38.mo festival di rotterdam
Rotterdam, 23 Gennaio - 01 Febbraio 2009

 

di  Marco GROSOLI

gran torino

di Clint Eastwood

Stati Uniti 2008, 116’

 

Film sorpresa

Che ci sia un “cuore nero” nel “Cacciatore bianco” Clint Eastwood è, financo, un’ovvietà. Però bisogna stare attenti a dove si crede di trovarlo. Probabilmente, non è solamente questione del paradosso del giustiziere (Dirty Harry e quant’altro), che combatte la violenza con la violenza. Il vero cuore nero Eastwood lo tira fuori quando fa ridere. Quando abbozza una autocaricatura che non può essere una caricatura; non perché sia qualcosa di intoccabile, ma al contrario perché conscio che la demistificazione non si libera del mito, ma lo rinsalda. E allora non si può che stare con due piedi su due staffe diverse. Il vero cuore nero di Eastwood è Bronco Billy. Il vero cuore nero di Bronco Billy, in particolare, è la scena dell’assalto al treno: scena che non si riesce letteralmente a maneggiare, a collocare. Una rivisitazione ludica del Western che fu? Una scampagnata di allegri nostalgici di cavalli e praterie? Sì, ma non solo. Quello era anche un “vero” assalto al treno.
Inevitabile, allora, che quando Eastwood si trova a fare un film così esplicitamente testamentario come questo ricorra a dosi massicce di umorismo. Il suo Walt Kowalski è un vecchio reduce della guerra di Corea (come Eastwood, del resto), burbero e insopportabile che dopo la morte della moglie non ha altra cura che la manutenzione perfetta della sua casa e del suo massimo orgoglio personale (dato che il figlio,invece, è un perfetto esemplare di mediocrità): l’auto sportiva “Gran Torino” nel suo garage. Chi osa varcare il perimetro del suo giardino, si ritrova un fucile puntato addosso. Il caso vuole, però, che i suoi vicini di casa siano esponenti dell’oscura etnia Hmong, una popolazione cinese variamente minacciata e diasporica nel corso dei secoli (l’ultimo soprattutto). Trovatosi a difendere un paio di volte i suoi vicini di casa da alcuni violenti bulletti del quartiere, Walt diventa per loro una sorta di eroe suo malgrado: lo chiamano a cena, gli fanno conoscere l’impenetrabile nonna (che sputa e se ne sta guardinga sulla veranda come fosse una perfetta immagine speculare di Walt)… E soprattutto, conosce a casa loro Thao, giovane timido e perciò oppresso dai violenti bulletti del quartiere.
Inizia così, per il vecchio reduce ormai condannato dalle analisi mediche, una sorta di paternità tardiva, attraverso cui prenderà Thao sotto la sua ala, gli farà trovare un lavoro, lo spingerà a corteggiare una ragazza… Ma non gli insegnerà a difendersi. Anzi, quando la sua ragazza verrà pestata dai bulletti, lui vorrà reagire ma sarà Walt a fermarlo. Sarà il vecchio che esaspera la propria aggressività fino a cristallizzarla e disattivarla in immagine (Walt spesso fa il gesto di estrarre dalla tasca una pistola solo per poi puntare all’interlocutore due dita messe a L rovesciata) a sacrificarsi facendosi mitragliare dai bulletti affinché questi vengano poi arrestati dalla polizia; sarà lui a permettere a Thao di non sporcarsi le mani come lui ha dovuto fare in Corea.
