo. Tutto molto logico, nel caso di Brisseau, autore che da una vita ostenta un'ossessione per il Femminile come limite mortale del Sé, oggetto dunque di fascinazione tanto quanto di esorcismo. Il piacere femminile, nella fattispecie, quale sostanza divina/sovrannaturale per via del semplice fatto che l'uomo ne è escluso.
Dopo una carriera dedicata alla fascinazione, e all'esorcismo, verso questo eccesso “mostruoso”, Brisseau mette in scena la più estrema delle sue fantasie. Nulla di scandaloso (come invece suo solito): al contrario, tutto molto normale e quotidiano. Una ragazza irrompe nella vita (e nella casa) di uno scrittore (lo stesso Brisseau) e ne diventa castamente collaboratrice nella stesura del trattato sul Credere che egli sta redigendo. Eccola, la fantasia definitiva: la donna come pari grado, come interlocutrice. Come, cioè, qualcosa di finalmente desessualizzato che può essere usata allo stesso modo in cui si usa se stessi per esorcizzare quell'abisso che è sempre lì, dietro l'angolo. (E sempre dietro l'angolo, in questo film, ci sono sovente parentesi horror/soprannaturali effettivamente agghiaccianti, e di alta efficacia figurativa).
Poiché il Credere non appartiene a chi crede (è questo, il vero abisso che Brisseau ha sempre mascherato col comodo “mistero del femminile”), il film non può appartenere a chi lo fa. Ecco dunque un film giustamente amatoriale, pieno di raccordi approssimativi (quando non direttamente sbagliati) e di gracchiante sonoro in presa diretta, ma che adempie all'essenziale: mostrare l'autore dal di fuori, mostrarlo con le mani nel sacco, e cioè mentre interagisce con una donna sul ciglio del (suo) abisso intenta nella più fervida delle perversioni: il campo/controcampo tra sé e lei, sempre in bilico tra proiezione immaginaria e creatura reale e autonoma. E questa perversione viene spinta fino a confondere i piani: è lei che è una proiezione del bisogno maschile di esorcizzare l'abisso o è piuttosto il soggetto maschile ad essere una proiezione del fantasma? Non si tratta più solo dell'incertezza del femminile come proiezione del maschile: è il soggetto maschile stesso che ha bisogno di rivedersi (il regista passa dunque davanti alla macchina da presa) per rassicurarsi sulla propria quanto mai incerta esistenza (incerta perché si è ciò che si crede, ma non si può controllare ciò che si crede).
Brisseau, insomma, si mette veramente e fino in fondo a nudo: la sua ossessione per l'abisso femminile, la sua oscillazione irresoluta tra un'intellettualità che dovrebbe esorcizzarlo e una fascinazione estetica ipersensuale per esso, non sono più lo strumento di una poetica, ma qualcosa che connota l'autore senza appartenergli, proprio come la sua pelle o il suo volto.

IXJANA
di Jozef e Michal Skolimowski

Polonia 2012, 98'

 

Bright Future

Marco Grosoli

30/30

In fondo, è tutta una questione di musica.
Sì, certo, c'è il solito canovaccio narrativo para-letterario per cui un giovane scrittore, Marek, reduce dal fragoroso successo del suo primo libro, vede la sua vita avvitarsi in un turbinio di doppi (l'amico Artur, forse traditore, forse morto per mano propria in un momento di oblio alcolico) e amori infelici (Marlena – forse una strega). La memoria vacilla, complice forse l'abuso di droghe e alcol in quella decisiva notte in cui il più importante editore polacco gli disse Sì. Il sovrannaturale è sempre dietro l'angolo: il Diavolo, nientemeno, potrebbe essere all'origine del calvario del protagonista, che non riesce a fare chiarezza neppure sul perché di un calvario dovrebbe trattarsi.
Prima inquadratura: Marek che trascina quello che appare il cadavere di Artur. Dopodiché, inutili tentativi di “gettare luce”, da parte di Marek (del quale udiamo sovente, fino alla fine, la “voce interiore” over), su quella notte cruciale. Niente da fare: la sua memoria recalcitra. Scartata come inaccessibile l'Origine, la Storia rovina di conseguenza: subito dopo il cartello “tre mesi prima”, anziché un resoconto su come sono andate le cose, abbiamo un incessante cancellarsi e riscriversi di Passato, Presente e Futuro, sulla scia di una deriva mentale che è meno “soggettiva” (ovvero “del soggetto Marek”) che sfumante in una nebulosa terra di nessuno in cui i desideri sono pericolosamente collettivi. Sì, è questo il vero inferno: che il proprio desiderio, che apparirebbe così ben padroneggiato da farlo stare in un Libro, in un best seller anzi, si confonda con il desiderio altrui. È questo, il vero inferno: Faust viene menzionato a ragione, nei dialoghi: ma di patti nemmeno l'ombra. Sarà stato il proprio doppio, forse, a stipularlo – o forse è uno solo degli innumerevoli vuoti di cui è fatta la memoria. Ma no: il Diavolo, è solo una consolazione, una maschera per non vedere come sia invece il Demonico (la proliferazione dei doppi) a essere ovunque, come e più dell'aria in cui galleggiamo.
Ma la musica, si diceva. Difficilissima a maneggiarsi, questa opacità narrativa non infastidisce affatto, ma affascina, e molto, perché smorza il luciferino complicarsi della storia in un mood giovialmente disperato, rilassato, rassegnato, non avaro di imprevedibili, amare parentesi umoristiche: praticamente, la stessa sostanza liquida e sonora degli arpeggi di chitarra elettrica spalmati un po dappertutto da Jozef Skolimowski (scomparso in India qualche mese fa, e che sarebbe giusto considerare co-regista anche se si fosse limitato esclusivamente a comporre le musiche). Tutta questione di mood, insomma – quel mood che la straordinaria fotografia, che dispensa a ogni cosa l'abbraccio dolce del Nero e della Notte ma spicca per l'uso antinaturalistico del Rosso e del Verde, contribuisce a concretizzare. È questo mood che fa di Ixjana un grande film – perché trascende il tessersi reciproco delle scritture, già di loro al di là dell'illusoria centralità del soggetto-protagonista, polverizzandole nella sensazione di abitare un incubo appiccicoso ma confortevolmente avvolgente. Un incubo per cui gli altrimenti pertinentissimi termini freudiani classici “condensazione” e “spostamento” finiscono per risultare inadeguati: rimandano inevitabilmente a uno stato solido della materia laddove quella che innerva
Ixjana sta a metà tra il liquido e il gassoso.

