international film festival
40.ma edizione

Rotterdam, 26 gennaio / 06 gennaio 2011

 

di  Marco GROSOLI

> ETERNITY di Sivaroj Kongsakul

> FLYING FISH di Sanjeewa Pushpakumara

> aità di Jose Maria de Orbe

> pure asia di Katashima Ikki

> truce di Svetlana Proskurina

> BLEak night di Yoon Sung-Hyun

> SODANKYLA FOREVER di Peter von Bagh

> genpin di Naomi Kawase

 

flying fish
di Sanjeewa Pushpakumara
Sri Lanka 2010, 125'

 

Concorso

28/30

Da un film dello Sri Lanka è quello che il mercato (festivaliero) si aspetta: l’annoso conflitto tra Tamil e Singalesi. Non che la guerra civile sia al centro della trama: è situata piuttosto alla periferia della narrazione, ma da quei margini preme in maniera fortissima su tutta la storia. Le due parti in causa hanno il modo di infilarsi tra le pieghe del racconto e di illustrare le rispettive ragioni: ma non ci sono vincitori, solo vinti. Vengono in mente senz’altro i due film finora realizzati da Vimukhti Jayasundara (Forsaken Land e Between Two Worlds), in cui la spinosa situazione politica è filtrata da un sorvegliatissimo dispositivo figurativo ai limiti dell’immobilità pittorica.
Cominciano i “quadri”, e si accumulano personaggi e situazioni di cui fatichiamo a cogliere l’aggancio e la rilevanza narrativa. Quello che è certo è che paesaggio, uomini, linee e colori entrano ad ogni momento in una magnifica, reciproca risonanza grafico-visuale, e tutto ci viene disposto davanti agli occhi srotolandosi con lenta metodicità (e quasi senza parole). “Qualcosa” accade (prendendosi tutto il suo ieratico tempo) in ogni scena, ma il disegno generale ci sfugge. Man mano che questi splendidi “dipinti su pellicola” si susseguono (spesso accompagnati da movimenti di macchina che completano e arricchiscono la composizione), le nebbie si diradano. Alcuni personaggi ritornano più spesso, e capiamo che è su di loro che il film si concentra. Due innamorati sconvolti da una gravidanza improvvisa (e spiati dal padre), un giovane (con madre adultera) che si arruola nelle truppe locali, un impiegato obbligato a versare il proprio contributo in denaro ai militari… Gli eventi e le situazioni cominciano a ripetersi. Ma il film non potrebbe essere più lontano dall’architettare simmetrie e compiacimenti strutturali fini a se stessi: se molti avvenimenti (non tutti!) ritornano due volte è perché quel luogo geografico (alla cui superficie visiva Sanjeewa Pushpakumara è così attento) è preso in un infernale e violento circolo vizioso che sembra ritornare eternamente sulla propria impasse. E infatti, la materia narrativa fa appena in tempo a chiarirsi definitivamente che sprofonda inesorabile nell’indifferenziato del conflitto distruttivo per tutti e per tutto.
Quasi per tutti. Perché c’è chi si salva. E i pochissimi che si salvano stanno, nell’ultima scena, nello stesso autobus che ha aperto il film… solo che questa volta il mezzo è vuoto, e anzi al volante non c’è nessuno. Perché proprio quei due si siano salvati in mezzo alla catastrofe generale, rimane sostanzialmente un enigma. Ma in fondo tutto Flying Fish è così: isolando di volta in volta con molta nitidezza singoli particolari che sembrano “sporgersi” ai bordi della narrazione (un uomo che uccide con una sigaretta le formiche che gli corrono sui polpacci, una bambina che scuote una penna che non scrive più), non solo trasforma ognuno di essi in piccoli enigmi, ma fa trascolorare fluidamente tutto il racconto dal realismo al fantastico (o al simbolico). Da veicolo ordinario che era all’inizio, all’altro capo del film l’autobus si scopre simbolo.
Un simbolo enigmatico ma non arbitrario, né impenetrabile. A guardar bene, una ragione perché siano stati proprio “quei” due a salvarsi c’è. Di tutta la varia umanità presentataci da Flying Fish, solo loro due hanno “attraversato” il conflitto sulla loro pelle, fino a ritrovarsi “al di là” di esso. Lo hanno “scontato”, insomma. Ed è quello che anche Sanjeewa Pushpakumara chiede di fare allo spettatore – per quanto solo nella forma “soft” di un racconto filmico incessantemente scosso da piccoli e grandi (e ce ne sono di davvero insostenibili, specie verso il finale) traumi visuali che increspano la superficie di un luogo maledetto e meraviglioso, che non può diventare impunemente ed esclusivamente una tela. Ha un bel dire il bonzo alla ragazza appena lasciata dal fidanzato che anche Buddha aveva dovuto abbandonare l’amata: lei non ci sta e non sente ragioni. Ugualmente, l’estasi pittorica di Flying Fish non è affatto questione di distacco virtuoso dal mondo, di contemplazione rassegnata, passiva o estetizzante, ma della turbolenza che giace appena sotto, e dei tentativi di reazione ad essa.

