37.mo festival di rotterdam
Rotterdam, 23 Gennaio - 03 Febbraio 2008

 

la iv generazione del cinema cinese

 

di  Marco GROSOLI

Alla fine di Troubled Laughter (Yang Yanjin, 1979), capolavoro assoluto della quarta generazione del cinema cinese, un giovane giornalista viene portato via da casa sua per indisciplina politica. Qualche decina di minuti prima, il giornalista aveva immaginato una scena uguale, però tra pianti e urla dei familiari. Ora invece è tutto quasi tranquillo, è la serenità amara con cui si va incontro a un destino tragico, ineluttabile, ma moralmente necessario.
Una scena del genere sembra dirci che, magari inconsciamente, la quarta generazione del cinema cinese sapeva già a cosa andava incontro. Un'intera schiera di cineasti, appena finita la scuola, vede distrutta sul nascere la propria carriera perché sta esplodendo la Rivoluzione Culturale. Dieci anni dopo, a Rivoluzione conclusa, costoro riguadagneranno il set e approfitteranno di un'eccezionale congiuntura che concedeva loro inusitati margini di autonomia per il contesto produttivo cinese “ufficiale”. Infatti, la gente dopo la Rivoluzione Culturale aveva molta fame di film, lo Stato nella sua duplice veste burocratico-oligarchica e militar-popolare doveva fare in qualche modo marcia indietro, non foss'altro che di facciata, rispetto alla Rivoluzione Culturale (a fine anni 70 infatti Deng Xiaoping comincia l'apertura al capitalismo), la censura doveva per forza, date tali circostanze, evitare l'intransigenza assoluta, e quant'altro.
Sicché, per un film o due questi signori hanno girato autentici capolavori, per poi inevitabilmente sentirsi richiudere dietro di sé le porte dell'autonomia creativa: gli studios consolideranno di anno in anno sempre più il loro controllo, così come l'apparato censorio (per non parlare poi della tenaglia bifronte capitalistico/collettivista di Deng). A rimpiazzarli, ci sarà l'assai meno problematica quinta generazione dei vari Zhang Yimou.


Già nel 1979, allora, Troubled Laughter sembra avere le idee chiarissime. E per questo il suo stile è così confuso e giustamente velleitario/sperimentale, con tanto di parentesi onirica con burocrati cannibali in divisa nazista: le idee chiarissime sono su quanto è cieco il vicolo cieco della situazione in questione. Fu Bin, giovane giornalista, si scontra con un potere corrotto volgare e onnipervasivo, pronto a schiacciare qualunque forma di vita intellettuale trasformando chirurghi e scrittori in vecchi relitti pronti per la discarica. Si scontra soprattutto con se stesso e con le proprie indecisioni. Prova diperatamente a conservare un'etica professionale, a denunciare il denunciabile. E fallisce, ma dopo aver lottato e conquistato una coerenza. Il futuro, pare dirci Yang, è inevitabilmente negativo: dopo la catastrofe (la Rivoluzione Culturale), c'è spazio solo per l'oblio. Eppure, bisogna provarci lo stesso. Lo fa Fu Bin, lo fa Yang Yangjin e lo fanno tutti i registi passati in questa straordinaria retrospettiva: affrontare l'inaffrontabile, ovvero quel traumatico buco nero della storia cinese che è la Rivoluzione Culturale. Dare un volto, un'immagine a quel grumo contraddittorio, incandescentemente ambiguo che è stata quella catastrofe. Scontrandosi in primis con la propria incapacità di intellettuale di poter davvero venire a capo di una cosa così grande e così complessa.
Noi stessi, naturalmente, non possiamo illuderci di poter penetrare in un ambito così complesso e così lontano geograficamente, storicamente, antropologicamente. E mancare il bersaglio e la comprensione, anche grottescamente, è per noi in qualche misura inevitabile. Ma possiamo, e dobbiamo, ammirare la straordinaria complessità ideologica di queste testimonianze: ognuno di questi film è squartato in mille direzioni diverse, e presenta il trauma come un groviglio di responsabilità da cui nessuno si salva.
 

Come nel disarmante A narrow lane celebrity (Cong Lianwen, 1985), commedia che mostra la tragedia ma vi sorvola dolorosamente perché conscia della propria incapacità di raccontarla, la quale viene letteralmente messa in scena. Protagonista è un anziano scrittore (Sima Shouxian) che sta per pubblicare un libro di ricordi sulle piccole e grandi meschinità della Rivoluzione Culturale. Ma, insiste l'editore, il protagonista (lui stesso) dev'essere un'eroe sennò il libro non si vende, mentre invece il vero Sima, e persino il Sima del suo manoscritto già di suo discretamente idealizzato, è sostanzialmente un vigliacco opportunista, uno scaltro che il caso ha ingiustamente vestito di eroismo. Con mille argute sfumature, Cong scardina la struttura binaria che dovrebbe opporre la “realtà” dei flashback alla finzione letteraria che Sima e l'editore provano a imbastire, galleggiando sempre su una sottilissima ambiguità. Anche perché il presente post-rivoluzionario che circonda lo scrittore e l'editore supera in grottesco qualunque immaginazione idealizzante (e non in “realtà”).
 

