festival intern. del film di roma

VIII edizione

 

Roma Capitale, 08  / 17 novembre 2013

 

 

recensioni

di Lilith Zulli

> hard to be a god di Aleksej Jurevic

> l'ultima ruota del carro di GVeronesi
> MaRINA
di Stijn Coninx

> planes di Klay Hall

 

hard to be a god
di Aleksej Jurevic
Germania/Russia
2013, 177'

 

Fuori Concorso

Premio alla Carriera

30/30

Presentato come l’ultimo dei grandi lungometraggi russi - “un film ancora capace di meravigliarci”, come lo ha definito Marco Muller - Hard to be a God è stato proiettato in prima mondiale al Festival Internazionale del Film di Roma. Ai familiari di Aleksej Jurevic German, scomparso lo scorso febbraio, è stato consegnato il Premio alla Carriera alla memoria del grande cineasta.
In un mondo fangoso, putrido, abbandonato da Dio - il pianeta Arkanar - si muove una delegazione di scienziati terrestri, inviati per aiutare la popolazione locale a superare la fase medievale e sanguinolenta della propria storia. Il compito è arduo perché gli scienziati non posso in alcun modo uccidere, ma non riescono ad evitare di scendere in campo per salvare quantomeno gli intellettuali della cultura locale e si trovano così a dover affrontare una questione millenaria per l’uomo: cosa faresti se fossi al posto di Dio? “Sarà difficile essere un dio - scrive dopo aver visto il film Umberto Eco - ma è altrettanto difficile essere uno spettatore in grado di affrontare un’opera così colossale. Dopo aver guardato la pellicola di German, posso senza dubbio affermare che i film di Tarantino sono, in confronto, semplici produzioni disneyane”.
German ci mette di fronte al grottesco, all’abietto, ricostruendo un universo iperrealistico nel suo arcaico e, allo stesso tempo, onirico e sbalorditivo. E pone l’uomo di fronte alla sua natura più primitiva e rozza con l’espressione estrema degli istinti corporali a partire da quelli sessuali fino ad arrivare all’uomo sbudellato e svuotato dell’intestino.
Una telecamera impietosa, stretta su visi e mezzi busti, incurante - ma non escludente - di ciò che succede davanti all’azione principale; una telecamera claustrofobica nel suo movimento roteante ma corto. Il film è lì, di fronte ai nostri occhi, e lo spazio filmico è incapsulato nella ripresa, non può sfuggire alla sua rappresentazione e ci mostra quanto impotente e meschina sia la natura umana. German ha un modo originalissimo di girare, un modo che ci mostra - chiaramente e definitivamente, come poche volte è stato fatto nella storia del cinema - che lo spazio filmico non è piatto e bidimensionale, ma esteso e tridimensionale. Sprezzante delle nuove tecnologie 3D, German ci mostra che il cinema tradizionale - qui quasi originario, anche grazie all’uso del bianco e nero - può ancora superare i suoi stessi confini: il movimento corto e circolare della telecamera ci mostra, proprio nel suo essere stretto, quanto ampio sia lo spazio azione filmica. Un spazio filmico estesissimo, ma che sceglie proprio per la sua natura - filmica, appunto - cosa mostrare allo spettatore. Con Aleksej Jurevic German il cinema supera definitivamente il proprio rapporto con la rappresentazione teatrale.

l'ultima ruota del carro
di Giovanni Veronesi
Italia 2013, 92'

 