Ma proprio qui sta il punto. Walt decide di creare a sua immagine e somiglianza qualcuno che è già come lui (magari per fuggire dalla simmetria preoccupante che lo coglie quando guarda la vecchia Hmong sulla veranda…). L’affinità scontrosa ma elettiva tra Walt e Thao è innescata dal fatto che Walt non può non vedere nel ragazzetto che tenta di rubargli la macchina perché costretto dai bulletti se stesso obbligato ad uccidere in Corea e messo davanti alla necessità morale di rivendicare per tutta la vita un gesto che non gli appartiene: un uomo non solo non può negare quello che fa, ma non lo vuole neppure. Walt non può non vedere in Thao quello sradicato che lui stesso è (come l’ultimo Ford de “Il grande sentiero” non poteva più non dirsi indiano). E fare del ragazzo un altro se stesso vuole dunque dire renderlo se stesso, almeno quanto farsi mitragliare per aver tirato fuori dalla tasca un accendino (quello, appunto, col simbolo del primo cavalleria in cui militava in Corea) al posto di una pistola vuol dire riconquistare ciò che si è sempre stati, ovvero qualcuno che, come dice il prete che assilla ma anche consiglia Walt, conosce la morte molto più della vita.
Eastwood insomma indovina la quadratura del cerchio che permette all’asse maschio-soldato-padre di morire, di venire sacrificata, senza che questa risorga in maniera “veterotestamentaria” per vendicarsi e per perpetuare il circolo infinito di violenza, ma per risorgere in maniera “neotestamentaria” in forma disattivata, cioè come immagine. Questa quadratura del cerchio consiste nel fare la caricatura di se stesso (e quindi dell’asse maschio-soldato-padre) senza smettere di essere se stesso: una caricatura innocua ma attiva. Come due dita che puntate al posto di una pistola spaventano l’avversario; il quale, in un modo o nell’altro, davanti a un gesto del genere non può non dirsi disarmato.
Andare in fondo all’inconsistenza della figura paterna per scoprire che è proprio venire a contatto questa inconsistenza che fa diventare grandi. È ciò che sta al centro della magnifica scena dal barbiere (che tra qualche anno qualcuno ricorderà come oggi viene ricordata la scena del finto/vero assalto al treno di Bronco Billy). Quando Walt porta Thao dal barbiere a fargli vedere “com’è che gli uomini parlano tra loro”, Walt e il barbiere si affrontano a suon di virili e aggressivo-amichevoli schermaglie verbali; quando poi Walt dice a Thao di uscire dalla porta, entrare e parlare al barbiere “da uomo”, lui gli ripete le esatte parole usate da Walt col risultato che il barbiere gli punta un fucile in fronte. Ma poi, subito dopo, ri-esce dalla porta, rientra e improvvisa un’altra raffica di virili schermaglie verbali, e stavolta funziona. Imitare qualcuno/qualcosa è impossibile, si può solo esserlo: ma è proprio scontrandosi con questa impossibilità che si arriva ad esserlo. Walt sarà per sempre il solo vero padre di Thao (e viceversa lui sarà il suo solo vero figlio) perché non spinge Thao a diventare Walt (ciò che condurrebbe Thao agli stessi errori, alle stesse violenze e le stesse debolezze che ormai Walt può ripagare solo con la vita), ma perché spinge Thao verso ciò cui non è possibile aderire: la sua immagine. Questo il senso della “transustanziazione” di Clint/Walt in immagine, in caricatura che non smette di funzionare perché perfettamente simbiotica con l’aria classica di GRAN TORINO.