halley
di Sebastián Hofmann
Messico 2012, 85'

 

Hivos Tiger Awards Competition

Arnold Zwanenburg

29/30

Halley is the feature film debut of the Mexican artist Sebastián Hofmann and it makes a good chance in the Hivos Tiger Award Competition.
In this fllm we follow the ways of Alberto, a guy who has been dead for a while.
We follow him in his tidy apartment, in his bathroom where he carefully cellotapes his open wounds, where he perfumes his decomposing body. We don't see much happiness in his days until Lulu, the manager of the 24 hour gym where he works as a night guard, takes him out for a date.
Halley is a visual and sonic work of art. All shots are well balanced and beautifully lit. Somehow we can see the flickering of tube lights, we can hear the sound of flies in a jar, the humming of a fridge, creating a quiet sense of presence.
The movie is a close observation of a dead man in a living world. It's precise and aesthetic, sometimes provoking a wry smile. I must say that I did not feel much more than pity for this guy, whose only aspiration seems to be his self preservation. His emotion flatness is not out of place however, and it contrasts beautifully with the compassion of the living around him. Both a grim and wonderful experience.

ATAMBUA 39° CELSIUS
di Riri Riza
Indonesia 2012, 90'

 

Spectrum

Marco Grosoli

26/30

Anni dopo l'indipendenza riconosciuta a Timor Est, Ronaldo e il figlio, in esilio volontario altrove, sono visibilmente smarriti – per non dire allo sbando. Ronaldo guida gli autobus, ma viene licenziato per alcolismo. Più coscienzioso ma senza nessuno strumento a propria disposizione, e ossessionato dalla voce della madre (rimasta a Timor Est) registrata su un nastro ascoltato di continuo, il figlio tenta goffamente di legarsi a una ragazza alla quale, come a loro, l'indipendenza ha lasciato smarrimento e rescissione dei legami familiari (un nonno morto).
Atambua
è soprattutto la manifestazione dolente di un'impasse (l'indipendenza di Timor Est e relativi cascami). Il pulitissimo digitale “leggero” di Riza, che forse abbonda un po' in comunque indispensabili ricognizioni descrittive sui luoghi coinvolti, si concentra sul ristagnare di un'azione che nel presente è impossibile perché il passato, col suo peso, grava troppo. Poco o nulla avviene tra i tre personaggi, e quello che avviene finisce per allontanarli ulteriormente gli uni dagli altri. Si evita, così, il pericolo principale in cui questo progetto (ahinoi comunque troppo esile e poco spinto) poteva incorrere: quello di un facile ecumenismo per cui “le nazioni dividono, ma la gente ha bisogno di restare unita”. Proposito indispensabile eppure troppo semplicistico, al quale effettivamente perviene Ronaldo verso la fine calmando i propri bollori nazionalistici, ma solo, appunto, in forma di proposito: in forma di lettera sonora al figlio (come già la madre tempo prima). È vero che l'approdo alla terra natale, e la riconciliazione del figlio con la madre, in ultima analisi avvengono, e con quella lettera come sottofondo - ma Riza, giustamente, resta solo pochi secondi sul ricongiungimento, staccando subito su un Ronaldo non meno smarrito che quando era in esilio: in modo, insomma, da sottolineare questa ripresa di contatto come un'utopia invece che come una facile consolazione. Anche perché (e questo sugli occhi dello spettatore “pesa” ben più di ogni facile risoluzione) il figlio di Ronaldo si scontra con gli effetti controproducenti delle proprie buone intenzioni: la ragazza a cui è interessato finisce per occupare, in parte per causa sua, il posto di “vittima” lontana che fu già, esattamente, quello di sua madre. Modo di far quadrare i conti che “sa” un po troppo di sceneggiatura; Riza, ad ogni modo, nel complesso ne esce onorevolmente, con un'opera probabilmente esile ma da cui trapela (anche grazie al suo sbilanciarsi volonteroso sui luoghi in questione) quanto basta dello smarrimento che il difficilmente solubile nodo geopolitico di riferimento porta con sé.

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international film festival

Rotterdam, 23 gennaio / 03 febbraio 2013