SODANKYLA FOREVER
di  Peter von Bagh
Finlandia 2010, 270'

 

Signals

28/30

Al termine di queste quattro ore e mezza di montaggi di interviste a registi tenutesi nel festival finlandese di Sodankyla, la domanda nasce spontanea. Perché siamo ancora qui? Perché non ce ne siamo andati o abbiamo cambiato canale o abbiamo chiuso il dvd o il file punto-avi? Perché non ci siamo mai annoiati? Troppo facile rispondere con “perché i vari Forman, Fuller, Jancso, Sollima, Passer, Skolimowski, Sautet e mille altri dicono tutti cose interessantissime”. No. È senz’altro vero, ma c’è di più.

Questo film tocca una corda, un nervo scoperto del cinema mondiale e di come si possa pensare il cinema oggi. A guardarlo più da vicino, questo documentario si oppone in tutto e per tutto alle Histoire(s) du cinéma di Jean-Luc Godard, punto per punto. Per l’ex critico francese come per il critico finlandese, è soprattutto una questione di montaggio. Ma mentre Godard (ri)crea il cinema come definitivo spazio privo di luogo, tela infinita in cui tutti i possibili frammenti si azzuffano e accapigliano e ricompongono tra loro, von Bagh riscopre la centralità del luogo: il cinema intero (nella forma di un serratissimo dialogo a distanza tra cineasti intervistati nelle varie edizioni del festival, e ricuciti secondo azzeccatissimi principi meccanici di analogia) è risucchiato nell’ultraspecifica cittadina lappone di Sodankyla. Un telone da circo vicino all’artico, lontanissimo sia da Parigi che dalla mania cinefila di istituzionalizzazione della sala cinematografica.

Entrambi sanno, ejzenstejnianamente, che montaggio = conflitto. Tant’è che von Bagh comincia con un’ora quasi interamente dedicata al topos della guerra. Ma è per mettere in campo con chiarezza la disparità di intenti: von Bagh insiste caparbiamente sul legame indistruttibile di controversa specularità che lega il cinema alla Storia (esse rigorosamente maiuscola) che le fa da alveo. Quel legame di cui Godard ostenta l’irreversibile rottura: tutte le sue Histoire(s) si fondano sul momento decisivo in cui il cinema si rese colpevole del fallimento della testimonianza di ciò che stava accadendo proprio negli anni del suo massimo apogeo: Auschwitz. Per von Bagh prima si parla del mondo, e poi si parla del cinema. Per Godard, il fatto che il loro legame venga meno significa innanzitutto che l’uno e l’altro si sono resi indistinguibili.

Per von Bagh no: la distinzione permane. E allora, dopo aver fatto parlare i suoi registi del mondo, e poi del cinema, si potrà finalmente parlare estensivamente dell’artefice, dell’autore. Ma anche qui, Godard è clamorosamente e significativamente assente (fatta salva una breve menzione marginalissima): tutti gli esponenti della Nouvelle Vague sono citati, ma soprattutto in quanto critici, ovvero in quanto inventori della “politica degli autori” comparsa negli anni Cinquanta sui “Cahiers du Cinéma”. Perché von Bagh prova ambiziosamente a riscrivere e riconsiderare innanzitutto il ruolo dell’autore al cinema. Anima del festival di Sodankyla, il finlandese fa scorrere sullo schermo per quattro ore e mezzo autori che parlano, anziché, come Godard, trattarli alla stregua di pezzetti di un unico gigantesco collage che li vede non più distinti dalle immagini che loro stessi hanno forgiato, o da chissà quale altra rovina della società dello spettacolo. L’autore è insomma rivisto e rivisitato come potenza attivamente genetica, luogo  concreto della produzione delle immagini e non frammento di un unico spazio smisurato e estendentesi all’infinito come per Godard.

