37.mo festival di
rotterdam
Rotterdam, 23 Gennaio - 03 Febbraio 2008
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di Marco GROSOLI
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CHOUGA
di Darezhan Omirbaev
Kazakistan 2007, 88' |
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Anna Karenina bizzarramente
trapiantata nel Kazakistan di oggi (e ribattezzata Chouga), in preda alla
speculazione edilizia e ai nuovi ricchi. Omirbaev è un grande regista kazako
(Kairat, The Killer, Jol...)
il cui stile, la cui moderata impassibilità dà l'impressione dell'ironia
involontaria, sembra una torsione fertile della ieraticità realista dei
grandi iraniani, soprattutto per lo scrupolo con cui si attiene alla
disciplina dell'inquadratura e del punto di vista. Un gusto azzeccato della
divertita licenza poetica, ma anche della flagranza del reale catturata
tutt'intorno ai pesonaggi.
Senza rinunciare a una tessitura limpidamente filmica di sguardi, dialoghi e
azioni, il tessuto ogni tanto sembra di punto in bianco smagliarsi, e senza
nemmeno che ce ne rendiamo conto il tempo si è bloccato e il punto di vista
è diventato statico, fisso a contemplare una realtà che pare scorrere per
conto suo come su di uno schermo. Il che spiega perché Omirbaev, che
distilla tutta l'azione in un'adamantina e tranquilla asciuttezza, faccia
uso così frequente di specchietti retrovisori, superfici riflettenti,
inquadrature dentro l'inquadratura (tipo il famoso finestrino dell'auto di
Kiarostami): la realtà come una pellicola che scorre dentro il mondo, e che
alla fine è il mondo stesso.
Ma questo senso di distanza impotente non si traduce mai in impotenza
tragica: piuttosto è l'antidoto stesso alla tragedia. Un'epoché serena sui
mali del mondo guardati volenti o nolenti da lontano, anche se non “da
fuori”. Anche qui, la tragedia di Chouga e del suo spasimante viene
radicalmente occultata, resa soltanto allusivamente e mai e poi mai
rappresentata direttamente. Viene cortesemente allontanata per concentrarsi
sulle vicende del giovane fotografo sfigato, innamorato della ragazza che lo
spasimante di Chouga lascerà per lei. Per pura inerzia, il nerd sposerà
effettivamente la ragazza e chiuderà il film incamminandosi verso una vita
mediocre e sbeffeggiando il futuro, che il suo amico (analogamente allo
sviluppo economico selvaggio kazako) esalta (“Ora stiamo entrando nell'era
dell'Acquario!”) ma che lui, forte del “voyeurismo partecipe” assorbito
dietro l'obbiettivo della macchina fotografica, sa bene essere la
ripetizione costante del sempre uguale.
Che è poi la ragione per cui “Anna Karenina” può avverarsi anche nel 2007.
Il mondo è sempre quello, sempre incastrato nella stessa pellicola che non
vediamo mai scorrere. Tanto vale provare a guardarlo serenamente, e Omirbaev
ci mostra come si fa.
28/30
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ONLY CHILD, UPWARD, DOWNWARD,
FORWARD, BACKWARD, RIGHTWARD
AND LEFTWARD
di Cui Zi'en
Cina 2007, 70', |
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Star assoluta della scena
gay (anche, ma non solo, cinematografica) pechinese, Cui Zi'en gira in video
un arabesco poetico (metaforico molto più che metonimico), in cui alcuni
giovani intrecciano esperienze e conoscenze (non esclusivamente omosessuali)
tenendo in mano dei recipienti di vetro che dovrebbero rappresentare il loro
intimo, o più probabilmente il vuoto trascendentale kantiano della loro
coscienza. Nel frattempo, una voce over ogni tanto fa capolino e riscrive la
storia della creazione del mondo facendone una progressiva nientificazione.
Una complessa, e non troppo agile, metafora sull'impossibile annullamento di
sé nell'altro, destinato neanche troppo dolorosamente a fallire. “La mia
casa è grande, ma cos'è al confronto della tua, che è il cielo e la terra?”
Il fatto è che prima o poi un tetto sulla testa bisogna cercarlo, e il
protagonista stesso, dopo aver visto gli amici progressivamente abbandonare
questa figura maschile carismatica ed assoluta (sono suoi il cielo e la
terra) che vive sulla spiaggia e di cui è innamorato, lo abbandonerà a
propria volta.