"I’ve been called in many ways, but never ‘funny’”: Clint/Walt dixit.

A CLIMATE FOR CRIME

di Adoor Gopalakrishnan

India 2008, 115’

 

Spectrum

Ancora in attesa che l’occidente (dopo l’omaggio di Pesaro di qualche anno fa) lo (ri)scopra adeguatamente, il grandissimo Adoor Gopalakrishnan firma, dopo Four Women un altro film a episodi. Qui, il trait d’union delle varie storie (ambientate tutte nel Kerala negli anni della seconda guerra mondiale) è il crimine “proprio malgrado”, quello cui si è obbligati a ricorrere spinti da un humus sociale troppo incline alla povertà e alla sopraffazione.
Un ladro che il vicinato bandisce spingendolo di fatto a rubare ancora; un poveraccio che finisce in galera un po’ per caso un per la corruzione della polizia locale; un uomo che deve convincere la servetta che ha messo incinta ad abortire clandestinamente per salvare le apparenze; un “delitto d’onore” in cui aggressore ed aggredito finiranno ugualmente gabbati dalla donna infedele.
Se mai si può parlare di una regia lucida, quello è il caso di Gopalakrishnan. Le vicende si dipanano in modo chiaro, analitico, pulito. Ma il suo grande merito, ancora più di questo, è quello di riuscire a svicolare dal determinismo. Nonostante il piglio illuministico della sua regia, non ci si ferma alla semplice constatazione che da A si è costretti a passare a B, e da B si deve andare a C. Ognuno degli episodi vede aprirsi una voragine, una crepa inaspettata, un nodo che le contestualizzazioni impeccabili operate dalla narrazione non bastano a spiegare. La testimonianza comicamente equivoca della moglie che condanna il poveraccio; la decisione improvvisa e assolutamente inattesa di occuparsi della servetta nuovamente incinta dopo che il primo falso allarme lo aveva quasi condotto all’aborto clandestino; marito e amante della stessa donna uniti nella beffa di trovare un altro uomo al di lei fianco una volta usciti da tre anni di galera a causa sua.
Ma non si tratta di semplici “colpi di scena”. Di fatto questi buchi neri che limitano e sostengono l’illuminismo di fondo dell’operazione, non sono confinati alla narrazione. Piuttosto, si inerpicano e infiltrano nel tessuto generale del film, prendendo la forma di lievi “traballamenti” del placido scorrere del racconto. Indugi imprevisti sull’attraversamento a piedi di una foresta, parentesi descrittive sul marito fuggiasco che finalmente può prendersi un tè in pace in casa sua – insomma, una serie di microfratture che, senza scalfire il rigore cristallino della narrazione, inficiano in esso il sospetto che ci sia qualcosa di non riducibile alle concause che determinano l’agire di questo o quel personaggio.
Per questo, il migliore e il più lungo degli episodi è il quarto, ovvero quello incastonato in una cornice narrativa in cui un’anziana donna racconta al marito la storia che vediamo sullo schermo. Perché tutta la cornice, cui periodicamente il racconto ricorre nel corso del suo svolgersi, svolge questa funzione di “piccola scossa” che fa tremare le certezze che un’affabulazione filmica così limpida sembra inocularci: l’anziana donna si premura ripetutamente di chiarire al marito, troppo incline a pensare che sia la donna fedifraga la causa malefica di tutto, che le cose non sono così semplici.
Le cose, in A climate for crime, non sono così semplici. Sembra una banalità, ma non lo è, se pensiamo che lo stile del racconto è invece interamente portato a una radicale semplificazione delle cause e degli effetti. Guardandola da questo lato, è chiaro come nel film le cose sono sia semplici, sia non semplici.

28/30

AGRARIAN UTOPIA

di Uruphong Raksasad

Thailandia 2008, 122’

 

Bright future

La vita di una piccola comunità agricola del nord della Thailandia; accanto alle non facili condizioni materiali, ci si mettono altre difficoltà dovute ai debiti che le banche vogliono indietro. Dall’inizio alla fine, il protagonista rimarrà indeciso sull’opportunità di mollare tutto o meno per cercare lavoro in città.
Diciamo che questo è il minimo di “tensione narrativa” sfruttabile, ed effettivamente sfruttato, per lasciare il campo a una sinfonia visiva pacata e contemplativa; Raksasad utilizza la versatilità (e la nitidezza) del digitale per rinfoltire l’appassionata e ravvicinata ricognizione sul lavoro dei campi con una patina poetica mai, per fortuna, davvero estetizzante. Non ci si solleva mai granché da terra, non si eccede in tramonti e facili vedute d’insieme, ma si azzeccano “figure retoriche” rispettabili, come ad esempio la “rima”, sovente ripetuta nel tessuto del montaggio, della cupola dorata intravista sullo sfondo – uno dei rari appigli spaziali che ci vengono dati per orientarci in una terra che sembra sempre mancarci sotto i piedi. Cupola che a un certo punto viene sbrigativamente visitata dai protagonisti, in un ellittico sopralluogo risolto giustapponendo piani fissi – un po’ come il film intero, tutto giocato sulla successione evocativa di inquadrature perlopiù fisse, è un sopralluogo svolazzante su una terra che viene solo sfiorata dalla macchina da presa privandoci dell’illusione di poterla davvero “abitare”.
Perché nel film ci sono chiari segni di diffidenza circa la possibilità di racchiudere la terra in un “discorso”: all’inizio e alla fine, seguiamo il punto di vista del perplesso protagonista aggirarsi in comizi elettorali le cui velleità populistiche (tanto di una parte come dell’altra) sono inevitabilmente troppo lontane da ciò che ha vissuto giorno dopo giorno. Ed è con un certo scherno che ci viene presentato il personaggio del “professore”, ex insegnante che ha mollato tutto per venire a lavorare in campagna sulla scia di intenzioni a dir poco idealistiche. Alla fine, insomma, questa sorta di “diffidenza” verso il discorso si riverbera sanamente sulla pretesa poeticizzante dello stesso Raksasad: il quale per fortuna capisce bene che la terra si svela tanto quanto si “vela” (la cara vecchia “aletheia”), e che la descrizione “documentaria” di quel mondo non può che trovarsi bucato, forato da ogni parte dall’incanto. Anche perché i frammenti si susseguono spesso privi di soluzione di continuità temporale, dal giorno alla notte e viceversa – a meno che ci si soffermi (brevemente) per contemplare una particolare situazione atmosferica o una specifica azione da punti di vista diversi. Piano piano,questo mix di azioni ripetitive, scorci paesaggistici, dettagli suggestivi e altro si fa così fortemente eterogeneo e imprevedibile che il tempo sembra mancare. E la terra con lui.