Perché, quindi, questo ambizioso (quanto probabilmente non intenzionale) capovolgimento? Probabilmente, perché la cinefilia che mondialmente sta affacciandosi sulle scene (leggi: nei festival sparsi in ogni parte del globo, e non certo nelle sale urbane residue) è definitivamente altra rispetto a quella di Godard e soci. Il film di von Bagh è una preziosa testimonianza di questo passaggio, ovvero dell’avvento di una generazione che ha fretta di sbarazzarsi del postmoderno per tornare a una co-implicazione “sana” cinema-stile-Storia, e che nella fretta rischia di buttare via insieme all’acqua sporca anche il bambino-Godard. Miopia? Avventatezza? Forse. Ma un rischio non è qualcosa di necessariamente sbagliato: è qualcosa che molto spesso vale la pena di essere corso, per crescere e maturare una consapevolezza nuova.

pure asia
di Katashima Ikki
Giappone 2009, 108'

 

Spectrum

27/30

Un giovane nerd si imbatte in una giovane coreana che prima lo salva dalle aggressioni di qualche bulletto di periferia, e poi ne finisce uccisa. Ma lei ha una sorella gemella. Insieme, decidono di vendicarsi della società spingendosi fino al terrorismo e oltre. Siamo negli anni di poco seguenti l’undici settembre, quando la Corea del Nord teneva in ostaggio alcuni giapponesi destabilizzando l’opinione pubblica nipponica e spingendola in parte verso il nazionalismo xenofobo. Di conseguenza il dilemma del protagonista (che vuole vendicare la morte di un’innocente di cui lui stesso e la sua codardia sono i primi responsabili) è lo stesso del suo carattere nazionale, stritolato tra una proverbiale, passiva remissività e l’essere pronti a qualsiasi efferatezza se è il medesimo senso del Dovere a dettarlo. Come uscire da questo circolo vizioso? Il mondo intero, in quegli anni alle prese con il terrorismo largamente previsto e determinato dal sistema istituzionale stesso, doveva fronteggiare un analogo cane che si morde la coda.
Si può prendere il regista forse meno accademizzabile del mondo, Koji Wakamatsu, e farne un diligente centone? Si può prelevare la furia politica che negli anni sessanta popolava i suoi film e trapiantarla di peso nel post undici settembre? A guardare questo film, curiosamente, sembrerebbe proprio di sì. Anche perché contiene pure un’inattesa comparsata di Wakamatsu in persona a “benedire” il progetto in questo senso. Katashima sembra padroneggiare abbastanza bene i segreti del Maestro: sa che non si tratta di sbrodolare sperimentalismi formali, ma di ficcarsi nelle inconsistenze del racconto, nel consistere “bovino” e passivo della situazione in tutta la sua contraddizione. Perciò, tiene al minimo le acrobazie della cinepresa (anche se qui e là ci casca) e si limita a seguire i due protagonisti nel vicolo cieco in cui hanno scelto di ficcarsi, cambiando continuamente punto di vista su di loro e sulla loro impossibilità di agire, quasi a suggerire che non si sa bene come poterli guardare e che questo è il dato centrale da ritenere. Un peregrinare smarrito di assurdità in assurdità (il leader nazionalista che durante un comizio si strappa un occhio, il quale continua a vedere in soggettiva per conto suo; un giovane bombarolo che prima di avvelenare col gas i genitori middle class mette fuori di casa il cagnolino…), la cui carica politica è tutta in questa loro inconciliabilità rispetto al senso comune. Solo a tratti si cade nei pigri obblighi della sceneggiatura, nel far vedere che è maturato il personaggio, nelle esigenze di spiazzamento meccanico e pavloviano dello spettatore (i capovolgimenti di prospettiva proprio là dove ce li si aspetterebbe)… E questo fa calare un po’ il sospetto che la libertà stilistica sia un po’ un’etichetta che tutto sommato conviene esibire. Per il resto, è un discreto esercizio di radicalità: c’è più di una traccia dello sguardo di Wakamatsu, di quel concepire ogni inquadratura, ogni gesto, ogni azione e soprattutto ogni inazione, come una impossibilità che cammina, mostruosa eppure normale come l’aria che si respira.