Fuori Concorso

24/30

Il ritratto lucido e ironico dell’italiano medio e delle sue condizioni di vita e lavoro dagli anni Settanta a oggi: questo è il nuovo film di Giovanni Veronesi (CHE NE SARà DI NOI, MANUALE D’AMORE)“L’ultima ruota del carro, scelto come opera di apertura dell’8° Festival Internazionale del Film di Roma. Un convincente Elio Germano interpreta Ernesto, un uomo semplice che tenta di seguire le sue ambizioni senza mai perdere di vista i valori veri della vita. Il film è ispirato alla vera vita di Ernesto Fioretti, un autista di produzione poco più che sessantenne, con cui Veronesi ha stretto amicizia: “Tutto è nato un giorno - racconta il regista, - mentre uscivamo da un autogrill reduci da un pranzo non esaltante, Ernesto mi ha detto “Abbiamo mangiato peggio di quando facevo il cuoco d’asilo”. Lo sguardo naif di un uomo perbene - l’emblema di un qualunque italiano, intento a costruirsi una famiglia e a lavorare duramente - è il filtro attraverso il quale Veronesi può attraversare quaranta anni di storia italiana, sia i momenti brillanti del boom economico e della televisione in bianco e nero che gli anni bui del terrorismo e di tangentopoli. E nonostante le strane occasioni della sua vita, Ernesto rimane sempre uguale a se stesso, sempre onesto, fedele ai propri principi e a sua moglie Angela. “Un uomo - ha dichiarato Elio Germano - che pensa in modo autonomo, che è capace di affrontare scelte controcorrente e fuori moda ed ha il coraggio di non perdere la testa, passando indenne attraverso tanti eventi e cambiamenti. È un uomo che ha scelto di non approfittare delle situazioni e delle scorciatoie a portata di mano per arricchirsi, preferendo appagarsi come persona in una direzione non materiale: il rispetto delle persone, la condivisione, reale e senza secondi fini”.
Ad accompagnare Ernesto nella sua vita movimentata sono essenzialmente tre figure: la moglie Angela - interpretata da una non troppo brillante Alessandra Mastronardi -, una donna timida e paziente che si occupa della casa e del figlio e che appoggia il marito in ogni sua scelta; l’amico Giacinto - a cui dà corpo Ricky Memphis, immutabile e dalla comicità naturalmente innata - l’uomo “furbo” che non si arrende all’idea di essere l’ultima ruota del carro ma che, in realtà, briga e arraffa senza mai arrivare da nessuna parte; e il Maestro - un artista sregolato e famoso di cui Ernesto diventa il collaboratore di fiducia - per  la cui interpretazione l’energico Alessandro Haber si è appoggiato all’esperienza di Mimmo Paladino.
Dal mito dell’impresa famigliare a quello del posto fisso fino all’arrivismo dell’epoca berlusconiana. Veronesi attraversa vizi e virtù degli Italiani attraverso il modello dell’italiano medio, sfruttando gag e tipologie della migliore commedia all’italiana degli anni Settanta. Peccato che il film sembri non decollare davvero e arrestarsi al semplice affresco corale, senza tratteggiare una storia davvero unica e coinvolgente

planes
di Klay Hall
Stati Uniti
2013, 92'

 

Fuori Concorso

23/30

Riparte il Festival Internazionale del Film di Roma e con esso riparte “Alice nella città”, la sezione autonoma e parallela dedicata a bambini e ragazzi. Ad aprire la sezione il nuovo film d’animazione Disney in 3D Planes, uscito nelle sale italiane in concomitanza con la presentazione al Festival lo scorso 8 novembre.
Planes, per la regia di Klay Hall, nasce dal mondo di Cars - Motori Ruggenti - che già aveva infervorato i cuori dei più piccoli in questi ultimi anni - e presenta la storia di un piccolo aereo agricolo di nome Dusty che sogna di essere il più veloce aereo da competizione del mondo. Un successo già assicurato in partenza grazie all’accattivante design Disney e alla storia di facile impatto. Ha dichiarato il regista: “C’è molto sentimento e trasmette un messaggio che vale per tutti noi: se riuscissimo a credere in noi stessi, ad abbandonare le nostre sicurezze e a lasciarsi alle spalle qualsiasi paura che ci trattenga, rimarremmo sorpresi dai risultati che potremmo ottenere. Ed è esattamente quello che succede a Dusty in questo film”.
L’elaborazione di una storia apparentemente semplice come questa - un piccolo aereo che non è progettato per gareggiare in velocità, ma che grazie alla caparbietà e all’intelligenza riesce a realizzare il suo sogno e a diventare un campione delle corse - ha, in realtà, preso corpo mano a mano che i realizzatori hanno iniziato a prendere confidenza col vero mondo dell’aviazione. L’elaborazione dei personaggi, tutti personalissimi ed espressivi, è partita dall’idea che comunque erano aeroplani e così la produzione ha visitato musei, ha fatto ricerche, ha visitato portaerei e aeroporti e assaporato davvero l’atmosfera del mondo degli aerei cercando di carpirne il più possibile le caratteristiche tecniche: il risultato è che le ali non si piegano, le fusoliere non sono allungate e i propulsori si muovono come quelli veri.
Dusty è talmente perfetto in gesti e movimenti da sembrare per davvero un piccolo aereo parlante e da rendere entusiasti i bambini, ma all’occhio adulto la storia non è particolarmente originale. Forse la Disney ha stavolta davvero voluto puntare su un prodotto alla portata di bambino con una storia comprensibile, con un desiderio alla portata di bambino - quanti piccoli presenti in sala sogneranno di fare il pilota d’aereo da grande? - e con un personaggio simpatico e affettuoso. Deludente, però, l’uso del 3D con effetti davvero poco spettacolari: forse, ci aspettavamo, che la fabbrica dei sogni Disney avrebbe fatto di nuovo sognare anche quelli che piccoli non lo sono più.

