37.mo festival di
rotterdam
la iv generazione del cinema cinese
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Alla fine di
Troubled
Laughter (Yang Yanjin, 1979), capolavoro assoluto della quarta generazione
del cinema cinese, un giovane giornalista viene portato via da casa sua per
indisciplina politica. Qualche decina di minuti prima, il giornalista aveva
immaginato una scena uguale, però tra pianti e urla dei familiari. Ora
invece è tutto quasi tranquillo, è la serenità amara con cui si va incontro
a un destino tragico, ineluttabile, ma moralmente necessario.
Come nel disarmante
A narrow lane celebrity (Cong Lianwen, 1985), commedia
che mostra la tragedia ma vi sorvola dolorosamente perché conscia della
propria incapacità di raccontarla, la quale viene letteralmente messa in
scena. Protagonista è un anziano scrittore (Sima Shouxian) che sta per
pubblicare un libro di ricordi sulle piccole e grandi meschinità della
Rivoluzione Culturale. Ma, insiste l'editore, il protagonista (lui stesso)
dev'essere un'eroe sennò il libro non si vende, mentre invece il vero Sima,
e persino il Sima del suo manoscritto già di suo discretamente idealizzato,
è sostanzialmente un vigliacco opportunista, uno scaltro che il caso ha
ingiustamente vestito di eroismo. Con mille argute sfumature, Cong scardina
la struttura binaria che dovrebbe opporre la “realtà” dei flashback alla
finzione letteraria che Sima e l'editore provano a imbastire, galleggiando
sempre su una sottilissima ambiguità. Anche perché il presente
post-rivoluzionario che circonda lo scrittore e l'editore supera in
grottesco qualunque immaginazione idealizzante (e non in “realtà”).
Sima non è certo l'unico narratore incapace di raccontare: anzi la
tematizzazione dell'incapacità di racchiudere davvero il trauma in un unico
sguardo è tra gli elementi più ricorrenti e preziosi di questi film. Per
esempio The alley (Yang Yanjin, 1981) racconta di un umile meccanico che
racconta a un regista di un suo amore di gioventù che finirà in tragedia
(anche) per colpa della Rivoluzione Culturale, e a seguito di cui lui finirà
cieco. Al regista piace, il film si fa, ma non si sa come finirlo. Sarà
proprio il meccanico che surclasserà il regista, il quale voleva un finale
più comodamente strappalacrime e cinico (i due si riincontrano nel presente,
ma lei è vacua e festaiola e menefreghista), suggerendo invece un finale più
pragmatico e aperto alla speranza. La costruzione intricata e gli sbalzi
traumatici di tono manifestano una lacerante volontà di trovare una propria
voce pur avvertendo l'impossibilità di poterla raggiungere davvero. Come poi
avveniva in Troubled laughter dello stesso regista, in cui, ancora
sintomaticamente, il protagonista andava al circo, e dopo la diffidenza
iniziale si sbellicava dalle risate per poi diventare ancora serissimo
vedendo un'acrobata in equilibrio su un filo sospeso sull'abisso: situazione
che gli ricorda i mille equilibrismi con cui quotidianamente riuscire a
salvare la propria deontologia professionale senza venire ridotti alla fame.
Riconoscersi parte del crudele spettacolo che si condanna: altro elemento
ricorrente di questi film.
Il che non significa che questi registi non abbiano cercato il nitore delle
forme melodrammatiche: anzi, proprio queste sono tra le vette più
significative della rassegna. Little flower
(Huang Jianzhong, 1979), odissea
famigliare delirante, che a furia di tracciare geometrie della commozione
col righello sfora nella pura lisergia (una ragazza porta su di una barella
un soldato ferito, che ancora non sa essere suo fratello, in ginocchio
scalando centinaia di scalini che si inerpicano su una montagna, con le
gambe che le sanguinano e rimirata dalla soggettiva di un uccello rapace che
la guarda dall'alto!). Ma soprattutto il magistrale
Evening rain (Wu Yigong,
Wu Yonggang, 1980), girato tutto su di un battello in cui una popolana
dell'esercito (fanatica che progressivamente si pente degli eccessi della
Rivoluzione Culturale) scorta un intellettuale perseguitato che ritrova a
bordo la figlia perduta. Inaudito e claustrofobicissimo gioco di sguardi
incrociati (contrapposto al vagare non vista, e già in quanto tale epitome
di speranza, della bambina clandestina che si rivelerà la figlia), rete
asfittica e chiusa di occhi che si incrociano e innervano una situazione
letteralmente insostenibile e che non si sa come prendere, che istericamente
si sfoga nel periodico irrompere di flashback che svelano la caldissima
materia narrativa con spietata gradualità.
Ma la comprensibile ossessione per la Rivoluzione Culturale può assumere
anche forme meno drammatiche. Sacrificed youth (Zhang Nuanxin, 1985)
illustra il diario di una reduce dai lavori forzati nelle campagne, diviso
tra l'incompatibilità antropologica e la curiosità umana verso un'umanità
abissalmente rurale. Un film diviso tra questo stesso dilemma e
un'affascinata contemplazione, che alterna uno sguardo “alla Olmi” (per
dire) all'”attestazione di presenza” dall'interno che è la camera a mano,
nella sua costitutiva indecisione, che è poi il segno fondamentale della
protagonista. Anche qui, l'oblio è lo scoglio temuto e invalicabile: il
villaggio in questione, qualche tempo dopo la partenza della protagonista
viene sommerso da una gigantesca colata di fango.
Oppure
Woman demon human (Huang Shuqin, 1987), in cui la Rivoluzione è un
mero episodio di qualcos'altro: il biopic della prima attrice donna a
recitare a teatro il demone maschile Zhong Kui. Un'irrefrenabile
oscillazione tra maschile e femminile, realtà e travestimento teatrale,
racconto lineare e squarci visionario-teatrali. Un gioco di specchi di
inaudita complessità che corre a perdifiato in avanti, con l'accumulo
sincopato di micro-eventi, solo per ritrovare sempre l'origine,
l'indistinzione primordiale tra la maschera e il volto, tra lo spazio
scenico e lo spazio della realtà, tra il proprio vero padre e quello che si
è creduto l'amante della madre nella “scena primaria” di lei bambina che li
vide copulare. |
37.mo festival di
rotterdam
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