eternity
di Sivaroj Kongsakul
Tailandia 2010, 116'

 

Concorso

27/30

Non è certo la prima volta: appena fa il botto nei festival un’opera che viene da paesi non troppo esposti sul mercato internazionale, fioccano gli epigoni. È infatti inevitabile, guardando questo Eternity, pensare a Apichatpong Weerasethekul. I ritmi, gli scenari rurali/boschivi, l’afflato contemplativo, l’equilibrio compositivo dell’inquadratura: quasi tutto fa pensare alla palma d’oro 2010.
Fortunatamente, però, questo esordio alla regia (giustamente premiato) è capacissimo di camminare con le proprie gambe. Già dai primi minuti, è tutto un campo lungo e un calmo attraversare spazi aperti ed ariosi. A percorrerli, è un uomo che visita una magione disabitata con fare evidentemente commosso. Quando intraprende una rilassata gita in barca, un pianosequenza ci fa sobbalzare: fluidamente, quelle stesse acque vedono navigare lì accanto un’altra imbarcazione, in cui il protagonista si trova, ringiovanito di qualche anno, in compagnia di un’avvenente fanciulla. Per quasi tutto il film, assistiamo al dolce idillio tra i due nella casa di campagna della famiglia di lui (lei viene dalla città) e dintorni. Se da un lato questa serenità campestre, che traspira da interminabili inquadrature (spesso fisse) che lasciano assorti e incantati dall’osservazione di una vita che segue altri tempi, può ricordare Weerasethekul, in realtà nel complesso il progetto differisce sostanzialmente.
La differenza consiste soprattutto nel fatto che il “respiro” ricercato da questa maniera “distesa” di girare persegue l’impressione di, per così dire, “nuotare nella corrente”. In altre parole, cerca di suggerire una temporalità continua, fluida: i due giovani amanti, infatti, si crogiolano non solo nella felicità presente, ma anche in mille fiduciosi progetti per il futuro. Il quale è lì: basta solo galleggiare nel presente per arrivarci. La temporalità a cui si affida Weerasethekul è fondamentalmente diversa: è la pausa (Blissfully Yours), la spaccatura che frange ogni singolo istante nel tempo (Lo zio Boonmee), la concatenazione irregolare (Mysterious Object at Noon).
Peccato che, di punto in bianco (e tra capo e collo) arrivano ellissi vertiginose che sconfessano questa illusione di continuità. Gli equilibri perfetti (e immobili) dell’inquadratura fanno passare minuti che sembrano ore, ma all’improvviso in un secondo passano anni, forse decenni. Di colpo, c’è solo lei con il figlio: lui è morto chissà quando, “dentro” l’ellissi scavata dal racconto. E allora capiamo che l’uomo dell’inizio era un fantasma dal futuro nel tempo “allora presente”, e non era la coppia di naviganti innamorati a essere un suo flashback.
Insomma: tutta quest’enfasi stilistica verso il tempo che scorre (e l’acqua è non a caso uno dei personaggi principali e che più frequentemente occupano lo schermo) è funzionale alla propria “non-traumatica” negazione, nel senso che se è vero che ci accorgiamo immancabilmente di una frattura, ce ne rendiamo conto solo post festum. Capiamo a posteriori che rottura c’è stata, ma non ci è dato sapere né quando né come. Il tempo, intanto, continua a passare…
E quindi, naturalmente, anche la morte viene fatta passare per illusione. Come il tempo, il quale è prerogativa solo di ciò che dal tempo sta fuori. In Eternity, con nostro sommo disorientamento, i fantasmi invecchiano.

genpin
di Naomi Kawase
Giappone 2010, 92'

 