27/30

BORDER

di Harutyun Khachatryan

Armenia 2008, 83'

 

Spectrum

Capolavoro di un cineasta assolutamente da scoprire, che da anni usa le sue colline armene come fossero la sua "Monument Valley". La vita aspra di un gruppo di pastori, resa ancora più difficile dal conflitto che oppone (sullo sfondo, appena percettibile) la loro nazione all'Azerbaijan (siamo nei primi anni '90).

Il punto di vista, è quello di un bufalo. Proprio così: il filtro della vicenda sono gli occhi di questo bufalo (che gode di molti primi piani in questo film) che all'inizio viene trovato in procinto di sprofondare in una palude, e che poi viene portato alla fattoria, da cui tenterà di scappare, fino alla finale contemplazione attonita dell'incendio che divampa e devasta tutt'intorno, proprio nel bel mezzo di un matrimonio.

Il punto di vista è quello del bufalo (doppiato da quello di un anziano ugualmente impassibile che spesso testimonia delle varie vicende) perché la macchina da presa a forza di piani fissi imbastisce un ritmo visuale di allucinata, "animale", granitica poesia. Senza dubbio, contribuiscono molto l'assenza totale di dialoghi, la sensibilità assoluta per le luci naturali e l'uso di lenti che restituiscono in maniera scioccante la vividezza dei contorni, la materialità impeccabile di qualunque corpo o oggetto inquadrato, al punto che tutto ci sembra così vicino alla percezione ordinaria di un eventuale testimone presente dei fatti, che più che di effetto tattile si dovrebbe parlare di effetto olfattivo: letteralmente sembra di poter annusare quei luoghi.
Ma la carta vincente è probabilmente il ritmo: è grazie a come Khachatryan indovina una sintesi astratta, spazialmente arbitraria (unendo insieme cioè elementi incomparabilmente distanti tra loro) e assai sincopata dei propri concretissimi materiali (leggere alla voce: Artavazd Pelechian, altro genio armeno del cinema) che Khachatryan riesce a evitare qualunque facile effetto contemplativo, e a conservare una tensione sempre molto sostenuta, per quanto pochissimo attribuibile a elementi narrativi.

Per quanto drammatiche, non sono infatti le vicende raccontate a tenerci incollati allo schermo: è la rigida e rarefatta aria di quelle colline, di quella vita, di quell'ecosistema spoglio e ostile, descritti passando in modo spesso rapido e sempre imprevedibile ora da una scheggia di lavoro nei campi ora a un dettaglio su una candela accesa ora a un primo piano, a colpirci in faccia con una crudezza che non riesce a non essere, anche, estremamente lirica e toccante. Immersi in un ambiente sonoro/musicale che, se possibile, rende il tutto ancora più lunare, veniamo sballottati continuamente da un qui-e-ora di inaudita tangibilità a un altro qui-e-ora che però non sappiamo più dove sia rispetto a quello precedente. Da natura morta a natura morta, mai pacificate e sempre duramente vibranti, ostili. Più che una ellissi vertiginosa, ogni taglio di montaggio è un buco nero, nel senso astrofisico del termine (anche perché più che in Armenia sembra ci troviamo in qualche paese sconosciuto). Nessuna inquadratura ci informa del suo contenuto, tutte esibiscono e enfatizzano la monumentalità del loro contenuto (anche quando si tratta di cose semplici e primarie), che sarà poi il veloce e straordinariamente inventivo montaggio a tramutare in Mistero.

30/30

MORPHIA

di Alexei Balabanov

Russia 2008, 102

 

Spectrum

La storia la conosciamo già, è quella cui un bel po' di letteratura e cinema russi ci hanno abituato: un medico giovane e volenteroso arriva in un paesino sperduto in mezzo al nulla. Arriva da una sceneggiatura che negli anni '90 Sergei Bodrov Jr. ha adattato da alcuni spunti autobiografici di Bulgakov. L'ambientazione, subito chiarita dal cartello iniziale per la serie chi ha orecchie per intendere intenda, pare tutto fuorché casuale: 1917.