Giova poco all'impianto allusivo il peso eccessivo dato ai dialoghi
costantemente sopra le righe. Giova assai, invece, il contrasto tra le
situazioni esoteriche messe in scena (figurativamente comunque piuttosto
elementari) e la concretezza estrema e pixellosa del video. Un'ordinaria
fisicità che a propria volta si smaterializza nella sublime indistinzione
del mare, sfondo onnipresente degli svolazzi poetici del film (ambientato in
gran parte du una spiaggia), tela astratta che Cui utilizza per tracciare le
sue immagini, dando così loro una forza effettivamente non trascurabile. Ciò
che risulta da queste spinte contraddittorie non è male, lo si guarda
intrigati e incuriositi, ma scacciare l'impressione d'irresolutezza rimane
molto difficile.
26/30
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CROSSROADS
di
Wang Jing
Cina 2007, 140' |
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Un “college movie” corale
nella Cina di oggi, dove le ansie e le gioie della giovinezza sempre lì lì
per essere perduta si mischiano con una resa piuttosto felice di un contesto
culturale, nazionale, sociale e finanche antropologico, di una certa
pregnanza ed attualità. C'è tutto: le gang di bulli, i primi amori, le
incomprensioni amicali eccetera eccetera. Per quanto la giovanissima regista
fresca di accademia (e si vede) citi Jia Zhang-Ke, è lampante che i suoi
veri modelli sono i grandi taiwanesi degli anni '80 e '90 (ok, non che Jia
li ignorasse, anzi), Edward Yang su tutti (e specialmente il capolavoro
assoluto A Brighter Summer Day).
Stessa sobria malinconia, stessa grande capacità di dominio compositivo dei
campi medi, ricorrentissima marca stilistica nel film (e in Yang), che
permette da un lato l'apprensione della durata in continuità senza
sacrificare la fluidità narrativa, e dall'altro l'inserimento fattivo della
figura umana nell'ambiente.
È anche vero che tutto sa un po' di già visto... E se in
A Brighter Summer Day
l'irruzione della tragedia avveniva con discrezione renoiriana avendo
comunque sullo spettatore l'effetto di una violenta mutilazione, qui una
mossa del tutto analoga si riduce a poco più di un buffetto. Non è solo
questione di leggiadria di toni o sorridente banalità del contenuto. È
proprio la forza della visione del mondo a monte che è diversa.
Comunque sia, per un esordio basta e avanza: la ragazza ha studiato, e bene.
Quando non si curerà più di infilare i pezzi di bravura (notevoli: vedi come
usa il fuoricampo nella scena climax del doppio scontro violento nella
notte, e come sempre lì passa da una situazione a quella contigua) nei punti
di maggiore esposizione narrativa, e quando non sentirà più il bisogno di
affidarsi così strenuamente e timorosamente al dialogo (pressoché
debordante), potrebbe anche fare qualcosa di molto, molto buono.
26/30
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SEVEN
INTELLECTUALS IN BAMBOO FOREST part 1-5
di Yang
Fudong
Cina 2007, 229' |
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Esponente tra i principali
della nuova ondata cinese che oggi egemonizza (o quasi) l'arte
contemporanea, Yang Fudong nel corso degli ultimi anni ha presentato a
Rotterdam un curioso work in progress. Ogni anno, un'ora circa di
esperimenti visivi in bianco e nero, ognuno dei quali avente come trait
d'union la compresenza di sette giovani (intellettuali?) in un
determinato luogo, a fare poco o niente, o a far finta di fare. Prima in
visita al monte Giallo, poi a casa di una coppia, poi a lavorare nei campi,
poi nei pressi di una località marina, poi in una grande città. Nessun
dialogo (salvo la seconda parte, in odor di psicanalisi), scampoli di azioni
senza un vero senso, sospese a mezz'aria dentro una straordinaria
elaborazione pittorica (in bianco e nero).