Return of the Tiger

27/30

Dopo il disastroso Nanayomachi girato in Tailandia, Naomi Kawase torna su territori conosciuti e saldi: un documentario su un centro dove si pratica (su di un tatami tenuto alla stessa temperatura e tasso di umidità del corpo della madre etc.) il parto “naturale”.
Le virgolette in questo caso stanno soprattutto a stigmatizzare qualsiasi banalità “New Age” che possa attecchire su un aggettivo del genere. Nessun rischio di caduta o degenerazione nel misticismo panteista di grana grossa. Nessuna facile comunione col mondo e i suoi ritmi tramite il parto. Yoshimura (il titolare della clinica), su cosa voglia dire “naturale” è molto secco e non ammette compiacimenti: naturale vuol dire che il bambino può anche morire (con le sue pratiche è statisticamente meno difficile che accada), e la cosa deve essere tranquillamente accettata dalla madre come una delle variabili possibili. Come sempre, perciò, la Kawase si sofferma sull’abbraccio tenero ma sinistro tra la presenza fisica del mondo e l’assenza in agguato. È l’incertezza costituiva di questa commistione che fa letteralmente tremare (ugualmente di gioia e di spavento) la sua videocamera nel suo avvicinarsi al mondo e alle cose. E a tremare non è solo la cinepresa, gettata a contatto con la fisicità misteriosa di tutto ciò che ha un’estensione, ma anche la struttura stessa del documentario. Genpin è un film rigoglioso: accumula a cascata interviste alle future madri o a donne che hanno avuto simili esperienze, riprese degli esercizi fisici (flessioni, legna da spaccare) gomito a gomito con le pazienti che così si preparano al lieto evento, tranche de vie di grazia inattesa, captazioni della natura… Insomma: sembra che la Kawase abbia voluto avvicinarsi alla potenza del “mettere al mondo” enfatizzando il carattere debordante, fluviale della creazione artistica. Ma non ci si lascia trascinare impunemente da un fiume in piena: la Kawase non bara con i ritmi e le risonanze, e non fa nulla per nascondere il carattere sottilmente inquietante e costantemente spiazzante di questo accumulo: l’imprevedibilità di quello che vedremo un secondo dopo toglie lo spettatore da qualsiasi facile agio e non lo lascia cullare nell’illusione di essere “a contatto con la natura”. Tant’è che la parentesi sbrigativa in cui ci si mostra il ritorno dell’uomo di una delle pazienti (in precedenza scappato da lei per paura delle responsabilità), proprio nel punto in cui meno ce lo saremmo aspettati, ci dà più disorientamento che sollievo, ancor più di quando la donna ci aveva in precedenza comunicato piangendo il suo dolore.
Naomi Kawase si fa prendere dalla corrente, dalle vibrazioni del mondo fisico, fino a sbattere contro le incrinature. Perciò resiste alla troppo facile tentazione di concludere il suo film con un parto in diretta (come nel meraviglioso Shara): di parti ce ne sono tre o quattro (anche alla fine, certo), ma in ognuno di questi casi il sul sguardo è sempre “laterale”, consapevole di non poter essere al cuore di un avvenimento di cui pure si sente il contatto fisico e quasi il calore che ne emana. Per questo, in una di quelle occorrenze, non si concentra frontalmente sulla partoriente, ma sul neo-fratellino che visibilmente non sa ancora bene cosa pensare.
La più vistosa di queste incrinature è lei stessa: mano a mano che il film si concentra sempre di più su Yoshimura (meno quindi sulla potenza generativa della natura – le madri – che sulle sue falle e sulla consapevolezza dei suoi punti oscuri), lui chiama in causa sempre più direttamente la regista. “A un certo punto ti dovrai pur chiedere perché stai a fare un film su di un vecchio pazzo”… E così la Kawase entra sempre più in scena, meno levatrice che guardiana e testimone della duplicità inseparabilmente positiva e negativa (presenza e assenza di pari passo) della cosa più naturale che ci sia al mondo eppure mai abbastanza naturale. La presunta fluidità infinita del ciclo vita-morte sbatte contro un ostacolo che non è possibile superare: il nostro proprio sguardo.

bleak night
di Yoon Sung-Hyun
Corea del Sud 2010, 116'

 