Lo sviluppo, comunque, è assolutamente imprevedibile. Il sonnacchioso e compito dramma in costume che ci si aspetterebbe dalle prime scene, che introducono diligentemente il volenteroso giovanotto e la sua integrazione nel villaggio, cambia pelle quasi senza che possiamo accorgercene. Di fatto, i capitoletti in cui è scandito il film (del tipo la seconda iniezione, la prima amputazione etc.) impostano il dolcemente implacabile tran tran del dottorino di provincia, alle prese coi primi doveri e le prime soddisfazioni professionali.

Solo che il dottorino in questione si fa di morfina. Non è facile, del resto, dargli torto, viste le condizioni spaventose in cui si trova a vivere e lavorare.

Qualcosa per tirarsi su ci vuole. E, anzi, la cosa di fatto lo aiuta professionalmente: gli serve, in modo indispensabile, a conservare il difficile equilibrio di cui ha improrogabilmente bisogno. Iniezione dopo iniezione, il dottorino comincia a rovinarsi. Ma la grande intuizione di Balabanov è che questa decadenza viene mostrata come tanto inesorabile quanto, all'apparenza, inconsistente. Perché il dottorino con l'energia che gli viene dalla morfina riesce benissimo a salvare le apparenze e anche a salvare i malati. Se il suo crollo è inesorabile, nulla crolla intorno a lui. Il tran tran quotidiano che il film ha impostato così bene, di fatto non viene minimamente incrinato: anzi fa perfettamente da pendant con l'ossessività del protagonista che dilaga minuto dopo minuto, di cui si rivela una cornice perfetta, quasi simbiotica.

Diventerà più burbero coi pazienti, più indifferente a tutto e tutti, ma rimane il fatto che nulla, intorno a lui, crolla con lui. A parte la ragazza che si innamora di lui, e che condividerà il suo declino lento ma senza scampo.

Quando arriva a rubare (per farsi) la morfina necessaria a salvare due ustionati gravi, che quindi moriranno poco dopo, tenterà la carta della disintossicazione in clinica. Ma nulla verrà risolto: non sarà che il preludio al grandissimo finale in una sala cinematografica dove la folla, e l'ormai impazzito protagonista con lei, ride delle mute ombre che si agitano confusamente sullo schermo. Un finale banale e geniale per un film banale e geniale: Balabanov capisce bene che per contemplare un uomo che si trasforma in macchina consumatrice ci vuole una macchina a sua volta. Questa macchina è il cinema, la cui automaticità stavolta Balabanov sa perfettamente assecondare: conserva una tonalità narrativa glaciale anche davanti a scene di inaudita crudità (operazioni di chirurgia spicciola, amputazioni?), e soprattutto osserva il suo protagonista con inaudita impassibilità. È lui per primo sempre più ombra muta che confusamente si agita sullo schermo: la macchina da presa, appunto, si limita a guardare senza battere ciglio quello che si muove davanti a lei, senza nessuno scrupolo di sorta e senza esitare a, che so', staccare da un cavallo che arriva e parcheggia nel cortile della clinica a un pompino in medias res nell'ambulatorio del medico. Segue insomma con sovrana indifferenza il minuzioso resoconto dei gesti sempre più implacabilmente ossessivi del protagonista, senza mai scollarsi non tanto da lui, quanto da quella posizione di narratore esteriore e impersonale, in terza persona singolare delle azioni e dello spazio filmico, sempre mobile e fluidissimo, che le ospita. Senza, insomma, bisogno di ostentare indifferenza (che so, con piani fissi o luci fredde): quella trasuda abbondantemente da ogni movimento di macchina, da ogni minima piega di questo film di tranquilla, quasi sbadigliante atrocità autodistruttiva.

28/30

LETTER TO A CHILD

di Vlado Skafar

Slovenia 2008, 100’

 