Rotterdam li ha presentati tutti in una volta, e il risultato è
stupefacente. Stupisce soprattutto il passaggio dal primo episodio, ancora
"calvinkleinish" e pittoricissimo, a uno stile via via ripulito e
concentrato sulla pura resa grafica dei gesti dentro la composizione
figurativa. Il montaggio, poi, compone queste ipotesi larvali di azione in
uno spazio completamente astratto e virtuale. Disgiunge le inquadrature tra
loro più che aggregarle. Si guarda bene dal rivolgere il gesto (elemento
principe dell'operazione) verso lo spettatore, a risolvere "così presto",
per così dire, l'intenzione estetica in gioco. Bensì, prende il gesto e lo
mantiene in un'ovattata indipendenza spaziale che sarà poi il montaggio, di
nuovo, a far finta di violare. Perché è appunto il montaggio a suggellare
definitivamente la sublime gratuità del tutto anziché costruirgli un senso
additivo. Il visibile è ridotto a un muto segno (naturalmente qui il bianco
e nero è essenziale): un mezzo che non esprime nulla se non se stesso, ma
sempre più capace di sfuggire, di episodio in episodio, alla trappola
"artistica" di porsi come fine in se stesso. E dunque sempre più capace di
lasciar galleggiare semplicemente il segno in quanto puro mezzo,
sottraendolo alla tentazione di esporlo artisticamente. Il che è possibile
anche perché Yang riesce sempre di più a ritagliare uno spazio contenitore
dei gesti ritratti (grazie soprattutto ai carrelli e ai movimenti di
macchina della quarta e quinta parte) e a giocare con le variazioni modulari
di uno stesso schema (la quinta soprattutto).
Se mai esiste un cinema situazionista oggi è questo. Una serissima parodia
del mondo e della sua attività: se il mondo è diventato immagine, vivere
dall'interno la sua immagine epidermica restituisce alla sua irrealtà tutto
il peso che il mondo ha perso.
30/30 e lode
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TWO IN ONE
di
Kira Muratova
Ungheria 2007, 120' |
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In una volta sola, cinema e
teatro, amore e morte, due mezzi film che valgono probabilmente due festival
interi. Si comincia in un teatro che viene allestito per un tutto esaurito
annunciato, nonostante la recentissima morte di uno degli attori. La fine
del segmento è affidata a un'altra morte, ancora più assurda della
precedente, e fa spazio alla piece vera e propria, che racconta di un
vecchiaccio cechoviano che vuole farsi una ragazza che vede sempre passare
sotto la finestra, e costringe dunque la figlia ad adescarla. Anche questo
segmento viene introdotto da una morte (quella del vecchio), ma la
successiva narrazione-flashback (peraltro enunciata dalla viva voce di un
ophulsiano imbonitore) non viene chiusa circolarmente dalla morte del
satiro, bensì termina sulla ragazza (l'adescata) che continua la sua vita.
Da sempre l'immensa Muratova indulge sfrenatamente al grottesco, grazie a
una strumentazione visiva praticamente inesauribile, una partitura
incessante di variazioni e deviazioni labirintiche. Teatro dell'assurdo in
piena regola (per l'accanita espressività dei gesti e degli elementi
scenici) che diventa cinema perché scopre, nel suo farsi, mille soglie e
mille limiti imprevisti da violare, al punto che la divisione binaria tra la
scena e la platea gli fa un baffo. E, sulla scia di questa, anche l'altra
divisione, quella tra vita e morte, sfuma i propri contorni.
Teatro a enne dimensioni, perversamente impigliato col cinema perché
straborda il proprio eccesso figurativo fino a costringersi a cercare sempre
nuove angolazioni, smorfie, impennate improvvise. Dove il set non è più
qualcosa che viene ripreso dalla cinepresa ma il luogo incollocabile dove si
intersecano mille sipari che si chiudono e si aprono.
Per questo, "2 in 1" è il Mulholland
Drive di Kira Muratova (o per altri versi il suo
Death Proof): un film
spaccato a metà, oltre che "entre deux morts" (Blanchot), perché' si ficca
dentro il cortocircuito tra "realtà" e "finzione". Il fiore trovato sul
cadavere dell'attore viene ritrovato, e ripreso, dalla ragazza adescata (la
musa muratoviana Renata Litvinova): la morte che innesca la vitalissima
sarabanda di bizzarrie (teatrali) della prima metà si ritrova, nella
seconda, reincarnata in desiderio, che a sua volta ha le sembianze sinistre
di un proiettore (il cinema) che manda automaticamente una serie di
diapositive pornografiche d'antan in un salone completamente vuoto. La
vitalità presente dell'eccesso teatrale rimira il cinema preso nella sua
compulsione ripetitiva all'assenza, ma alla fine non sa più se sta davvero
guardando lui o se stessa.