Concorso

27/30

Come vuole il luogo comune, il tessuto sociale coreano è pervaso da un machismo insinuante e pressoché onnipresente. Lo confermerebbero numerosi film che vengono dalla penisola; prevedibilmente, il cameratismo maschile negli anni del liceo è un’ottima cartina di tornasole di questo tipo di dinamiche, e il cinema ne tiene abbondantemente conto.
Bleak Night (indagine di un padre sul suicidio del figlio maturando molto lontano da qualunque sospetto, mediante una costruzione a flashback che spiazza sistematicamente le attese) ne è un esempio piuttosto impressionante, per molte ragioni. La più evidente, è la rimarchevole attendibilità della ricostruzione del microcosmo scolastico, anche grazie a un ottimo e affiatatissimo gruppo di giovani attori. A stupire, però, è soprattutto la solidità marmorea che dimostra questo regista alla sua primissima prova nel lungometraggio (si tratta addirittura del suo saggio finale per il diploma della scuola di cinema!). Per quanto al centro ci siano i caratteri (l’orfano Ki-Tae con la sua fragilità appena nascosta dietro una scorza posticcia, schiacciato dalla morsa delle personalità opposte dei suoi due migliori amici, uno “duro” e l’altro remissivo), essi emergono fondamentalmente dall’azione, ovvero da una conflittualità colta sempre nel punto della sua massima incandescenza, anche grazie a una macchina a mano concentratissima sugli interpreti – salvo in quelle occasioni in cui si tratta di rendere conto di un ambiente urbano di un grigiore che taglia le gambe.
La tensione, quindi, è corposa e incessante; non può, però, essere sostenuta uniformemente dall’inizio alla fine, pena il suo ribaltarsi in piattezza. E così, non appena si fa chiaro che Ki-Tae è incapace di giocare al gioco di quel microcosmo, perché aderisce troppo intimamente alla sua regola principale (leggi: la contraddittoria mistura di affetto e aggressività tra i suoi membri) fino a violare gli spazi altrui e a scottarsi lui stesso, il film vira bruscamente. L’indagine non è più nelle mani nel padre: sono i suoi due ex amici a sostituirlo, perché hanno capito che la morte non è un ostacolo attendibile. Ki-Tae è letteralmente il “limite” delle loro stesse personalità, per così dire il loro bordo estremo. E quindi il rapporto con lui non può che continuare anche dopo la morte, in forma di fantasma.
Che a un certo punto Ki-Tae ritorni in forma di fantasma, non è casuale. Perché il film insiste così testardamente a tendere i contrasti fino al loro punto limite, che finisce per raggiungere un grado quasi allarmante di astrattezza. I rapporti tra i personaggi si fanno sempre più “scrittura”, diventano sempre più l’estrinsecazione vivente del nucleo conflittuale alla loro base. E dunque le situazioni trapassano impercettibilmente nel proprio fantasma. E di questo fantasma non ci si libera. Bleak Night insomma consegna gli ingranaggi “micro-sociali”, apparentemente così ben oliati, dell’amicizia maschile a quella guerra infinita che non possono non essere. Il lavoro del lutto delle proprie ragioni, è infinito.

aità
di Jose Maria de Orbe
Spagna 2010, 85'

 