Bright Future

Una voce (quella dello stupefacente regista del film) pronuncia alcune parole sottovoce; il rumore di una penna le segue. È una lettera (bellissima) a un bambino immaginario, per prepararlo non tanto a un’innocenza che non potrà non conoscere, non tanto alla sua perdita che ugualmente non potrà non conoscere, ma piuttosto a quella forma di innocenza, sublime e terribile, che rimane attaccata addosso anche quando l’innocenza è sparita. E che si attacca alla sparizione stessa, inesorabile, dell’innocenza – come qualcosa (che alcuni avvertiti chiama(va)no “aura”) che non vuole morire perché non può farlo.
Perché, certo, che si cominci il film (non va chiamato documentario, e neanche finzione) con dei vecchi filmini privati di un bambino, è ovvio. Ma che si abbia il coraggio di non terminarlo con un altro bambino, ma invece con altri filmini che fanno vedere un vecchio su una carrozzina che viene imboccato, lo è certamente meno. Ed è un una delle grandi scelte di quest’opera minuscola e sconvolgente. Ogni facile inno alla purezza dell’infanzia come fosse un tesoro “separato” è bandito con decisione (e coraggio).
La lettera (di toccante, sincerissima intensità) al bambino immaginario proferita/scritta dal regista è accompagnata da una serie di interviste indimenticabili, a gente comune, in ordine crescente di età. L’infanzia, l’adolescenza, l’età adulta, la vecchiaia… Nulla ci viene risparmiato delle durezze della vita: la lunga, squarciante intervista di mezzo è a due coniugi che hanno perduto non uno ma due figli nella stessa maniera (un incidente motociclistico) ma non nello stesso momento: prima uno, poi l’altro. Questa e altre contrarietà agghiaccianti della vita, però, convivono, non possono non convivere, con una forma di innocenza che sta, per così dire, “alle loro spalle”: la grandissima riuscita di Skafar è di farcela sentire. Ci riesce attraverso la straordinaria maniera che trova di fare aprire le persone con cui parla come più non si potrebbe, eclissandosi allo stesso tempo come intervistatore (sono monologhi, più che interviste), trovando insomma in loro una “luce” che fa il paio con quella, bellissima, che trova per le sue inquadrature, costruite su un ideale di compostezza che commuove tanto l’occhio innocente quanto quello più smaliziato. Skafar davvero trova e riproduce quell’atmosfera “domenicale” da vita che si ferma e si contempla incredula della propria stessa capacità di fermarsi e contemplare, percepita essa stessa come miracolosa (come in effetti è). Di scoprirsi “al di là”, ma proprio nel bel mezzo della vita che scorre, delle interviste/monologhi le cui “età” crescono col proseguire del film. Di avere la sensibilità per cogliere, e trattenere,
Da recuperare e da vedere ad ogni costo. Anche rivedere – ma va bene anche una volta sola, perché tanto non lo si dimentica. Come l’innocenza, perduta da bambini e ritrovata, sempre, per gravi possano essere le fratture, nell’aria e nella luce che invadono il fotogramma.

30/30

the HUNGRY GHOSTS

di Michael Imperioli
Stati Uniti 2009, 105'

 

Bright Future

Non cè bisogno di preoccuparsi della fine davanti a noi, perché non c'è, quanto è vero che non c'è un'origine dietro di noi? Così, pressappoco, la santona new age che apre e chiude il film, a cui più o meno tutti i protagonisti si rivolgono nel corso di essi. Sono gli "Hungry Ghosts" del titolo, ed è grossomodo lusuale sottobosco metropolitano più o meno borderline cui ci ha abituato il cinema indipendente americano nel corso di troppi decenni passati: il quarantenne divorziato che non riesce a essere un buon padre, l'adolescente alla deriva, la donna sola di mezz'età, lo spiantato dal cuore d'oro? Proprio a quest'ultimo tocca, a un certo punto, rivelare il progetto generale del film: quando esplode rabbiosa la sua diffidenza nei confronti dello zen approssimativo della santona, in favore dell'imperfezione irriducibile (e proprio per questo resistente a tutto, indistruttibile) che è l'Umano coi suoi difetti, appare ancora più chiaro come il film oscilli irresolutamente tra questo lasciare scorrere incurante di inizi e fini, e l'abbozzo di calore umano che troppi piccoli film indipendenti americani cercano di insufflare a forza.
Perché quel flusso senza origine né fine che apre e chiude il film, ha un nome preciso: è la televisione. Da lì, di fatto, proviene Imperioli, attore (e talvolta cosceneggiatore) del magnifico "I Sopranos"; e il suo esordio tenta maldestramente di unire quei ritmi, quelle ambizioni e quel mondo al minimalismo un po' facilone della scena indie newyorchese. E la cosa non riesce granché bene, persa quasi subito tra attori che non sanno cosa farsene di tutta l'attenzione che la macchina da presa rivolge ai loro personaggi, una fotografia impacciata che piazza aloni di buio a casaccio e scene sempre o troppo brevi o troppo lunghe.