marina
di Stijn Coninx
Belgio/Italia
2013, 123'

 

Evento Speciale

29/30

Una film che racconta il sogno di un ragazzo, quello di diventare musicista. Un sogno come tanti e tra i più diffusi, solo che la storia qui raccontata è quella del sogno di Rocco Granata, diventato famoso per davvero per aver composto nel 1959 la canzone “Marina”. Una storia vera, dunque, e un ritornello popolarissimo “Mi sono innamorato di Marina, una ragazza mora ma carina” che regalò a Rocco un grande successo di pubblico negli anni Sessanta e la possibilità per lui di girare il mondo. Marina era in realtà non il nome di una donna, ma una marca belga di sigarette, forse per Granata la concretizzazione di un sogno personale - il successo e la chance di fare un lavoro che lo appassionasse - piuttosto che un sogno romantico.

Ci piace la maniera con cui Marina affronta l’idea del sogno e della riuscita sociale, in tempi - il dopoguerra di un’Italia distrutta materialmente e moralmente - in cui quello che essenzialmente contava era lavorare e sbarcare il lunario giorno dopo giorno. E ci piace la maniera in cui affronta il tema cardine della storia, la questione dell’emigrazione italiana verso le miniere del Nord Europa: con realismo e senza pregiudizio, raccontando la difficile situazione di gente che non riesce a integrarsi con la popolazione ospitante soprattutto perché non ha i mezzi economici e linguistici per farlo. Figlio di un minatore calabrese emigrato in Belgio alla fine degli anni ’40, Rocco Granata si trovò ad affrontare un ambiente ostile, straniero, di cui intendeva la lingua con difficoltà e di cui ancor meno comprendeva la base culturale e sociale. Grazie alla passione per la musica e anche a un forte senso pratico della vita, Rocco riesce a ribellarsi alla vita che la società aveva già scelto per lui - “I figli dei minatori devono fare i minatori, c’è scritto sul contratto” recita una battuta del film - e a crearsi un futuro su misura per lui.

Un film bello, emozionante, ritmato, forte di una sceneggiatura appassionata e vitale. Un film a cui il pubblico del Festival Internazionale del Film di Roma, al termine della prima, ha dedicato una standing ovation di diversi minuti. Intense le interpretazioni: da Matteo Simoni (Rocco), romantico e spavaldo allo stesso tempo, a Donatella Finocchiaro (Ida, la madre), tenera e realissima, fino a Luigi Lo Cascio (Salvatore Granata, il padre) espressione corporale ed emozionale del dolore di tutta quella generazione italiana povera ed emigrante, affaticata da sofferenze e preoccupazioni. Un film che ci ha sorpreso, entusiasmato, ci ha fatto cantare e sognare la musica.

SITO UFFICIALE

 

festival intern. del film di roma

Roma Capitale, 08 / 17 novembre 2013