Bright Future

27/30

Un film coraggiosamente e esplicitamente bachelardiano, interamente votato a una “poetica dello spazio”. Lo spazio in questione è una vecchia casa basca ormai disabitata, e quasi in rovina. Un uomo, giorno dopo giorno, tenta pazientemente di risistemarla. Un amico prete, di tanto in tanto, viene a trovarlo, ed è l’occasione che il film si dà per buttare lì quelle tre-quattro battute chiave che impostano il disegno generale: “la Storia è lenta e la vita è veloce”, “una volta durante un funerale un morto si è alzato dalla bara mettendosi seduto”… In altre parole: quella casa è fatta di strati temporali che si sovrappongono, e che se ci prendiamo la briga di esplorare possono rivelarci autentici tesori. Il passato non smette mai di pulsare dentro il presente: è per questo che sui muri, sui mobili e sulle stanze De Orbe si permette (giustamente) di proiettare di tanto in tanto vecchie pellicole che complicano e moltiplicano la (già in partenza robusta) stratificazione dei luoghi.
Anche perché la profondità “geologica” scoperta dentro ogni momento che chiameremmo “presente”, ha a che vedere soprattutto con la luce. Jimmy Gimferrer, già operatore dello splendido El cant dels ocells di Albert Serra, gioca con le fonti luminose e conduce con esse una progressiva e graduale scoperta dello spazio. Le stanze e i corridoi dell’edificio (che naturalmente non viene mai inquadrato “tutto intero”: al massimo se ne adocchia la facciata comunque parzialmente coperta), grazie all’acume fotografico di Gimferrer e de Orbe, diventa un tessuto poroso, un labirinto che non smette mai di sorprenderci, e che nasconde sempre una porta, una luce improvvisa, un misterioso anfratto di buio, un’apertura che porta a chissà dove. È impossibile tracciare una mappa della villa a partire dalle immagini di Aità, perché regista e operatore lavorano al continuo disorientamento dello spettatore, e quindi alla sua continua meraviglia. Lo spazio ristretto della casa diventa così letteralmente infinito, sempre carico di vibrazioni visuali.
Un cerchio bianco in mezzo allo schermo nero. È la luna? No, è l’alba. Perché man mano che la luce cresce, scopriamo palmo a palmo ed una per una le fattezze di una antica finestra circolare. Se perdoniamo ad Aità una certa rigidità di costruzione (e il fatto che non sappia bene quale finale darsi e come concludere), ci troviamo davanti a una piacevole sorpresa, a un labirinto in cui immergersi con gli occhi e con le orecchie (le quali, dice il prete, sono le ultime che smettono di mandare segnali al cervello anche dopo la morte di quest’ultimo). Quello dell’udito è il sottotesto più originale del film: il protagonista, spesso, si ferma ad ascoltare inni sacri che vengono cantati in una stanza che non vediamo mai. Perché, si sa, la luce non si vede, e quindi la si può solo devotamente ascoltare.

truce
di Svetlana Proskurina
Russia 2010, 95'

 

Spectrum

27/30

Un oggetto difficilmente maneggiabile. Un film ondivago, orizzontale, che segue un giovane indolente nelle sue peregrinazioni nella campagna russa, a bordo di un camion. Qualsiasi evento, persino casi di violenza carnale, cadute da impalcature o brutali estorsioni, sembrano spegnersi e affievolirsi in un silenzio ovattato, indifferente. Incontro bizzarro dopo incontro bizzarro, tutto sembra svolgersi sul filo tenue della gratuità. A un certo punto pare che il giovane (una specie di Jake Gyllenhaal che viene dal freddo) voglia trovare da sposarsi, ma non sembra mai tenerci troppo. Sembra che la Proskurina voglia (e riesca a) livellare qualunque cosa in una piattezza senza eguali, per poi perdersi a contemplare i sussulti cutanei, i micromovimenti degli attori, le dolcezze del paesaggio, e qualsiasi cosa si faccia segnale epidermico di un’interiorità localizzata chissà poi dove, e comunque non identificabile. Non a caso, il protagonista a un certo punto viene fulminato dall’elettricità, e poco dopo torna a prendere vita: proprio in quel momento, sullo schermo passa una sfilata di momenti anodini e di appena percettibile fotogenia sepolti nel film passato fino a quel momento (un sorriso, un’alba, un brandello di pelle nuda…). Prima si falcia via tutto, e poi si collezionano le piccolissime scosse che rimangono.
Le sue immagini hanno una strana bellezza mai invadente, come fuori fuoco (ma non “tecnicamente” ed effettivamente fuori fuoco o flou o sfumata come in Alexander Sokurov, col quale non per niente ha collaborato), un torpore che non si sa bene come prendere. Hanno come una viscosità che le rende torbide, sonnolente, sonnambule quasi, e a questo contribuisce sicuramente anche il tappeto di dialoghi che scivola via imperturbato senza per forza doversi far ricordare: il suono è più importante, ed è importante che accarezzi come e più delle immagini.
Quella della Proskurina è insomma una cinepresa letteralmente ipersensibile. La sua abilità visiva è molto sottile, soffice quasi, agisce col silenziatore e con molta discrezione. Al punto che lo spettatore rischia di mancarla, di non accorgersene, di peccare di (ammissibile) insufficienza di sensibilità.

SITO UFFICIALE

 

international film festival
40.ma edizione

Rotterdam, 26 gennaio / 06 febbraio 2011