Imperioli ci prova, a rendere affezionabili le sue macchiette troppo umane, ma, al di là anche dello scarso successo in merito, a un certo punto è inevitabile chiedersi: se non cè origine né fine, perché mai costruire tutto il film in funzione del finale?

In ogni caso, fortunatamente, Rotterdam è un festival troppo fuori dall'ordinario (e in senso buono, senza dubbio) per lasciarsi oscurare da un'apertura del genere. Anche perché, tutto sommato, linizio, come la fine, non esiste...

23/30

THE MIDDLE MISTERY OF KRISTO NEGRO

di Khavn de la Cruz

Filippine 2009, 70’

 

Spectrum

Qualcuno prima o poi farà una gigantesca retrospettiva/omaggio a Khavn de la Cruz. Ma difficilmente riuscirà a farci stare dentro tutto. Perché questa figura abbastanza singolare anche nel già singolare panorama filippino, che è anche poeta e musicista e molte altre cose oltre che cineasta, è capace di fare anche dozzine di film l’anno; più imprendibile ancora del prolificissimo Miike Takashi, soprattutto per via della frequentazione assidua del cortometraggio o di formati digitali “anomali”.
Nonché, oltre alle difficoltà pressoché insormontabili di semplice catalogazione, i suoi film sono spesso inclassificabili. Questo, per esempio, che roba dovrebbe essere? Nei primi minuti, un carabao (un bovino di quelle regioni) viene squarciato, e l’atto ci viene mostrato tutto, senza risparmiarci niente. Poi una figura più o meno cristologica (ma lo si capisce quasi solo dal titolo) trascina dietro per minuti e minuti la carcassa dell’animale, in mezzo a un rugoso e assolato paesaggio desertico. Arranca. Faticosamente. Viene perseguitato da voci quali “sono il bambino che hai sempre allontanato”, fa sesso (anche questo mostrato in dettaglio), assiste a rituali misteriosi e/o sciamanici, viene catturato e portato via da un gruppo di bambini (!) vestiti da centurioni romani. E ogni tanto, comunque, l’immagine del collo squarciato del carabao ritorna a farci visita.
Khavn azzecca in qualche modo, nel modo insieme accurato e raffazzonato che gli è proprio, una suggestiva atmosfera allucinata. Suoni grezzi ed ovattati, movimenti rallentati, riprese del Kristo Negro da lontano che lo isolano in mezzo al nulla, oppure al contrario proprio addosso a lui e alla sua pelle (un po’ alla Dwoskin, si direbbe), una patina finto-vintage appiccicata addosso al digitale, che lo sporca, lo stria e lo rattrappisce come il fotogramma fosse dietro a un vetro sporco.
Kristo Negro è una specie di Sisifo che continua ad arrancare sotto il peso della materia, di tutta la materia di quell’ambiente misterioso e ostile, tanto vicina a lui quanto impossibile da dominare e che anzi lo domina e lo schiavizza, e arranca così tanto che gli si schiudono le porte dell’estasi mistica. Un calvario che oltrepassa il suo limite fisico e si inceppa nell’incoscienza, in un’alienazione tiepida in cui finalmente non si sente più niente. E quest’estasi, ovviamente, non ci è fatta vedere come qualcosa che lui esperisce: piuttosto, prende corpo attraverso le sempre malferme inquadrature, troppo mosse quando sono ferme e che invece quando si muovono non possono girare che a vuoto, bloccate in una passività attonita. Prende corpo attraverso il senso di inerme estraneità di ogni immagine (anch’essa sempre arrancante, tremula, incerta, a metà tra la sofferenza e il sonno) con cui viene messo a contatto lo spettatore, la sensazione di apnea (o di sonnambulismo) che lo lascia, dall’inizio alla fine, assolutamente basito.