30/30 e lode
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four women
di
Adoor Gopalakrishnan
India 2007, 105' |
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Veterano di straordinaria
levatura, e da noi poco riconosciuto benché omaggiato anni fa dal Festival
di Pesaro e nel concorso (minore!) di Venezia 2002, Gopalakrishnan ci
presenta quattro brevi finestre sulla condizione femminile indiana. La
prostituta, la vergine, la zitella, la casalinga. Il quadro che ne esce è
piuttosto controverso; il tradizionalismo assedia la donna da ogni lato e le
lascia pochi spiragli.
Il migliore è forse il quarto, quello sulla zitella, per l'incredibile
raffinatezza di scrittura. Una donna che invecchia è raccontata ricorrendo,
impietosamente, al puro e semplice passaggio del tempo: in neanche mezz'ora,
impiegando elegantissime ellissi e malinconiche anafore (la barca che torna
continuamente a solcare le melmose acque della famiglia in cui la donna è
"confinata") Gopalakrishnan tocca tutto il peso di quello scorrere.
Comunque, più in generale, quello che potrebbe apparire "soltanto" come
un'assoluta padronanza della narrazione in vista esclusiva della descrizione
di uno "stato di fatto" (il film come denuncia, insomma) si regge invece su
ben altro. Di fatto, il nitore estremo della scrittura filmica concede a
questa perfezione di non chiudersi sull'affresco generico, ma bensì di
aprirsi a decisive parentesi descrittive "specifiche". La concatenazione
piuttosto lucida di eventi, spesso infatti si arresta di colpo per far
spazio alla minuziosa disamina "documentaria" di un rito matrimoniale, di
una pratica domestica, di un cerimoniale giudiziario, di una preparazione
culinaria. Il problema di quella condizione, per quanto mai e poi mai
presentato come fatalmente irrimediabile, è spinoso perché antropologico, e
la sua identificazione non può, pertanto, che essere dolorosamente ambigua.
Ragione per cui tutti gli episodi non si chiudono ma si sospendono (specie
il terzo, apparentemente più leggero e invece grazie all'impennata finale
clamorosamente indecidibile), infangandosi nel cuore del problema. Che è una
delle cose più effettivamente politiche che si possano chiedere a un film.
29/30
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MILKYWAY
di
Benedek Fliegauf
Ungheria 2007, 82' |
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Una dozzina
di vignette scollegate tra loro. Piccole gag (una tenda che vola via),
scampoli di tragedia (un'anziana che ha un malore in un giardino pubblico),
quadretti angoscianti (una pila di container da cui viene fatta uscire una
ragazza chiusa in un baule, mentre si sentono molte altri mani sbattono per
chiedere analoga attenzione), istanti inaspettatamente rasserenati (un
bambino e suo padre costruiscono un pupazzo di neve senza neve); il tutto
filtrato da una meticolosissima lentezza, da una ricca elaborazione visuale
e da un sonoro curatissimo: una specie di ininterrotto sciabordio lynchano
che entra nel cervello grazie alla sapiente ripetizione ritmata di uno
specifico elemento per scena (un cinguettio, grida lontane di bambini,
l'improvviso inasprirsi del vento eccetera).
Viene in mente You the living
e gli altri lavori di Roy Andersson, ma mentre per il Maestro svedese il
comico è la spina dorsale stessa del tragico perché slittamento interno
dello spazio (il quale è di per sé tragico, perché indice primo della
finitezza umana), in questo caso è una semplice deviazione di percorso.
Percheé il percorso c'è, nonostante l'insistita antinarratività: ogni gesto,
ogni azione e ogni movimento è rallentato per esporne analiticamente la
continuità con tutti gli elementi che succedono e precedono. E non a caso la
dominante grafica di tutte le scene è una fortissima orizzontalità: quello
che traspare è, alla fine, l'attenta volontà di seguire le spire nel tempo
nelle sue forme anche piu' microscopiche sotto l'apparente immobilità; un
tempo lineare e dunque orizzontale. Tutto viene orientato sul principio
cardine della gradualità, il lento e progressivo diventare campo del
fuoricampo, fino a lambire la coreografia.
è infatti una coreografia
l'ultima e migliore delle sequenze. Le nitide silhouette di due bambini che
ballano sullo sfondo delle luci sfuocatissime di una città: il gioco,
allora, è alla fine, quello solito tra l'informe (il tappeto sonoro) e la
forma. Pregevole, ma forse troppo ancorato al figurativo, ai pur notevoli
umbratili cromatismi dell'inquadratura.
26/30
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37.mo festival di
rotterdam
Rotterdam, 23 Gennaio - 03 Febbraio 2008
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