Sima non è certo l'unico narratore incapace di raccontare: anzi la tematizzazione dell'incapacità di racchiudere davvero il trauma in un unico sguardo è tra gli elementi più ricorrenti e preziosi di questi film. Per esempio The alley (Yang Yanjin, 1981) racconta di un umile meccanico che racconta a un regista di un suo amore di gioventù che finirà in tragedia (anche) per colpa della Rivoluzione Culturale, e a seguito di cui lui finirà cieco. Al regista piace, il film si fa, ma non si sa come finirlo. Sarà proprio il meccanico che surclasserà il regista, il quale voleva un finale più comodamente strappalacrime e cinico (i due si riincontrano nel presente, ma lei è vacua e festaiola e menefreghista), suggerendo invece un finale più pragmatico e aperto alla speranza. La costruzione intricata e gli sbalzi traumatici di tono manifestano una lacerante volontà di trovare una propria voce pur avvertendo l'impossibilità di poterla raggiungere davvero. Come poi avveniva in Troubled laughter dello stesso regista, in cui, ancora sintomaticamente, il protagonista andava al circo, e dopo la diffidenza iniziale si sbellicava dalle risate per poi diventare ancora serissimo vedendo un'acrobata in equilibrio su un filo sospeso sull'abisso: situazione che gli ricorda i mille equilibrismi con cui quotidianamente riuscire a salvare la propria deontologia professionale senza venire ridotti alla fame. Riconoscersi parte del crudele spettacolo che si condanna: altro elemento ricorrente di questi film.
 

Il che non significa che questi registi non abbiano cercato il nitore delle forme melodrammatiche: anzi, proprio queste sono tra le vette più significative della rassegna. Little flower (Huang Jianzhong, 1979), odissea famigliare delirante, che a furia di tracciare geometrie della commozione col righello sfora nella pura lisergia (una ragazza porta su di una barella un soldato ferito, che ancora non sa essere suo fratello, in ginocchio scalando centinaia di scalini che si inerpicano su una montagna, con le gambe che le sanguinano e rimirata dalla soggettiva di un uccello rapace che la guarda dall'alto!). Ma soprattutto il magistrale Evening rain (Wu Yigong, Wu Yonggang, 1980), girato tutto su di un battello in cui una popolana dell'esercito (fanatica che progressivamente si pente degli eccessi della Rivoluzione Culturale) scorta un intellettuale perseguitato che ritrova a bordo la figlia perduta. Inaudito e claustrofobicissimo gioco di sguardi incrociati (contrapposto al vagare non vista, e già in quanto tale epitome di speranza, della bambina clandestina che si rivelerà la figlia), rete asfittica e chiusa di occhi che si incrociano e innervano una situazione letteralmente insostenibile e che non si sa come prendere, che istericamente si sfoga nel periodico irrompere di flashback che svelano la caldissima materia narrativa con spietata gradualità.
 

Ma la comprensibile ossessione per la Rivoluzione Culturale può assumere anche forme meno drammatiche. Sacrificed youth (Zhang Nuanxin, 1985) illustra il diario di una reduce dai lavori forzati nelle campagne, diviso tra l'incompatibilità antropologica e la curiosità umana verso un'umanità abissalmente rurale. Un film diviso tra questo stesso dilemma e un'affascinata contemplazione, che alterna uno sguardo “alla Olmi” (per dire) all'”attestazione di presenza” dall'interno che è la camera a mano, nella sua costitutiva indecisione, che è poi il segno fondamentale della protagonista. Anche qui, l'oblio è lo scoglio temuto e invalicabile: il villaggio in questione, qualche tempo dopo la partenza della protagonista viene sommerso da una gigantesca colata di fango.
 

Oppure Woman demon human (Huang Shuqin, 1987), in cui la Rivoluzione è un mero episodio di qualcos'altro: il biopic della prima attrice donna a recitare a teatro il demone maschile Zhong Kui. Un'irrefrenabile oscillazione tra maschile e femminile, realtà e travestimento teatrale, racconto lineare e squarci visionario-teatrali. Un gioco di specchi di inaudita complessità che corre a perdifiato in avanti, con l'accumulo sincopato di micro-eventi, solo per ritrovare sempre l'origine, l'indistinzione primordiale tra la maschera e il volto, tra lo spazio scenico e lo spazio della realtà, tra il proprio vero padre e quello che si è creduto l'amante della madre nella “scena primaria” di lei bambina che li vide copulare.
Insomma: pare davvero necessario, oggi, recuperare questa straordinaria stagione cinematografica. Film che materializzano il passato inaffrontabile della Rivoluzione Culturale presentandolo correttamente come un tizzone che non si può prendere in mano senza scottarsi, come un evento letteralmente inavvicinabile. Scegliendo, dunque, una forma dolorosamente irresoluta, che incarna nella propria stessa frastagliatezza tutta questa impossibilità. Del tutto parallelamente, è per noi irrinunciabile, oggi, recuperare questo passato cinematografico, proprio in quanto inavvicinabile, proprio perché fatto di forme che non si lasciano prendere in mano e gestire comodamente o criticamente o sociologicamente. Testimonianza dell'intestimoniabile: il passato come irrecuperabilità, e proprio per questo da recuperare per toccare quella negatività che è il cuore vero ed eterno dell'eterno scorrere della Storia.

 

37.mo festival di rotterdam
Rotterdam, 23 Gennaio - 03 Febbraio 2008