27/30

A L'AVENTURE

di Jean-Claude Brisseau

Francia 2008, 102'

 

Spectrum

Di punto in bianco, Sandrine si prende un anno sabbatico. Ha un lavoro, un ragazzo (che non la soddisfa, e per questo dopo un po' decide di provvedere di sola con masturbazioni e tradimenti), un po' di soldi da un'eredità. Incontra un giovane psichiatra, che poco a poco la introduce in serate sadomaso e persino in sedute di ipnosi capaci di sfociare in inaudite estasi mistiche. Ma lei, tutto sommato, dopo un po' comincia a preferire l'attempato e stralunato tassista che le parla delle stelle, dei dinosauri, del cosmo.
Jean-Claude Brisseau è, e non certo da oggi, una delle poche vie davvero intelligenti alla pruderie. Non solo e non tanto perché tratta glacialmente i suoi soggetti bollenti, immobilizzando paesaggi, volti e corpi in un'immobilità pressoché bergmaniana. Quanto perché, come nel film precedente (intitolato nientemeno qualcosa come Gli angeli sterminatori) sicompiace a inerpicarsi lungo le infinite vertigine teoriche del chi-guarda-chi, dell'opacità cercata caparbiamente dal voyuerismo, della differenza invalicabile tra i sessi, eccetera eccetera. E ambizioni del genere, sorpresa, è capace di reggerle.
Pochi stili come quello di Brisseau, autentico maniaco della posa rigida e spigolosa, meglio ancora se investita (come spesso gli accade) da una luce splendente come loro ma fredda come lacciaio e che proietta nere ombre di fuoco, riuscirebbe a rendere l'immobile e tranquilla apatia in cui Sandrine è caduta, trovatasi di colpo assediata dalla consapevolezza che tutto è imprigionato in se stesso. Non è il lavoro che lascia, non è il ragazzo che ugualmente lascia, non sono le liberazioni sessuali o meno subito rivelatasi per lillusione che sono. È che tutto è imprigionato nella propria immagine, in quella spigolosa consistenza che Brisseau (anche e soprattutto quando si tratta di corpi giovani, sulla cui soffice voluttuosità il cineasta francese ama soffermarsi) cerca e trova così bene, e che il tassista-filosofo, che si rivelerà ex professore di fisica, imputa allunica materia davvero, e gloriosamente, universale: la luce. Persino la voce ha una consistenza che potremmo, in teoria, rincorrere o superare nel tempo quando la emettiamo ma non la luce, che anzi ci informa tutti; tutto ha una consistenza luminosa, unarmatura invisibile che la inquadra in una certa circostanza. Genere umano compreso, usuale e proverbiale granello di sabbia nella storia dell'universo, che con la solita piacevole pedanteria (quella di Brisseau, in definitiva) il tassista non manca mai di tirare fuori.

E allora, è fin troppo facile fingerci ipnotizzatori da strapazzo, come fa lo psichiatra che sveglia attraverso la sguardo nella sua accolita (con cui tradisce Sandrine, ovviamente) forze che non si è in grado di controllare, per approfittarne sessualmente. Troppo facile approfittare della libertà di cui ci illude il nostro sguardo (e che pure Brisseau fa sua, facendone uso raffinato e disinvolto della propria marmorea abilità visuale). Piuttosto, Brisseau ci invita a soffermarci su quanto lo sguardo stesso non solo cerchi voyeuristicamente delle opacità più o meno voluttuose, ma sia esso stesso immobile (Sandrine ha sempre lo sguardo fisso nel vuoto), immobile e immensamente brulicante di movimento e di infernali violenze come lo è l'immagine di un paesaggio qualsiasi (così spiega il tassista), come quello che Sandrine e il tassista guardano alla fine del film, la testa di lei sulla spalla di lui, la differenza sessuale disattivata e riconvertita nella rassegnata contemplazione di quanto qualunque cosa sia imprigionata in se stessa, una cartolina da un paesaggio qualsiasi, statica e mobilissima allo stesso tempo, che è laltra faccia, inversa, del movimento da fermo che si è visto solo pochi minuti prima: la levitazione della donna ipnotizzata e distesa immobile sul pavimento.
Sandrine e il tassista, di spalle, sulla panchina davanti a un bucolico paesaggio: dopo tanti dialoghi (del tassista) su come tutto luniverso sia pieno di vuoto, e dopo tanti sguardi fissi nel vuoto, finalmente uninquadratura (kubrickiana?) in cui lo sguardo è esso stesso calcificato nella stessa mobilissima immobilità che si illude di guardare. Non possiamo illuderci di metterci al di qua (voyeuristicamente) della infernale compresenza di movimento e staticità: le due cose sono irrimediabilmente, tragicamente, la stessa cosa. E finalmente, limmobilità anche registica di A l'aventure, sospesa tra ieratica ipnosi sensuale e il sospetto che anche lo sguardo è pietra tra le pietre, sposta lago della bilancia decisamente verso il secondo polo.

28/30

 

38.mo festival di rotterdam
Rotterdam, 23 Gennaio - 03 Febbraio 2008